Il riacutizzarsi in questi giorni della crisi diplomatica fra Russia e Giappone sulla questione delle isole Curili, a cui si è aggiunta la spinosa diatriba con gli Stati Uniti circa Okinawa, ci riporta bruscamente in una dimensione spazio-tempo lontanissima, propria della guerra fredda e addirittura del secondo conflitto mondiale, con la sconfitta dell’Impero del Sol Levante, la pace mai siglata fra Mosca e Tokyo e l’ingombrante ma strategica presenza militare statunitense nel Pacifico.
Concentrati sulle rivolte in quei Paesi che si affacciano sulle acque mediterranee, sono stati trascurati altri segnali di crisi che riguardano altre acque e altri Paesi, come Giappone, Russia, Stati Uniti, le due Coree e, inevitabilmente, la Cina, in un delicatissimo risiko che rischia, in questo frangente, di compromettere l’egemonia statunitense in Asia orientale.
La questione circa le isole Curili meridionali ha origine appunto nella seconda guerra mondiale: in pratica, vennero promesse da Roosevelt a Stalin a Yalta, nel febbraio 1945, come compenso all’Unione Sovietica se si fosse impegnata militarmente a fianco degli Stati Uniti per sconfiggere il Giappone. Un impegno che si concretizzò, nel giro di due settimane, nell’agosto del 1945, contemporaneamente alle bombe di Hiroshima e Nagasaki, nella sconfitta dell’esercito Kwantung in Manciuria da parte dei sovietici . Una disfatta che favorì la capitolazione del Giappone e permise all’Unione Sovietica di porre sotto il suo controllo l’area mongolica del Mengjiang, la Corea del Nord, Sakhalin e, appunto, le isole Curili.
Con la vittoria dell’Unione Sovietica sul Giappone sembrava chiudersi un capitolo molto penoso fra quelle due nazioni che, già nel 1904-1905, si erano affrontate con il risultato di una pesante sconfitta per l’allora Russia zarista. Iniziava, invece, un’era di nuove tensioni.
Accordi di pace mai siglati fra Mosca e Tokyo – a partire da quel Trattato di San Francisco del 1951 che impose al Giappone di rinunciare a tutti i territori conquistati – e il continuo ribadire, per oltre 60 anni da parte degli Stati Uniti, della mancanza di una giustificazione legale per il controllo russo di quelle isole, hanno permesso che la faccenda delle isole Curili assumesse col tempo i toni di un braccio di ferro fra potenze nell’Asia orientale, in un confronto che sembra appunto essersi riacutizzato in questi giorni.
Ciò è dovuto alla decisione di Mosca, in base alle affermazioni del suo capo di Stato Maggiore Nicolai Makarov, di assegnare 2 nuove navi leggere portaelicotteri Mistral alla propria flotta nel Pacifico, con il compito di difendere le isole Curili. Oltre alle Mistral – di fabbricazione francese e al centro di una polemica fra paesi Nato per la vendita di 4 di esse alla Russia – Mosca ha dichiarato di voler rafforzare la dotazione militare delle sue forze dislocate su quelle isole, attraverso il dispiegamento del sistema antimissile S-400 Triumph, previsto in un piano di ammodernamento allo studio del presidente Medved. Fin qui, si tratterebbe di normale routine di aggiornamento russo delle proprie difese, seppur con un aumento di malumori da parte di Tokyo.
Sennonché, a riaccendere gli animi revanscisti e ad alimentare le tensioni, sono intervenute dichiarazioni da parte statunitense - in particolare di Philip Crowley del Dipartimento di Stato - che sostengono il diritto del Giappone su quelle isole e incitano Mosca a firmare un accordo di pace con e sulla base dei termini voluti dal Giappone. Inutile ribadire l’antica intesa di Yalta: ci sono in gioco il controllo e il dominio statunitensi in quella regione e, in questi casi, Washington dimostra di soffrire di amnesie.
