Global Trends & Security Politica internazionale e Sicurezza, di Germana Tappero Merlo
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Analisi e rivolte in Nord Africa. Imprevedibilità o dilagante ottusità? 25/2/11

Analisi e rivolte in Nord Africa. Imprevedibilità  o dilagante ottusità? 25/2/11 - Global Trends & Security
Prendo spunto dalla ricorrente domanda che è apparsa con insistenza nei giorni dello scoppio delle rivolte in Nord Africa, e soprattutto con la violenta repressione in Libia, ossia se fosse possibile prevedere quanto stava per accadere e in che modo intervenire per evitare quei drammatici epiloghi, per chiarire alcuni aspetti del mestiere di analista.
E’ stato ampiamente ribadito da numerosi miei colleghi  intervistati che, per quanto informati, preparati, sempre attenti a quel che accade, la situazione era così complessa ma soprattutto occulta e “poco decifrabile” che non è stato possibile prevedere nulla, soprattutto non disponendo di sfere di cristallo,  dando così l’illusione di fare un mestiere con la stessa professionalità di un fenomeno da fiera paesana.
Ancora pesa sull’intera categoria il non aver previsto la fine del comunismo, e quei colpi di coda, come il golpe di un Eltsin, che portarono non solo alla fine dell’era gorbachoviana, ma soprattutto al crollo dell’impero sovietico e a tutto quanto ad esso collegato, dall’aumento dell’instabilità in Medio Oriente e Centro Asia, all’unilateralismo esasperato degli Stati Uniti e le guerre in Afganistan e Iraq, con il forte antiamericanismo che ne è seguito. Senza parlare della sorpresa degli attacchi terroristici dell’11 settembre: una negligenza così gravida di sensi di colpa da indurre alla psicoanalisi chiunque faccia questo mestiere, soprattutto se presso istituti di intelligence e di sicurezza nazionali.
Insomma, tutte le catastrofi degli ultimi due decenni pesano ancora come macigni su una parte di analisti che sembrano non darsi pace per non aver compreso quanto stesse accadendo. E come non dargli torto, data la presenza di numerosi centri studi e think tank, con tanto di  conferenze, seminari e interviste che, quasi ad unisono, parlavano o addirittura esaltavano la grandezza militare degli Stati Uniti “poliziotti del mondo” e non valutavano segnali inquietanti provenienti, non soltanto dai centri di simulazione di volo vicino a casa, in cui si stavano addestrando i responsabili di quegli attacchi, quanto dal fermento antiamericano, e fonte ispiratrice di quelle azioni terroristiche, dilagante in Arabia Saudita nato in seguito alla presenza militare statunitense nella penisola arabica dopo la prima guerra del Golfo del ’91 e che ha portato ad identificare la tanto declamata “democrazia” con il supporto occidentale a raiss e despota.
Il rischio è sempre quello di essere considerati “catastrofici”, come se le tragedie umane si possano evitare ignorando le conseguenze delle azioni e delle cose brutte del mondo. Il peggio, però, per questo lavoro, avviene quando si è etichettati come  “complottisti”, perché – per i realisti della politica – è troppo delirante ipotizzare che vi siano manovre occulte proprie  da sempre del potere e della politica.
Fra l’essere elargitori di un pessimismo catastrofico e quello di visionari imbevuti di copioni alla Ian Fleming, per cui domina una Spectre regista di ogni azione destabilizzante, esiste, però, una via di mezzo: si tratta di trovare  un equilibrio che, però, è poco considerato perché disturba chi preferisce  adagiarsi su un tranquillo mantenimento dello status quo nelle relazioni internazionali e nella loro evoluzione, favorito da un canovaccio che le interpreta attraverso dati e fattori alla moda del momento.
Rivolte, crolli di Borsa, abbattimento di muri o, peggio, guerre e atti terroristici non sono fenomeni naturali improvvisi, come terremoti o tsunami: sempre, e a volte persino con esagerato anticipo,mandano segnali che sta all’osservatore cogliere e interpretare. Per fare questo, tuttavia, occorre avere un mix di elementi che costituiscono veramente l’ossatura della professionalità dell’analista, ne determinano l’attendibilità, senza avere la presunzione – un vizio da cui un buon analista deve stare assolutamente alla larga ma che è alla base di tutte quelle manchevolezze – di avere risposte certe e verità assolute da elargire.
