L’attacco a Parigi a Charlie Hebdo del 7 gennaio scorso era stato rivendicato da uno dei due fratelli terroristi, Said Kouachi, come voluto e diretto da al-Qaeda nella Penisola Arabica, AQAP. L’altro terrorista, il solitario Amedy Coulibaly, si era dichiarato appartenente all’ISIS/Da’ish. Se il primo, in effetti, era stato in Yemen, base strategica dell’AQAP, e pare abbia anche seguito una qualche forma di addestramento militare, dell’appartenenza del secondo al Da’ish non si sono avute conferme: tuttavia, ciò è bastato a far comprendere come le due organizzazioni siano prese a riferimento dai fanatici sostenitori del jihad.
Quei fatti, tuttavia, hanno anche fatto riemergere al-Qaeda, più o meno volontariamente, dal limbo in cui era finita dopo che il Da’ish era salito prepotentemente alla ribalta della politica e delle cronache mondiali con i fatti della proclamazione del Califfato, a giugno 2014, l’avanzata vittoriosa delle sue forze combattenti in Siria e Iraq, le violenze contro le popolazioni civili inermi e la macabra ostentazione dell’uccisione di ostaggi. Non è un caso che molti osservatori, proprio all’indomani dei fatti di Parigi, avessero sottolineato come quelle azioni rappresentassero un salto di qualità da parte di al-Qaeda e per non soccombere contro il Da’ish nella competizione interna allo stesso mondo sunnita radicale.
Al momento, tutto ciò è solo in parte vero, dato che non vi è la certezza assoluta dei veri mandanti dei fratelli Kouachi, facendo propendere più per l’azione indipendente di singoli soggetti fanatici. Tuttavia, può essere preso a pretesto come spunto per un’analisi più profonda delle due organizzazioni eversive e tentare di fare chiarezza su come, in realtà, si stiano muovendo nell’ eterogeneo, complesso e mutevole universo jihadista. E’ necessario, quindi, partire un po’ prima dei fatti parigini.
Nel settembre del 2014, al-Zawahiri, a capo di al-Qaeda dopo la morte di Osama bin Laden, annunciava la nascita di una nuova branca regionale della sua organizzazione, l’ AQIS, al-Qaeda nel Subcontinente Indiano, al cui vertice veniva nominato Asim Umar, fra i principali ideologi del jihadismo pachistano. Ciò seguiva di qualche mese l’annuncio del rinnovato sostegno di al-Zawahiri al talebano afgano Mullah Omar – di cui non si hanno notizie da tempo – e ribadito proprio all’indomani del discorso del suo principale antagonista, l’autoproclamato Califfo al-Bagdadi, presso la moschea di Mosul.
Il 26 gennaio 2015, invece, il portavoce del Da’ish, Abu Muhammad al-Adnani, annunciava via video e twitter, il suo sostegno alla creazione del Wilayat Khurasan - dallo storico nome dell’area che comprende gli attuali territori dell’Afghanistan, Pakistan e parte dell’India - ossia di un progetto di provincia da quel momento intesa come parte dello Stato Islamico, e con la nomina di Hafiz Saeed Khan (un ex capo del network Tehrik-e-Taliban, TTP, composto da differenti gruppi jihadisti della regione), a suo wali o governatore.
In pratica, nel corso di poco più di sei mesi, e sebbene impegnati in due conflitti duri e violenti, come quelli siriano-iracheno e afgano, Da’ish e al-Qaeda si scontravano duramente, fra dichiarazioni e autoproclamazioni, in quello che ormai è diventato, più che una minaccia terroristica per l’Occidente, un aperto confronto interno al jihadismo sunnita radicale per dimostrare di essere pronti al jihad contro i rispettivi nemici, ben consapevoli di trovare terreno fertile in numerose realtà politicamente instabili, dal Vicino Oriente al Nord Africa sino all’Indonesia. E l’obiettivo è, appunto, spostarsi verso l’Asia centrale e sud-orientale agendo, però, da una nazione in particolare, ossia il Pakistan.
L’annuncio di fine estate dell’istituzione di AQIS, tuttavia, era passato in sordina, forse perché seguiva di pochi giorni la prima decapitazione di un ostaggio da parte di Da’ish, su cui si era concentrata l’intera attenzione dell’opinione pubblica mondiale.
La nascita di AQIS da parte di al-Qaeda Core, con il chiaro intendimento di porre sotto la propria tutela una buona dose di gruppi della lotta radicale islamica dell’Asia centrale e orientale, si presentava, però, subito come l’ estremo tentativo della vecchia guardia terroristica di Osama bin Laden di dimostrare al mondo intero che era ancora viva ed attiva, con progetti di conquista e di sovvertimenti anche per quella parte di mondo.