Sebbene l’ambasciatore americano a Mosca, John Beyrle, si sia immediatamente apprestato ad affermare che fossero dichiarazioni del tutto personali di Crowley, è subito nata una querelle diplomatica che non ha risparmiato a Tokyo e a Mosca di tirare in ballo l’ingombrante questione della base militare statunitense di Okinawa, a sud questa volta del Giappone, e anch’essa bottino di guerra del secondo conflitto mondiale.
Okinawa è, infatti, una delle 761 basi militari “riconosciute” dal rapporto del Pentagono (Base Structure Report) che viene redatto ogni anno e che riferisce, con tanto di dati su personale, mezzi impiegati, costi etc., della struttura della potenza statunitense in patria come all’estero, per un totale di 39 paesi che si fanno carico delle spese di mantenimento di queste basi dislocate sui loro territori.
Vi sono parametri, imposti nel rapporto del Pentagono, come la grandezza del sito considerato (superiore a cinque ettari), e del suo valore (superiore a dieci milioni di dollari), che limitano la definizione e, quindi, il computo di “base militare”. Inoltre, il rapporto non parla, per questioni di opportunistica sicurezza, delle oltre 400 basi in Afganistan e delle 88 in Iraq. Nemmeno cita quelle presenti in Arabia Saudita, di recente restituite e Ryad, ma gestite da personale statunitense.
Se si considerano anche queste realtà, gli avamposti militari statunitensi nel mondo raggiungono la ragguardevole cifra di 1180, risultato di una politica che ha subito un’accelerazione dalla guerra nell’ex Jugoslavia, ossia da quando gli Stati Uniti si posero a capo dell’intervento della Nato per forre fine alla straziante guerra in Bosnia e Kosovo. Da allora, favorita in seguito anche dai fatti dell’11 settembre e dalla gestione di G. W. Bush, l’influenza delle forze armate ha preso il sopravvento sulle decisioni della Casa Bianca, garantendosi budget esorbitanti a scapito di un maggior supporto all’intelligence e a un miglior coordinamento della diplomazia.
Questo sistema di forward positioning, ossia di dislocazione delle forze militari americane in basi strategiche regionali, ognuna con mezzi operativi propri e Chief Commanders così influenti da gestire i rapporti con i politici e i militari delle aree controllate, ha finito, infatti, per assumere così tanta importanza da superare quella della struttura diplomatica.
In questo delicato contesto di politica di potenza militare, gli Stati Uniti hanno, quindi, da tempo l’annosa questione proprio di Okinawa (circa 50mila marines, ossia il 75% della forza americana dislocata in Giappone su un solo 1% di quel territorio), su cui il Paese è fortemente diviso, fra storia e antiamericanismo, tanto da far crollare un premier come Hatoyama Yukio, il “Kennedy del Giappone”, votato con oltre il 70% del consenso della popolazione, ad un sofferto 17%.
La ragione principale delle sue dimissioni, a giugno 2010 - anche se sulla sua sconfitta pesavano scandali finanziari, un debito pubblico al 200% del Pil, la deflazione, la paralisi dei consumi e dell’export - risiedeva proprio nell’aver mancato di convincere gli Stati Uniti, non tanto ad abbandonare la base, quanto a “normalizzare” i rapporti con Washington, in modo che il Giappone venisse trattato come qualsiasi altro Stato sovrano. Un obiettivo azzardato, dato che negli stessi giorni ricorreva il cinquantesimo anniversario dell’ Us-Japan Security Treaty – che garantisce la presenza di oltre 260 mila militari americani - e che non ha trovato il gradimento statunitense ma soprattutto di quella parte del mondo politico, imprenditoriale e finanziario giapponese, decisamente filoamericano.
L’importanza strategica per la politica statunitense in Estremo Oriente della base militare di Okinawa – che va ad integrare quella della base sudcoreana fuori Seul e di quella di Bishkek in Kirghizistan - era stata confermata ancora nel 2009, di fronte alla minaccia rappresentata dai missili nucleari della Corea del Nord e, sebbene non espressamente affermato, dalla Cina: era stata rinnovata, infatti, l’intenzione di Giappone e Stati Uniti di cooperare, creando quell’ “ombrello nucleare” deterrente di possibili azioni nemiche. A ribadirne l’aumentata portata strategica ma ad aumentare ulteriormente il dissenso interno, interveniva anche l’accordo – risalente già al 2006 - con gli Stati Uniti per la creazione di un nuovo aeroporto militare su un’isola artificiale nella bellissima baia di Henoko, senza però diminuire il personale presente nella base di Futenma a Okinawa.
