La revisione dei confini è una costante nella storia politica e militare del Vicino Oriente: che sia stata e sia ancora causa di guerre o di azioni terroristiche, essa rappresenta il punto di partenza di ogni analisi seria. L’intera questione israelo-palestinese, dai suoi albori e nel suo evolversi, è stata solo e sempre questione di rivendicazione di limiti territoriali fisici su cui far nascere, crescere e prosperare le rispettive comunità. Niente di più di tutto ciò sebbene, col tempo, la controversia abbia assunto connotazioni estreme, per via dei rispettivi radicalismi religiosi e per il sovrapporsi di elementi esterni, dal confronto ideologico proprio della guerra fredda sino a quello regionale fra potenze, in un mix di guerre tradizionali e di terrorismo.
Ne è derivato che l’intera disputa israelo-palestinese, in circa un secolo dalla dichiarazione Balfour, ci ha abituato a mappe in continua evoluzione, seppur limitate ai confini di quelle due comunità: un record per la sua durata temporale, quindi, ma non per la sua estensione geografica.
Un primato quest’ultimo - e non mi si fraintenda pregiudizievolmente su un supposto e inammissibile confronto fra le due vicende storiche - che sembra, invece, stia diventando appannaggio dell’azione dell’ISIS: l’obiettivo dichiarato di questo gruppo armato, ossia il Califfato, ha, e per la prima volta nella storia di un movimento guerrigliero-terroristico, un’estensione geografica estremamente ampia, che va dal Nord Africa a quella subsahariana sino ad abbracciare l’intero Vicino Oriente, l’Asia centrale e meridionale, con l’aggiunta della regione balcanica e la stessa Spagna. Se d’acchito questo progetto sembra inarrivabile non deve, però, essere sottovalutato.
Mai prima d’ora, infatti, ossia da quando l’ISIS opera nel Vicino Oriente, giornali, analisi, saggi e libri hanno riproposto così tante mappe e non solo del Califfato, ossia del progetto politico dell’ISIS, ma anche di nuove e possibili evoluzioni future della geografia politica della regione. E’ così tanta la produzione e assidua la divulgazione di mappe alternative a quella del Califfato da sembrare quasi ambigua, ossia creata appositamente per far passare il messaggio che la soluzione più immediata all’azione armata e alla geopolitica dell’ISIS stia nella “balcanizzazione” del Vicino Oriente, ossia la creazione di altre realtà statuali e/o enclavi, e non nella difesa di nazioni già esistenti, come l’Iraq, la Siria, il Libano o lo Yemen nel loro insieme, solo per citarne alcune.
E’ un rischio preannunciato da anni presso gli analisti politici e, ora, pare quasi stia intraprendendo la strada della sua realizzazione.
A sostegno di ciò viene affermato che l’ISIS è l’espressione violenta di una impossibile convivenza fra comunità religiose contrapposte, come sunniti e sciiti, ad esempio, per cui la loro netta separazione geografica toglierebbe vigore al conflitto in Iraq e in Siria. Ciò ha rappresentato, tuttavia, solo il pretesto a cui si sono aggiunti innumerevoli altri fattori geopolitici, locali e regionali – come l’influenza iraniana, quella turca o delle casi regnanti della Penisola Arabica - fino a quelli geoeconomici in cui, inutile negarlo, il controllo sul petrolio curdo gioca – come da decenni oramai - un ruolo fondamentale.
Sempre in relazione alla ridiscussione geografica della regione, lo stesso proposito dell’ISIS di cancellare i confini nati in seguito agli accordi Sykes-Picot del 1916 e di quelli di Sanremo del 1920 sta ricevendo consensi, seppur cauti, presso numerosi analisti con relative dichiarazioni anche autorevoli, a dimostrazione di come si stia sempre più insinuando questa possibile evenienza di revisione delle frontiere e nuove aggregazioni territoriali su basi etniche o religiose.
Ed è come se l’azione militare e terroristica dell’ISIS abbia di colpo fatto venire a galla un’attitudine articolata e oscura, ancorché consuetudinaria propria della regione, circa l’insofferenza da parte di tutti gli attori del Vicino Oriente delle costrizioni territoriali seguite ai protettorati di Gran Bretagna e Francia, appunto nel 1916. Una storia lunga un secolo, quindi, e che sembrerebbe voler intraprendere un corso nuovo e più dinamico per via dell’azione violenta dell’ISIS.