Questo mix è composto da una serie di elementi estremamente eterogenei, ma in cui spicca, come caratteristica saliente la curiosità: come uno scienziato passa in rassegna dati, esperimenta, sonda differenti opzioni per trovare un indizio o addirittura una soluzione a una malattia, così l’analista di politica internazionale, mosso dalla stessa viscerale curiosità ma con un obiettivo meno ambizioso, passa in rassegna dati, eventi, umori e cerca di interpretarli e, quindi, trasmetterli. La spinta ad esplorare, unita al desiderio di capire e comunicare, fa sì che le semplici informazioni diventino conoscenza e, con un po’ di impegno, anche intelligence.
Qualcuno potrebbe obiettare che si tratti della stessa curiosità che anima il giornalista investigativo, un mestiere in grado di essere svolto da pochi elementi del settore, ma assurto agli onori delle cronache con personaggi come Julian Assange e la sua ambizione alla trasparenza che lo induce a divulgare notizie al fine di alimentare un nuovo modo di fare informazione.
Non è, infatti, un caso che molti giornalisti, ed in particolare già dopo la guerra del Golfo del ’91 e soprattutto dopo l’11 settembre, si siano sostituiti agli analisti nel cercare di comprendere scenari complessi, come quelli delle guerre in Afganistan o in Iraq, o di interpretare fenomeni tortuosi come il terrorismo, non limitandosi a raccogliere e riferire di fatti e trascurando, così, la loro vera natura di giornalisti che, se ben soddisfatta, è di estrema utilità per gli analisti.
In questo percorso, infatti, ciò che  differenzia  l’analista dal giornalista, è l’obiettivo finale che per  il primo  dovrebbe essere quello di raccogliere e di commentare fatti, mentre al secondo spetta, appunto, la raccolta di più informazioni possibili provenienti da differenti fonti, giornalistiche e non solo, il loro studio, e le relative connessioni logiche che lo portano ad anticipare possibili conseguenze di azioni e, obiettivo ambiziosissimo, ma non impossibile, anche di intenzioni.  
In questo circuito, in cui appunto l’informazione diventa conoscenza, entrano in gioco fattori che il giornalista non è tenuto ad avere, ma che spettano soprattutto al bravo analista, come la cultura antropologica, storica, geografica, economica, a volte filosofica e dottrinale, e se poi tratta di argomenti come guerre e terrorismo, anche tecnologica. Insomma, quel know how che, al pari di quello proprio di un’azienda, permette di dare un valore aggiunto  al proprio prodotto che, nel caso  dell’analista,  sono previsioni politiche, economiche e sociali su possibili avvenimenti e la loro evoluzione.  
Negli ultimi due decenni, infatti, con l’aumento vertiginoso della massa di informazioni a disposizione si è ampliato il campo comune, per l’analista e per il giornalista, di raccolta di dati e informazioni; inoltre, la natura globale di fenomeni bellici e terroristici, la loro proliferazione e la loro manifestazione quotidiana in ogni parte del mondo, hanno permesso che guerre e terrorismo assurgessero agli onori della cronaca, non permettendo,però, che  altri fattori o realtà venissero studiati e sviscerati con la dovuta obiettività.    
Ecco quindi che appare, con tutte le sue più tragiche conseguenze, il vero motivo che sta portando da un po’ di tempo  a non cogliere certi segnali di allarme, che siano essi legati al terrorismo, alle guerre, alle rivolte o addirittura ai crolli di Borsa. Si è  allentata, infatti, la spinta alla curiosità ma soprattutto all’obiettività che spetta, in particolare, all’analista. Di questa deriva sono responsabili numerosi fattori, primo fra tutti la concentrazione della maggior parte dei mezzi di comunicazione in mano a interessi per lo più privati ma soprattutto particolaristici. Inevitabile che quanto diffuso risulti viziato e fazioso. Non è una novità di questi tempi; è un dato di cui come analisti siamo più che a conoscenza e, se sappiamo fare bene il nostro mestiere, possiamo anche districarci, seppur  con faticosa disinvoltura.
Ultimamente, poi, è sopraggiunta la rete che permette una raccolta e un confronto illimitato di notizie, umori, giudizi e quant’altro, che sta all’analista cogliere e interpretare. Un aiuto incredibile e impensabile a chi ha costruito la propria professionalità su anni di abbonamenti a molteplici quotidiani e a innumerevoli riviste cartacee, ad acquisti di libri in ogni parte del mondo, con lunghe attese per la loro consegna inimmaginabili al giorno d’oggi, oppure ad estenuanti, e non sempre fruttuose, ricerche in archivi di centri studi, biblioteche, enti e ministeri.
