Il 12 febbraio, a Lima, in Perù, si terrà il terzo summit America Latina – Paesi arabi (Cumbre América del Sur-Paìses Arabes, Aspa) , in cui convergeranno Capi di Stato e di Governo di entrambe le aree per confrontarsi, così come descritto nel programma, su “flussi commerciali, cooperazione e investimenti in settori tecnologici chiave, come risorse idriche, agricoltura, energia, trasporti, telecomunicazioni”, nella speranza che l’incontro porti “la prosperità e la pace” fra i suoi protagonisti e le loro genti, e che “una nuova era inizi, sotto gli auspici di fratellanza e dialogo”.
Su queste più che condivisibili dichiarazioni di buona volontà e di benevoli auspici, incombe un’ombra, così lunga che parte dal Medio Oriente - non solo perché alcuni degli Stati membri, come Egitto e Tunisia, stanno subendo travolgimenti interni che rischiano di compromettere la loro presenza a Lima - in quanto, negli ultimi mesi, e capeggiati dal Brasile, numerosi paesi latinoamericani (Argentina, Bolivia, Cile, Perù, Ecuador, Guyana, Uruguay e Paraguay) si sono aggiunti a Costa Rica, Cuba, Nicaragua e Venezuela nel riconoscere uno Stato palestinese indipendente.
Proprio a Lima, inoltre, è possibile che si giunga ad una proposta, unanimemente condivisa, del riconoscimento di Gerusalemme est come capitale del nuovo Stato palestinese, includendo anche territori attualmente sotto il controllo di Israele.
In pratica, quasi tutta l’America Latina è entrata a capofitto nella gestione di una fra le più delicate e irrisolte questioni mediorientali, in parte con un approccio più ideologico, come Bolivia e Venezuela, e in parte più pragmatico, come Brasile.
Il clamore di questi improvvisi riconoscimenti, sebbene con qualche diplomatico distinguo, è dato dal fatto che tutti sono avvenuti in poco più di due mesi, dopo decenni di questione palestinese aperta, processi di pace altalenanti se non addirittura in pieno stallo o infuocati da operazioni belliche tanto rapide quanto controverse, alti e bassi di mediazione statunitense, ormai sgravata dal peso del confronto est-ovest proprio della guerra fredda, e pronta a un nuovo ruolo sia in Medio Oriente che in America Latina.
In pratica, la domanda che alcuni analisti si pongono è: perché ora?
Le risposte diplomatiche ruotano tutte intorno al “desidero di far avanzare il processo di pace “, come sostenuto, tra l’altro, da una lettera inviata da Cristina Fernández de Kirchner, presidente dell’Argentina che conta una comunità ebraica fra le più vaste al fuori di Israele, ad Abu Mazen.
Non vi è dubbio che i negoziati fra palestinesi e israeliani siano bloccati da molto tempo, ma è una costante da almeno una decina d’anni, da quando i fatti dell’11 settembre hanno monopolizzato l’attenzione delle cancellerie di tutto il mondo e il rischio del terrorismo islamico ha ridotto la sofferta e sanguinosa questione della sicurezza di Israele e la definizione dei confini palestinesi a una complessa ma limitata faccenda di vicinato.
Ma se risulta difficile districarsi nell’eterogeneo scenario mediorientale e definirne chiaramente i protagonisti più o meno conosciuti o decisamente occulti di una vicenda che ha circa settant’anni di storia, l’azione intrapresa dalla quasi totalità dei paesi dell’ America Latina, capeggiati dal Brasile, è decisamente più solare e sembra ruotare tutta intorno a quell’ aspetto della sua politica estera che, fra multilateralismo e relazioni Sud-Sud, protegge i propri interessi e si colloca trasversalmente su equilibri delicati, gestendo relazioni ugualitarie con Israele e Iran contemporaneamente.
Assoldare la politica estera al servizio dello sviluppo economico e sociale del Paese è stato il tema dominante della politica estera brasiliana fin dai primi anni ’90, da quando il Brasile adottò politiche economiche neoliberiste, seppur mediate dalle proprie peculiarità. E’ l’aprirsi ad un dialogo multilaterale che ha portato il Brasile di Lula a supportare un accordo di libero scambio fra Mercosur e Israele, ma anche ad aumentare i legami economici e commerciali con Iran con una previsione di crescita da 2 a 15 miliardi di dollari annui.
E’ dimostrare anche di avere i numeri come potenza mondiale quando, in un clima di generale recessione economica, il Brasile registra comunque un tasso di crescita invidiabile del 7,5, sebbene sia previsto in calo per il 2011.E anche venire incontro alla richiesta dell’Iran di Ahmadinejad di materie prime e uranio, come hanno fatto già in precedenza Venezuela e Bolivia, sembra rispondere a questa logica. Schierarsi a favore del nucleare iraniano – tanto da proporre con la Turchia una partnership che permetta all’Iran di arricchire l’uranio al di fuori dei propri confini - significa, infatti, poter ampliare la propria presenza in quel vasto mercato che si affaccia sul Golfo Persico, desideroso della grande offerta di prodotti sudamericani per il suo sviluppo, fra i quali l’ alluminio brasiliano.