E’ opinione di alcuni osservatori che la disgregazione della regione, ad iniziare dall’indebolimento dei confini iracheni, siriani, libanesi, e ora anche turchi e yemeniti, abbia preso l’avvio dalla guerra civile libanese iniziata nel 1975 e la sua contrapposizione violenta di gruppi religiosi e/o etnici, che avrebbe riportato in auge lo spirito insito a istituzioni proprie dell’esperienza ottomana, come i millet, ossia le province di comunità religiose protette.
Negli anni seguenti la lunga guerra libanese, a tutto ciò si sarebbero aggiunte, e avrebbero aggravato, le crescenti conflittualità fra israeliani e palestinesi ma soprattutto le ambizioni degli Assad per un ritorno della “Grande Siria”, con la diretta annessione territoriale e politica del Libano: un progetto solo interrotto dall’assassinio nel 2005 del premier sunnita libanese Hariri, di cui è stata accusata Damasco, e il seguente calo, in apparenza, dell’influenza siriana sul Paese dei Cedri.
A dar manforte a questa storica propensione allo sfaldamento regionale sarebbero anche intervenute la fine della guerra fredda e della sua contrapposizione ideologica, le relative intemperanze territoriali di Saddam Hussein nei confronti del Kuwait e la seguente prima Guerra del Golfo e tutto quanto ne è poi derivato sino all’ 11 settembre, con i suoi effetti, come la guerra in Iraq dal 2003 e la lunga presenza militare statunitense.
Sempre secondo questa analisi più estrema, l’offensiva dell’ISIS starebbe, quindi, facendo da catalizzatore a un processo di disfacimento e relativo fallimento dell’esperienza nel Vicino Oriente del moderno Stato o nazione e, con esso, anche di quel concetto di “confine” intimamente legato in Occidente a quello di “sovranità”, ed eredità diretta della conferenza di Vestfalia del 1648. Infatti, nell’esperienza occidentale del XIX e XX secolo e a garanzia della sovranità nazionale si combatterono innumerevoli guerre fra Stati, in cui la difesa dei propri confini rappresentava l’essenza strategica.
Tuttavia, l’ISIS, al pari dei più recenti gruppi terroristici, si manifesta come una minaccia transnazionale; essa, ancor più che al-Qaeda dopo l’11 settembre, ha avviato una guerra fra entità totalmente differenti, ossia se stessa come attore potente ma indefinito – da cui la sua forza - e gli Stati sovrani locali, dalle differenti valenze di influenza e di condizioni interne.
Inoltre, ed è ferma opinione di chi scrive, se ci si allarga verso i Paesi del Nord Africa, in particolare l’Egitto e la Libia, l’influenza del radicalismo religioso - substrato culturale dell’ISIS – su altri gruppi jihadisti è stata accelerata anche dai fallimentari tentativi dell’Islam politico di porsi come alternativa ai regimi secolari in seguito alla loro fine con le rivolte del 2011. Ne è derivato che le divisioni confessionali interne ai singoli Stati, aggravate dalle forti ingerenze esterne, hanno fatto sì che l’Islam da forza unificatrice universale – che è una caratteristica propria di quella religione - si manifestasse sempre più nelle sue prerogative opposte e radicali, ossia di scontro e di divisione.
Il tutto, poi, già gravato dagli effetti negativi delle esperienze passate come il panarabismo e il socialismo, o lo stesso capitalismo di stampo occidentale nelle sue espressioni più riprovevoli, che si sono dimostrate nel complesso fallimentari perché ambigue e imposte dall’esterno, per cui con strascichi di mancato sviluppo economico, di carenze di classe dirigente politica moderata e, soprattutto, di disuguaglianze sociali cariche di conseguenze nefaste.
L’ISIS propone, quindi, lo Stato Islamico come alternativa a un vuoto di governance politica, reale e non solo teorica, che pare essere proprio del mondo sunnita in generale, dato che lo sciismo lo ha risolto con l’esperienza teocratica iraniana.