Ho già avuto modo di esprimere, sebbene in maniera un po’ sintetica, il processo di raccolta e di analisi che caratterizza l’intelligence nell’era digitale, e rimando a quelle considerazioni ogni tipo di riflessione e critica: non dobbiamo illuderci, infatti, che anche l’informazione in rete non sia immune da manipolazioni, controlli e indirizzi.
Se, quindi, queste considerazioni possono limitare una naturale esaltazione delle possibilità che internet offre a chi fa il mestiere dell’analista, in egual modo, non permettono che si ribatta con l’imbarazzante   risposta della mancanza della sfera di cristallo. Se certi fenomeni non sono stati individuati e compresi è solo perché non si è voluto o potuto fare.
Da una ricerca molto complessa redatta dall’Università della Pennsylvania, risultano esserci all’incirca 6500 think tank al mondo: per intenderci, e sinteticamente, un think tank è un centro studi di politica interna, ma soprattutto internazionale, volto a dare indicazioni a politici, esponenti dell’industria e della finanza, studiosi e ricercatori e chiunque sia interessato, circa quanto accade nel contesto di un’area geografica ben precisa o addirittura a livello mondiale. Un think tank è quindi quell’officina di analisi atta a indirizzare l’azione di operatori dei più disparati settori in determinate aree geografiche.
Ebbene, al di là delle considerazioni più evidenti che si evincono da quel rapporto e date dal fatto che il 57% dei think tank si trovino negli Stati Uniti e in Europa, per evidenti disponibilità di fondi e strumenti per la ricerca, ( a cui seguono l’Asia con 18%, l’America Latina l’11%, l’Africa l’8% e il Medio Oriente e Nord Africa il 5%), di fronte alla sorpresa che hanno destato le rivolte in Nord Africa, nasce spontaneo qualche ragionevole dubbio circa la capacità di costoro di fare analisi e previsioni. Oppure, alternativa non impossibile e che mi sento di condividere, sebbene siano stati lanciati segnali di allarme, questi non siano stati colti non tanto  per ottusità ma per semplice opportunismo politico ed economico. 
Infatti, la maggioranza dei think tank, soprattutto statunitensi, negli ultimi due decenni si è andata polarizzando ideologicamente, trasformando la “guerra delle idee”in un confronto che ha visto avanzare le istituzioni più conservatrici a scapito di quelle liberali. Si tratta del risultato  di un percorso intrapreso dalle forze conservatrici che parte già dagli anni ’70 e che, occorre darne atto, ha saputo avviare un’oculata strategia di fund raising, permettendogli di creare una fitta rete di istituzioni, con relativi ricercatori decisamente preparati e potenti.  
Il limite, tuttavia, di questa evoluzione dei think tank è dato dalla loro inclinazione a cavalcare esclusivamente problemi e scenari che sono assurti gli onori della cronaca, perché la tendenza generale è finanziare progetti esclusivi e mirati; così è successo che, dopo l’11 settembre, per tranquillizzare gli animi o per permettere lucrosi affari alimentando ulteriormente il panico, sono proliferati centri studi sul terrorismo e sull’estremismo islamico come se nient’altro potesse avere ancora un ruolo nelle relazioni internazionali.
Questo approccio alla ricerca e la relativa polarizzazione – che ha visto arrancare la controparte della sinistra liberale in una estenuante corsa a recuperare il terreno perduto- non hanno escluso anche i centri di ricerca economici e finanziari: l’inevitabile interdipendenza fra politica ed economia, ma soprattutto il predominio di quest’ultima sul processo decisionale dei governi e che si è ampliata con il fenomeno della globalizzazione, ha favorito l’aumento di una conoscenza deviata, faziosa e corrotta da interessi particolaristici che ha, quindi, permesso di perdere quell’obiettività necessaria per comprendere veramente i fenomeni ed adeguare in tal modo strategie e tattiche operative.