Tuttavia, la stretta connessione che viene a crearsi fra economia - con nutrite e condivisibili ambizioni di sviluppo latinoamericane - ed equilibri geopolitici, propria dei nuovi rapporti fra i maggiori leader politici (da Morales, a Chavez, allo stesso Lula) e l’intero Medio Oriente, va a coinvolgere una fra le più delicate questioni irrisolte del pianeta e ad incastrarsi con un fattore fra i più pericolosi, quale il controllo delle ambizioni nucleari iraniane, in cui è chiaramente in gioco la sicurezza dell’intera area mediorientale.
Questi accordi economici e commerciali e questa condivisione di obiettivi anche politici non può che preoccupare Israele che, come gli Stati Uniti, sono pronti a riconoscere la Palestina indipendente esclusivamente come il risultato finale di accordi di pace multilaterali. Di certo non concorrono alla ripresa di quelle trattative il blando controllo di Abu Mazen su Hamas, che da sempre rifiuta la soluzione dei due Stati e che domina pressoché incontrastato a Gaza; come pure l’ampliamento degli insediamenti ebraici oltre quella Green Line definita con la guerra del 1967 che ha stravolto quei confini, e perno dell’intera disputa.
La risposta, quindi, alla domanda sul perché proprio ora vi sia stata un’accelerazione a riconoscere la Palestina indipendente, in seguito alla proposta brasiliana, sta forse nella chiara percezione della maggioranza dei paesi latinoamericani della lunga serie di fallimenti degli Stati Uniti in quella parte del continente americano considerato il proprio “cortile di casa”, e di cui l’innalzamento del livello della violenza in Messico e Colombia ne rappresenta la testimonianza più evidente. Ciò che sta accadendo in quel che era un pacifico Messico (tra l’altro membro del Nafta , e quindi partner commerciale principale, come il Canada, degli stessi Stati Uniti), diventato con la Colombia - altro partner storico di Washington - il crocevia strategico del traffico mondiale di droga, è l’esempio più sorprendente di cattiva gestione dei rapporti fra Stati Uniti ed America Latina, e che ricorre sovente nei discorsi non solo di un esaltato Chavez, ma anche di leader più moderati della regione.
E’ innegabile il fatto che il sanguinoso traffico di stupefacenti si stia ampliando a macchia d’olio a numerosi paesi centroamericani (come il caso del Guatemala), con inevitabili conseguenze sul loro sviluppo e sulla loro stabilità interna, con ripercussioni sulla sicurezza ai confini degli Stati Uniti.
Un affare divenuto così lucroso che nemmeno gli ingenti finanziamenti di Washington (la Colombia, grazie al Plan Colombia, riceve il più sostanzioso aiuto statunitense al di fuori della regione mediorientale e quella dell’ Afpak) riescono a contenere ed evitare che i ribelli delle Farc lo gestiscano e ne traggano sostanziose entrate con cui si finanziano.
E’ l’inevitabile conseguenza di un approccio superficiale ai problemi di quella parte meridionale del continente, subentrato ad uno troppo invasivo, come quello perpetrato negli anni della guerra fredda, in cui regimi e golpe compiacenti si susseguivano a crisi di missili e falliti sbarchi cubani.
Si tratta, infatti, della comparsa di nuovi protagonisti sulla scena diplomatica latinoamericana, ad iniziare con accordi economici, commerciali, e soprattutto energetici, in cui Cina, Russia e Iran intessono relazioni su più livelli, anche in quello militare, ormai da un po’ di tempo, sta assumendo un ruolo importante.
L’invito del Brasile per il riconoscimento della Palestina rientra, quindi, in questa logica di nuova potenza regionale con ambizioni internazionali e di governance mondiale: sebbene vi sia un diffuso scetticismo presso numerosi analisti sull’effettiva influenza di questa decisione latinoamericana sulla soluzione della questione israelo-palestinese, non ci pare opportuno condividerlo.
Rimane, infatti, un’incognita che preoccupa quegli analisti che ben conoscono il Medio Oriente, ossia la mancanza di una struttura amministrativa e diplomatica brasiliana o, comunque di qualsiasi realtà latinoamericana, così addentro all’intricata realtà ideologica e politica della regione mediorientale da comprenderla e garantirle quella sicurezza messa a dura prova da un così vasto riconoscimento unilaterale di una Palestina indipendente, con trattative di pace in pieno stallo e con fattori di radicalismo destabilizzanti ben presenti e ancora troppo influenti in quei territori.
Si spera che le ambizioni brasiliane di potenza, sebbene soft, come è prassi definirla negli ambienti diplomatici, non siano ispirate da meri interessi economici e commerciali, ossia da quello stesso approccio che ha fatto della regione mediorientale, negli ultimi settant’anni, l’area di maggior sfruttamento delle sue risorse da parte delle grandi potenze. Di certo, un chiaro segnale giunge dall’incontro di Lima: è un sonoro avvertimento agli Stati Uniti e all’Europa che nuovi soggetti internazionali stanno muovendo le pedine della scacchiera geostrategica proprio in quella regione mediorientale che ha visto, fino ad ora, solo parziali, discutibili ed inconcludenti risultati alle loro decennali mediazioni diplomatiche.
4/2/2011
(nella foto, manifestanti brasiliani di fronte al ministero degli Esteri contro la visita di Ahmadinejad in Brasile nel novembre 2009)
(nella foto, manifestanti brasiliani di fronte al ministero degli Esteri contro la visita di Ahmadinejad in Brasile nel novembre 2009)