Non è più sufficiente affermare che questo progetto di Califfato non abbia nulla di un nuovo Stato Islamico concreto e che i suoi principi di governo siano assolutamente anacronistici: l’ISIS, infatti, data l’universalità della sua missione per l’ Umma, confermata dall’eterogenea provenienza dei suoi combattenti uniti dalla fede musulmana, ha sempre negato qualsiasi forma di costringimento locale e nei suoi proclami ha sempre espresso una violenta repulsione per gli attuali confini imposti e condizionanti.
E’ già cosa nota, infatti, che nell’area da Aleppo a Mosul, controllata dalle forze dell’ISIS, sia stato posto il divieto nelle scuole e presso le istituzioni locali di fare riferimento a Siria e Iraq come entità statali, e di fare richiami a concetti come “patriottismo” o “nazionalismo”.
In pratica, tutto ciò che fa riferimento ed è eredità del post colonialismo occidentale, deve essere sostituito con “Stato Islamico”, per via di quello che si può definire come processo educativo di proemio verso una nuova realtà. A concretizzarlo ulteriormente intervengono, da un lato, la lotta sul campo dell’ISIS e i suoi martiri, dall’altro azioni come l’applicazione della sharia (seppur interpretata in maniera del tutto distorta e arbitraria) ma anche il rilascio del passaporto dello Stato Islamico che, seppur di nessun valore, contribuisce a creare uno spirito di appartenenza e di condivisione di un progetto politico. Ciò, ed è bene sottolinearlo, può fare molta presa su quella parte di popolazione sunnita irachena in cerca di riscatto dopo lunghi anni di abbandono, disprezzo e svilimento da parte del governo centrale sciita di Bagdad.
Tuttavia, ed è ciò che pare essere la conseguenza più concreta e prossima, con la sua azione armata nelle battaglie in Iraq e Siria, la sua violenza, le sue decapitazioni e la sua propaganda, l’ISIS sta cambiando anche l’atteggiamento di molti altri soggetti statali, regionali e internazionali, circa l’evenienza di enclavi o addirittura nuovi Stati sovrani distaccati.
Da ciò si deduce che, oltre a quello violento avviato dall’ISIS, vi sia anche un processo subdolo, occulto, lento ma invasivo e che assume caratteristiche differenti, data l’eterogeneità degli attori statali coinvolti e le relative problematiche, ma con una costante, ossia il ruolo delle frontiere e della loro sicurezza. E nuovamente, per la prima volta dopo oltre un ventennio - ad eccezione della questione israelo-palestinese – nel mondo musulmano dal Vicino Oriente all’ intero Mediterraneo, elementi come “frontiera” (border), “muro” (wall), “barriera” (barrier) e “recinto” (fence) diventano oggetti di studio e chiavi interpretative di problematiche legate alla sicurezza, non solo regionale ma anche internazionale, con inevitabili mutamenti sul territorio.
E’ indubbio, infatti, che le vittorie sul campo dell’ISIS – sebbene temporanee - come per la battaglia di Kobane, ad esempio, abbiano indotto Stati come la Turchia a rivedere l’ atteggiamento nei confronti della minoranza curda, con il lasciapassare dei peshmerga iracheni attraverso le sue frontiere per andare a sostenere la componente curda siriana del PYD a Kobane. Ciò non significa certamente l’apertura di Ankara verso la creazione di uno Stato indipendente curdo, ma forse il riconoscimento di una maggior autonomia di quella sua etnia che identifica con il movimento terroristico del PKK; ma certamente, per via dell’ indubbio contributo curdo alla guerra in atto, se riconosciuto, tutto ciò porterà effetti dirompenti sulle altre realtà nazionali regionali in cui è presente questa popolazione, ossia Iraq, Siria e Iran.
Ed è, comunque, la stessa Turchia a cui accedono, senza visti e controlli alle frontiere, i musulmani dell’ampia regione euro-mediterranea (dai Balcani al Maghreb) che poi vanno ad arruolarsi nelle fila dei combattenti jihadisti in Siria e Iraq. E nel timore di un loro ritorno sul suolo turco come combattenti dell’ISIS, è la stessa Turchia che progetta la costruzione di un muro lungo circa 1000 chilometri sui suoi confini con la Siria.
Ed è la stessa Turchia da cui si teme il ritorno di questi combattenti confusi fra la massa di profughi e clandestini che da tempo si spingono fino alle sue frontiere con la Grecia e la Bulgaria, tanto da obbligare queste ultime alla costruzione di muri di sicurezza e di contenimento.