Nelle analisi di questi grandi istituti di ricerca, riferimento privilegiato dai governi e dai centri di potere finanziario,  sono state abbandonate intere aree geografiche come l’Estremo oriente,  l’Africa o, sebbene saltuariamente vi fossero riferimenti ad un Venezuela di Chavez o ad una Colombia delle Farc, il resto dell’ America Latina che, improvvisamente inghiottito nei cupi meandri di un dimenticatoio generale, si trasformava  politicamente ed economicamente in maniera così radicale sotto gli occhi distratti dei tanti think tank, soprattutto degli Stati Uniti, tanto da sconvolgere i loro piani di potenza mondiale.
Il petrolio dapprima e poi il gas prendevano il sopravvento nelle analisi economiche e politiche internazionali, a scapito di altri fattori   come la riduzione della disponibilità idrica, l’incombente desertificazione, i flussi migratori, l’aumento demografico, o i piani per uno  sviluppo sostenibile, solo perché il greggio e il gas erano intimamente legati a quelle guerre combattute in Iraq e Afganistan in nome di una sofferta democrazia e contro un temibile pericolo terroristico; e poi perché, esclusivamente da loro, sembrava dipendere il futuro dello sviluppo del capitalismo mondiale.  
I crolli finanziari del 2008, gli aumenti dei prezzi petroliferi, la recessione di gran parte delle economie dei paesi più industrializzati occidentali avrebbero risvegliato bruscamente gli analisti, imbevuti di schemi così condizionati e circostanziati da non far comprendere le loro ragioni di un fallimento tanto vistoso quanto più doloroso.
E’ questa una delle spiegazioni al mancato preavviso da parte degli esperti – se non con rarissime ed inascoltate eccezioni – dei crolli di Borsa del 2008: se il riferimento sono rigidi schemi analitici, viziati da interessi particolaristici,   a cui si affida una pretestuosa scientificità, tanto da definirli  “modelli di matematica finanziaria”, non dobbiamo meravigliarci se il sistema crolla. Quando le variabili considerate e i dati vagliati sono rigidamente scelti con una procedura viziata da limitati parametri di parte, in cui “l’equilibrio, la stabilità e la razionalità” sono gli unici obiettivi a cui il mercato deve fare riferimento, e si dimenticano altri elementi di cui la storia delle dottrine economiche è colma, allora non debbono meravigliare i tonfi e la recessione.
Non da meno, lo stesso ragionamento vale per la politica internazionale, anche se lo scenario è decisamente più complesso, perché gli attori coinvolti sono sempre più numerosi e tentano di sfuggire ai rigidi parametri di analisi imposti da chi, invece, può – almeno per ora – dominare e imporre le regole del risiko mondiale.
Se poi ai parametri distorti dell’uno si aggiunge la rigida interpretazione di dati dell’altro, non deve sorprendere lo stupore di chi, vedendo una Tunisia crollare sotto i colpi della rivolta afferma che tutto ciò era imprevedibile, stando ad una crescita costante annua del 3,5% ed un’estraneità diffusa di quel Paese all’estremismo islamista. A costoro, non è sorto il dubbio che esistano altri fattori oltre al dato del Pil e il rischio del terrorismo? Concentrazione della ricchezza in mano ad un ristretto gruppo di famiglie a fronte di un misero guadagno mensile del resto della popolazione, alto tasso di disoccupazione giovanile, aumento demografico abnorme,  repressioni politica, flussi migratori clandestini e quant’altro è sotto gli occhi di chi vuol vedere certi fenomeni dovrebbero distrarre da un dato su una crescita “drogato” dagli introiti esclusivi di chi controlla gas e petrolio.
Un approccio così limitato alla raccolta e all’elaborazione dei dati non è più giustificabile nell’era di internet e della veloce diffusione delle informazioni: era comprensibile negli anni della guerra fredda dove conoscere  realtà lontane e diverse significava intraprendere azioni di vera e propria intelligence, un processo lungo, faticoso, pericoloso e certamente non immediato.
Ora, con i nuovi strumenti di recezione e trasmissione dati (dai telefonini, webcam, portatili e quant’altro) la raccolta e la diffusione delle informazioni sono immediate, in un processo pressoché sincrono ed istantaneo al punto da non lasciare spazio alla censura e meno che mai ai lunghi tempi di reazione propri di una prassi tanto obsoleta quale quella della tradizionale diplomazia.
