Acqua e terre rare. Introduzione
Di guerre per l’acqua se ne parla pochissimo: non hanno lo stesso appeal politico di quelle contro il terrorismo o per il petrolio o il gas, che poi sono praticamente le stesse perché risultato di in un intreccio fra fanatismo ideologico e religioso e grandi interessi economici che non conosce confini. Di questo tipo di guerre si sa già tutto, e l’opinione pubblica dispone ormai di una conoscenza critica dei fenomeni bellici che la porta spesso a interpretarli, giustamente, come l’ennesima prova di forza per l’accaparramento di queste risorse.
La carenza d’acqua, poi, per la società occidentale, non rappresenta un’urgenza come il mancato rifornimento di benzina alla propria auto: è un problema confinato a zone geografiche molto calde ma soprattutto lontane. Tutt’al più ci si confronta sul problema del suo inquinamento o dell’opportunità della sua privatizzazione o, nel caso di sporadici periodi di siccità, della cattiva gestione di impianti già esistenti. Ma - ed è opinione diffusa - la questione è circoscritta, e meno che mai può rappresentare un fattore di rischio bellico.
E’ tutto più che fondato e, sempre secondo i più riottosi, non è il caso di preoccuparsi, tant’è che dal fiorire di numerosi centri studi sulla hydrodiplomacy e sulle water wars degli anni ’90 si è passati a un numero così esiguo e limitato da far risultare il problema della scarsità d’acqua totalmente ininfluente o confinato a siti di carattere scientifico estremamente specializzati. E’ opinione diffusa, quindi, che di acqua ve n’è in abbondanza e la sua gestione è sotto controllo; se esiste un problema è così lontano e circoscritto ad altri continenti che non può rappresentare una minaccia, almeno nell’immediato.
In realtà, si tratta di diffusa e ingiustificata ignoranza, che rischia di schermare un’emergenza dai risvolti ben più pericolosi dell’aumento vertiginoso del prezzo del greggio o del limitato afflusso di gas.
Solo lo 0,75% del totale di acqua presente sul pianeta è, infatti, accessibile e utilizzabile per i bisogni umani primari. Inoltre, oltre 260 fra i maggiori bacini fluviali è diviso fra due o più nazioni, in una gestione che presuppone un equilibrio e una divisione non sempre facili e scontati, considerando che da quei bacini idrici dipende il 40% della popolazione mondiale.
Una nuova emergenza sta, inoltre, facendo capolino nelle pagine di quotidiani e riviste e che sembra assumere rilevanza strategica al pari del petrolio o del gas, e si tratta della questione delle riserve delle c.d. terre rare, ossia quell’insieme di 17 metalli, o meglio elementi chimici (scandio, ittrio, lantanio, cerio, praseodimio, neodimio, promezio, samario, europio, gadolinio, terbio, disprosio, olmio, erbio, tulio, itterbio, lutezio) così fondamentali per le nuove tecnologie, di cui, però, il 97% delle riserve mondiali è in mano, esclusive, della Cina, a cui seguono Russia, Brasile, India, Australia, Sud Africa, Kyrgyzstan e Malaysia e, sebbene con quote decisamente molto più basse, Indonesia, Nigeria, Corea del Nord e Vietnam.
Sino ad ora, non si è fatto altro che sottolineare la strategicità di questi metalli per il futuro della produzione di alta tecnologia e, di conseguenza, per la sopravvivenza del sistema economico e finanziario mondiale. Le nuove tecnologie, infatti, non hanno liberato le moderne economie nazionali dalla dipendenza di forniture strategiche: hanno solo sostituito gli elementi, con una competizione che si fa sempre più agguerrita fra rialzo dei prezzi e controllo dell’offerta, in particolare fra grandi economie di Paesi emergenti – come India e Cina – e per lo più asiatici – se si affianca anche il Giappone – e quelle dell’Occidente.
Tuttavia, come nel caso della poca attenzione ai problemi idrici mondiali, anche per le terre rare si tratta di un approccio superficiale che ben rappresenta la cattiva gestione dell’informazione e la relativa pessima divulgazione degli aspetti di un problema con implicazione decisamente strategiche per la sicurezza mondiale.
Proprio ad inizio di quest’anno sono apparsi (fra gli altri) due rapporti che evidenziano l’importanza cruciale di acqua e terre rare nella gestione della diplomazia e per la stabilità mondiale: si tratta del China’s Rare-Earth Industry, di Pui-Kwan Tse ed edito dall’ US Department of the Interior e US Geological Survey, e Avoiding Water Wars, del Committee on Foreign Relations del Senato statunitense.
Sebbene nel rapporto Avoiding Water Wars, il Committee del Senato statunitense per le relazioni internazionali sottolinei “la crescente importanza della scarsità d’acqua e dell’Asia centrale per la stabilità in Afganistan e Pakistan”, al suo interno sono evidenziati principi fondamentali per la politica estera statunitense, in cui l’hydrodiplomacy degli anni ’90 sembra prendere nuovamente vigore. Infatti, il rapporto testimonia la consapevolezza dell’amministrazione Obama “nel riconoscere il ruolo che l’acqua gioca nel raggiungimento degli obiettivi di politica estera e nella protezione degli interessi di sicurezza nazionale”.
La siccità, o comunque, la drastica riduzione di riserve idriche dovute all'aumento della popolazione, è una realtà molto diffusa nella penisola arabica; in alcuni casi, come in Arabia Saudita e in Yemen, si è provveduto nei decenni passati a sfruttare le falde acquifere. Ora non sono più sufficienti e il crollo della produzione di grano si è infatti imposto per la prima volta in questa regione mediorientale con le sue drammatiche conseguenze, anche di sicurezza interna.
La possibilità di water wars, inoltre, è confermata dai dati resi noti dalle Nazioni Unite, secondo cui dai 20 Stati "water scarse" del 1990, si è ormai giunti a 30, 18 dei quali sono in Medio Oriente e Nord Africa, fra i quali Libia ed Egitto, Israele e Somalia. Rischi di guerra per le acque del fiume Indu si prospettano anche per Pakistan e India. E questi sono i nuovi e più urgenti casi che si sommano a realtà già note.