Barriere fisiche, quindi, da costruire e collocare là dove si presentano rischi per la sicurezza interna di nazioni non sempre pronte ad affrontare le emergenze, conseguenze dirette degli stravolgimenti della vasta area mediorientale e delle ambiguità dei suoi protagonisti. Muri di contenimento e sicurezza, quindi, che stanno riapparendo ove possibile costruirli, e dove ciò non è possibile, regna il caos.
Ed è ciò che sta succedendo nelle acque del Mediterraneo e nelle zone desertiche della Penisola Arabica o dell’Africa sahariana.
Non è un caso, infatti, che dopo il 2011, le sue rivolte in Tunisia, Egitto e in Libia, e conseguente guerra, gli analisti si siano sempre più confrontati con emergenze nelle acque del Mediterraneo per via dei profughi e nelle sabbie sahariane per via di quella “porosità” di confini che altro non è che la loro mancata messa in sicurezza. A tutto ciò hanno contribuito instabilità politica interna, con buona dose di inesperienza della nuova classe politica dei governi di transizione, corruzione, predominio e avidità criminali, a cui si sono aggiunte rivendicazioni territoriali su base clanica.
La stessa Europa, seppur a fatica e con tempi troppo dilatati, ha iniziato a riconsiderare il suo Mediterraneo come una frontiera da sbarrare militarmente per contenere gli effetti interni di quei flussi di disperati: l’operazione Triton, attiva da novembre e affidata all’agenzia europea Frontex, contempla infatti scopi ed operatività propri della difesa frontaliera. Già nel 2002, l’Unione Europea aveva iniziato a prendere coscienza della possibile immigrazione illegale dal Mediterraneo, tanto che nel 2003 vi fu la prima operazione Triton a sicurezza delle sue acque nordorientali. Con l’istituzione di Frontex, nel 2004, venne però avviato un vero e proprio processo di border management dell’Europa, in cui tuttavia il Mediterraneo e la sua sicurezza avevano un ruolo marginale.
A differenza della missione tutta italiana di Mare Nostrum che si spinge fino alle coste libiche per affrontare l’emergenza umanitaria, Triton opererà solo lungo il confine delle acque territoriali europee allo scopo di contrastare l’immigrazione clandestina; essa si servirà di sistemi di vigilanza non passiva, ossia azioni dissuasive, ispezione dei natanti, sequestro di mezzi o fermo di persone. Insomma, con questo provvedimento il Mediterraneo è inteso, a tutti gli effetti, come un confine a rischio sicurezza per l’intera Unione Europea, che sembra voler finalmente imporre a tutti i suoi membri la condivisione dell’elevato costo per la salvaguardia del suo limite meridionale.
Le emergenze di questo tipo, e ormai si sa, derivano da quanto è accaduto e sta accadendo in Libia, con la sua guerra civile, la sua recente spaccatura in due entità nazionali antagoniste e la relativa, forte instabilità lungo i suoi confini desertici meridionali: dalla guerra del 2011 e senza più forze militari governative atte a garantirne la sicurezza, questi sono stati lasciati alla mercé di bande di jihadisti e criminali dediti ai traffici più loschi, in cui quello degli esseri umani e dei profughi da varie guerre locali ha i suoi effetti sulle coste del Mediterraneo, mentre quello di armi di ogni tipo si diffonde ancora più a sud e verso est, ossia verso l’Egitto, e dal suo Sinai verso le aree calde del Medio Oriente.
Lo stesso muro costruito da Israele, lungo il confine con il Sinai (240 dei 275 km), da Eilat a Gaza, inizialmente per contrastare l’immigrazione clandestina (soprattutto da Eritrea e Sudan) è stato rafforzato, dopo le rivolte del 2011, per il rischio di infiltrazioni jihadiste dal Nord Africa. Tuttavia, il fence (recinto) – come è definito dalle autorità ebraiche - è stato reso in parte inefficace dall’ampliamento del reticolo di tunnel sotterranei costruiti dai palestinesi di Gaza e saliti alla ribalta dell’opinione pubblica con la guerra dell’estate scorsa, ma da anni dedicati a movimenti di persone e a proficui traffici illegali, fra cui appunto armi di varia provenienza, in particolare dal Sudan e solo da ultimo dalla Libia.