Il malumore popolare giapponese riguarda soprattutto i problemi di inquinamento acustico e atmosferico dovuto ai mezzi aerei statunitensi, con una buona dose di astio dovuto al trattamento speciale, pressoché diplomatico, riservato ai militari americani che li rende immuni dalle leggi locali di fronte a reati come furti, responsabilità di incidenti stradali, sino agli stupri che sono stati in passato fonte di attrito con la popolazione locale. Il malumore era stato l’artefice, nel 2010, di un’ ennesima manifestazione, questa volta di almeno 35mila persone che, formando una catena umana di circa 13 chilometri, aveva chiesto a gran voce il ritiro dei militari da Okinawa.
Negli ultimi anni, infatti, il malumore popolare si è presto trasformato da generico antimilitarismo ad astioso antiamericanismo, così forte da superare eventuali contrapposizioni ideologiche e che va oltre la richiesta della revisione dell’ Accordo sullo Statuto delle forze armate, invocando a gran voce il ritiro delle truppe americane, noncuranti di qualsiasi considerazione relativa alla sicurezza del Paese e alla minaccia del formarsi di un vuoto militare in Asia orientale.
Per una buona parte della dirigenza politica ed economica giapponese – in un amalgama che non vede distinzioni fra destra e sinistra - il rafforzamento della base statunitense ingabbierebbe ulteriormente Tokyo in logiche che sembrano fuori dal tempo, legando il Giappone “mani e piedi” alla politica estera degli Stati Uniti, fortemente influenzata dagli interessi militari, come hanno dimostrato le guerre in Afganistan e in Iraq.
Infatti, l’accordo fra i due paesi sembra muoversi su tacite asserzioni: la presenza militare americana trasforma il Giappone nella sua “portaerei inaffondabile” che, facendosi anche carico dei costi del mantenimento di quelle truppe sul suo territorio (circa 3 miliardi di dollari l’anno), si garantisce “l’ombrello nucleare”, in cambio di politiche protezioniste supportate dagli Stati Uniti che si impegnano ad acquistare i prodotti giapponesi. Tutto ciò nell’ottica del contenimento di un unico nemico, il comunismo che, nell’area è rappresentato appunto da quella Corea del Nord che, fagocitata dalle intemperanze del regime di Kim Jong- iI, ancora manda segnali di aggressività propri della guerra fredda.
Così retaggi della seconda guerra mondiale, come la forte presenza militare statunitense sul suolo giapponese da oltre 60 anni – un’anomalia storica per molti osservatori - , e una Costituzione “pacifica” che non prevede una corsa al riarmo per il Giappone, passando attraverso gli strumenti della deterrenza propri della logica della guerra fredda, fanno sì che una buona parte della popolazione giapponese sia convinto che il Paese sia inchiodato ancor oggi nelle sue manovre di politica estera, soprattutto di fronte ai cambiamenti politici ed economici epocali intervenuti nella vicina Cina.
Sono proprio le variabili economiche quelle che più premono a Tokyo per avviare un nuovo corso dei rapporti regionali, soprattutto da quando la Cina ha superato il Giappone nella lista delle potenze mondiali.
Con le dimissioni di Hatoyama si è, infatti, posto fine anche alla proposta, già in auge negli anni ’90, di creare una “comunità est-asiatica”, sulla falsariga dell’Unione Europea e in cui il mercato cinese poteva garantire, favorita anche dalla creazione di una moneta asiatica unica, la ripresa delle esportazioni, volano fondamentale da sempre per l’ economia e la produzione industriale del Giappone. La Cina accoglie, infatti, il 25% delle esportazioni giapponesi, contro un 16% statunitense e un 12% europeo.
Si trattava, tuttavia, di un cambiamento di indirizzo di Tokyo che partiva da altri presupposti, non necessariamente economici.