Rimangono valide, come allora, due incognite che l’avvento di internet non ha cancellato: la prima è uno degli strumenti privilegiati da chi determina i ruoli e i protagonisti delle potenze in campo, ossia la controinformazione, quella possibilità di alterare ciò che circola in rete o in qualsiasi altro mezzo di informazione per trarre dei vantaggi immediati o per indurre a determinati comportamenti. E’ sicuramente l’elemento più abusato nell’era digitale, e che ruota attorno alla lotta per il controllo di quanto passa in rete e come si possano girare a proprio favore dati, informazioni, movimenti, umori etc. Attenzione, però, qui si rischia di essere etichettati come “complottisti”.
L’altra incognita riguarda poi l’umore della gente di cui sono colmi i blog, i social network , i siti di informazione alternativa; si tratta dell’incognita più pericolosa perché sfugge ai rigidi controlli di chi vuole porre freno alla libertà di informazione e poggia il suo potere sulla controinformazione e la manipolazione dei dati, anche se attraverso strumenti delicati come il monopolio di brevetti e di gestione dei motori di ricerca che vanno ad aggiungersi all’influenza determinante di quei laboratori di idee noti come think tank.
I dati e le informazioni, almeno per ora, ci sono e sono più che disponibili, e circolano in rete. Di certo occorre munirsi di quegli strumenti interpretativi che siano in grado di decifrarli: si tratta di quel complesso di elementi che formano il know how proprio dell’analista di cui accennavo poco sopra. Non è detto che sia infallibile: l’elemento umano, con la sua formazione, la propria cultura e le sue convinzioni, rimane sempre la griglia attraverso cui le informazioni passano e, quando filtrate, diventano conoscenza.
Di una cosa, tuttavia, si è ben presa coscienza con le rivolte in Nord Africa e il fallimento nella previsione di quanto stava per accadere: bisogna, infatti, partire dai popoli, dal loro vissuto e dai cambiamenti sociali, in qualsiasi parte del mondo, per poter avviare un nuovo corso di analisi e di previsioni che ci risparmino da sorprese e shock improvvisi. Che si tratti di attacchi terroristici, rivolte o crolli finanziari è ora di capire che difficilmente l’umore e il vissuto della gente sono imbrigliabili in rigidi schemi interpretativi e meno che mai in modelli matematici. Fino a che non si prenderà coscienza di tutto questo, ci ridurremo, noi cosiddetti “analisti”, a doverci giustificare dell’assenza della sfera di cristallo perché, come fenomeni da baraccone, abbiamo continuato a parlare e disquisire attraverso un copione dettato da altri e degno solo di una triste messinscena da fiera paesana.
 
 
25/2/2011
 
 
 

Chi sono

Chi sono - Global Trends & Security

Analista di politica e sicurezza internazionale, opero attualmente presso enti privati in Israele, Giordania, Stati Uniti e Venezuela. Ho svolto attività di consulenza sul terrorismo per organismi governativi e privati in Libano, Siria, Iraq, Afghanistan, Somalia, Egitto, Sudan, Etiopia, Eritrea, Libia, Tunisia, Niger, Messico e Brasile.

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18 febbraio 2022. Uscita del mio volume "Dalla paura all'odio. Terrorismo, estremismo e cospirazionismo", Tangram Edizioni Scientifiche. Trento. " Il volume è il risultato di analisi e operatività sul campo che l’autrice ha condotto negli ultimi due anni circa fenomeni globali legati all’eversione e al terrorismo, sia di matrice islamista jihadista che dell’ultradestra violenta. Vengono analizzati soggetti e dottrine in un contesto di evoluzione delle relazioni internazionali e dei nuovi conflitti ibridi e identitari, in cui il terrorismo è tattica dominante. Sono inoltre delineati i processi, personali e collettivi, di radicalizzazione sia religiosa che politica, da cui derivano educazione e cultura alla violenza. Queste ultime acquisiscono un ampio pubblico attraverso la rete internet, anche nei suoi meandri più oscuri e tramite forme di comunicazione, qui analizzate, che trovano ampio utilizzo da parte delle nuove generazioni di nativi digitali. A ciò si sono aggiunti i toni aggressivi delle più recenti narrazioni cospirazioniste, originate sia da eventi interni a Stati democratici occidentali che da quelli emergenziali da pandemia. A vent’anni dalla paura del terrore proprio dell’11 settembre 2001, si sta procedendo velocemente, quindi, verso un livore generalizzato, a tratti vero e proprio odio, da cui una cultura di violenza politica dai legami transnazionali e che mira all’eversione, con i relativi rischi per la sicurezza nazionale."

  • 24/03/2023 01:43 pm
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