Con la stessa logica preventiva-difensiva Israele punta ora alla costruzione di un altro muro, ad Est, ossia da Eilat sino al Golan, attraverso quella Valle del Giordano, definita dal premier Netanyahu come “confine di sicurezza” di Israele, e per questo la nuova barriera sarà presidiata militarmente. Non è certamente una idea nuova, ma risalente addirittura al 1994 e bollata dall’allora premier Yitzhak Rabin come uno “scherzo”, perché incredulo sulla sua realizzabilità ed efficacia. Il rischio, ora, di infiltrazioni jihadiste dell’ ISIS, con la pressione dei profughi siriani e quelli iracheni da una Giordania estenuata dai continui flussi, oltre alla presenza di elementi combattenti palestinesi della Cisgiordania e istigati dalle intemperanze delle frange radicali di Hamas a colpire il territorio ebraico, hanno fatto riprendere vigore al progetto israeliano, ormai non più burla ma assillante concretezza.
Lo stesso affanno che Israele nutre nei confronti della tenuta della Giordania, la perseguita a Nord, a Metulla, al confine con il Libano, dove Tel Aviv ha già eretto un muro, con l’appoggio dei Caschi Blu dell’Onu e dello stesso esercito libanese, a protezione dagli attacchi degli hezbollah e dalle infiltrazioni di gruppi armati. Le contromisure di costoro, tuttavia, sono note: non è un caso che da Nord come da Sud il territorio israeliano sia obiettivo di lanci di razzi, a cui risponde con la barriera dell’ Iron Dome che ottempera alla stessa logica difensiva dei muri: là, come lo spazio aereo, dove non è possibile erigerli concretamente, la tecnologia interviene in aiuto, che si tratti di sistemi di intercettazione missilistica o anche solo semplicemente di sorvolo per la ricognizione di vaste aree desertiche tramite i droni.
Ciò che appare ormai chiaro è che si va sottigliando il senso di sicurezza in zone sempre più ampie del Vicino Oriente e del Nord Africa, tanto da far ipotizzare cambiamenti delle loro mappe politiche, ad iniziare da Siria e Iraq. E’ opinione di chi scrive che non sarà un processo immediato, seppur ormai in fieri. Altre esperienze nazionali come la Croazia, la Bosnia-Erzegovina o il Kosovo sono sorte dopo anni di conflitto, come è accaduto, anche se meno ricordati, per Timor Est e il Sud Sudan: perché non ipotizzare, quindi, che sia in atto un processo simile anche per il Medio Oriente o il Nord Africa?
Non è un caso, infatti, che a incontri e convegni fra analisti internazionali ed esperti della sicurezza vengano sempre più proposte mappe con un Iraq diviso fra uno Stato Islamico a nord e con parte della Siria, uno Stato curdo al centro e verso est, con una regione sciita a sud, da Bagdad a Bassora.
Anche a fronte delle troppe divergenze attuali fra potenze regionali e fra queste e quelle mondiali, è possibile immaginare, quindi, che probabili soluzioni all’instabilità di Iraq e Siria potranno essere, in futuro, realtà nazionali con all’interno enclavi “fortificate”, sostenute da potenze esterne, come Arabia Saudita, Turchia, Iran e addirittura Stati Uniti e Russia.
Da ciò si deve, quindi, dedurre che più vi è transnazionalità nelle minacce alla sicurezza, come quella propria dell’intera galassia jihadista e non solo dell’ISIS, più nascono, quindi, frontiere e muri. Si tratta di ciò che nei consessi fra esperti è definita sectarianization della sicurezza e che va ad affiancare e sostenere quella del territorio e del governo oramai di innumerevoli realtà instabili internamente, dal Vicino Oriente al Mediterraneo.
Muri, barriere, recinti o cupole tecnologiche protettive: la logica che li unisce è la separazione fra stabilità e instabilità, pericolo e sicurezza, caos e ordine, anche a costo di ghettizzarsi in enclavi, finendo così per rappresentare l’ aspetto più paradossale, oscuro e fallimentare della globalizzazione che di per sé, invece, è straordinaria unificatrice di popoli.
25/10/2014
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