Il ruolo per il Giappone a cui lavoravano Hatoyama e il suo staff era quello, come la Gran Bretagna per l’Europa, di un paese-ponte fra Stati Uniti e resto dell’Asia, in particolare la Cina, mediando fra timori americani e antichi dissapori con Pechino, di cui è colma la secolare storia dei rapporti fra quei Paesi.
E’ la logica del Shin-bei Nyuu-a (ossia relazioni amichevoli con l’America per farla entrare in Asia) che vede sì il ruolo attivo di Tokyo nel fare in modo che gli Stati Uniti non si isolino in quel contesto, ma che è anche un incitamento a Washington a cambiare indirizzo e approccio nelle relazioni con l’Estremo Oriente. E’ una filosofia che vuole un Giappone agganciare la Cina, come ha già fatto nell’assisterla quando, nel 2001, è entrata a far parte del Wto e farla assurgere a ruolo da protagonista e non solo e sempre ostaggio di logiche antiche e superate.
E’ il tentativo di Tokyo, con un ritardo di oltre vent’anni, di entrare nell’era del dopo-guerra fredda, ponendosi come protagonista di un nuovo ordine internazionale in Asia orientale.
E’ un approccio confuciano che allontana il sospetto e l’invidia, a favore di autonomia e cooperazione regionale, in un misto di realismo e di ingenuità troppo lontano dalla mentalità occidentale e, in particolare, quella statunitense. Inevitabile lo scontro di opinioni su cui la questione di Okinawa gioca un ruolo strategico, che ha portato alle dimissioni di Hatoyama e al brusco ridimensionamento del suo sogno di “fraternità” (yuai) che il premier giapponese pensava di condividere con il presidente Obama, così diverso dallo spirito che animava la politica estera dal suo predecessore.
Ciò non toglie, tuttavia, che vi siano segnali inquietanti di dilagante antiamericanismo, sia in Giappone che nella Corea del Sud e che Washington non si può permettere di sottovalutare; è necessario ricordare, anche ai più riottosi che, sebbene con connotazioni completamente differenti, l’antiamericanismo in Arabia Saudita e, in generale, nel Golfo Persico, portò alla nascita di movimenti come al Qaida e ai tragici epiloghi dell’11 settembre e di quel che ne è seguito.
E’ necessario che Washington si interroghi sulla solidità della propria convinzione di perdere i suoi diritti come potenza dominante in Asia orientale, abbandonando le basi militari in Giappone e Corea del Sud dove, lo sventolare delle bandiere americane sui quartier generale statunitensi, ha oggi, per quei popoli, lo stesso significato di occupazione militare del proprio Paese e il non riconoscimento della loro identità nazionale.
Non meno irritante è per i giapponesi l’approccio di Mosca alla questione delle isole Curili: la pretesa della Russia, mai riconosciuta ufficialmente in un trattato, per quelle acque ricche per la pesca e di probabili giacimenti di gas e petrolio, di cui abbonda sul suo territorio continentale, urta un Giappone alla continua ed estenuante ricerca di materie prime strategiche, che lo obbliga a gravose dipendenze esterne. Per le Curili, bottino di un’antica guerra, si potrebbe dichiararne una nuova, stando alle indiscrezioni dei rapporti diplomatici che parlano di una loro ennesima militarizzazione e del conseguente aumento di instabilità nei rapporti fra Mosca e Tokyo.
Portaerei Mistral e pattugliamento di sottomarini nucleari russi al largo delle Curili, così come manovre congiunte fra USS George Washington, USS Carl Vinson, USS Ronald Reagan e forze nipponiche e sudcoreane, a deterrenza di qualsiasi intemperanza nordcoreana (o cinese), a cui fa da contorno la sconfitta politica di un leader popolare come Hatoyama su Okinawa, hanno risvegliato bruscamente il Giappone dai sogni di indipendenza politica, economica e militare, facendolo ripiombare nella cruda realtà della sua imperdonabile leggerezza nell’aver osato sfidare, a Pearl Harbor, il 7 dicembre 1941, la grande potenza americana.
4/3/2011