Da allora sono seguite innumerevoli analisi che hanno sottolineato le differenze più evidenti fra i due gruppi: prima di allora e dei fatti di Parigi, al-Qaeda, con la sua organizzazione verticistica, vecchia, lenta pressoché statica, non più in grado di progredire ma unicamente di mantenere faticosamente quanto conquistato negli anni, ossia quella nomea di gruppo terroristico autore di attentati complessi come quelli dell’11/9, sembrava solo più capace di sopravvivere nel suo santuario pakistano con proclami alla guerra santa, alleanze ed espulsioni di gruppi dal proprio network terroristico, e con un sussulto di vivacità operativa dato dall’azione nel conflitto siriano del gruppo ad essa affiliato di Jabhat al-Nusra e nel sostegno alla forze indipendentiste dello Yemen meridionale.
Dall’altro lato, il Da’ish, uno spin-off della stessa al-Qaeda in Iraq (AQI), si imponeva nel jihadismo con la sua organizzazione e con una leadership più strutturata orizzontalmente ma soprattutto composta, oltre che da veterani della guerra santa sparsa nel mondo, anche da giovani leve provenienti dai vari continenti e con l’attitudine alla rapidità, sia comunicativa che operativa su un campo di battaglia, anche se vasto e complesso come quello siriano-iracheno: un insieme eterogeneo di soggetti che univano esperienza di combattimento e ferocia, alternando capacità a sostenere lunghi assedi con azioni rapide di guerriglia, in grado di promuovere un richiamo al jihad mondiale mai visto sino ad allora.
Insomma, si andavano delineando, più o meno esplicitamente, i caratteri di due generazioni di combattenti per il jihad pronti a confrontarsi e a spartire la torta dell’eversione radicale sunnita, con una netta prevalenza per vigore, ferocia, organizzazione ed eco mondiale da parte di Da’ish.
Tuttavia, qualcosa in più è emerso nel corso degli ultimi mesi: l’evidenza più grande è proprio nell’impronta di fondo che appartiene e contraddistingue le due organizzazioni.
Al-Qaeda è e rimane un gruppo terroristico puro, a vocazione transnazionale, che trae forza soprattutto da azioni armate eversive non convenzionali e dal franchising del suo marchio a gruppi jihadisti sparsi nel mondo che operano secondo regole ed obiettivi definiti, appunto, dalla lontana leadership di al-Qaeda Core. Non affianca i talebani afghani nelle operazioni sul campo nel conflitto contro la coalizione internazionale, ma fornisce loro il supporto logistico, finanziario e l’ addestramento per una sorta di deferenza all’antica alleanza fra i due “signori del terrore”, ossia Osama bin Laden e il Mullah Omar.
Da’ish è, invece, una forza combattente-esercito che usa anche il terrorismo, ma che agisce prevalentemente sul campo di battaglia convenzionale con tattiche di insurgency, proprie di soggetti con piani strategici di effettiva conquista territoriale e politica all’interno di confini geografici ben definiti.
E ciò è dovuto al fatto che Da’ish è altresì l’espressione armata insurrezionale di quegli alti esponenti militari baathisti che furono della Guardia Repubblicana e degli apparati di intelligence di Saddam Hussein, e che la dirigono, decisi a riprendersi il territorio, sottraendolo a un potere centrale da anni inteso come nemico, perché troppo a favore della componente sciita e dalle dubbie alleanze internazionali.
Da’ish è il simbolo della battaglia vera, aperta, per la realizzazione di progetti locali, effettivi. Lo stesso spirito di conquista territoriale è fatto proprio dai gruppi jihadisti che, sparsi nelle vaste aree instabili come il Nord Africa, quella subsahariana, il Centro Asia, l’intero subcontinente indiano e oltre sino alla Malesia e Indonesia, passando dalle guerre del Vicino Oriente, reclamano quei territori per porli sotto il controllo di governanti fedeli allo spirito e alle leggi islamiche: ma il suo modello è anche ispirazione di singoli soggetti (o lone wolf) sparsi nelle vaste comunità islamiche del resto del mondo non musulmano. Questo, però, è ancora un fenomeno che si sta delineando, la cui estensione e pericolosità non fanno del Da’ish, al momento, un gruppo terroristico transnazionale al pari di quello garantito dal franchising di al-Qaeda, sebbene ne rappresenti la più pericolosa minaccia ed alternativa.
Da’ish, infatti, apprezza e plaude la condivisione del suo progetto di jihad e del califfato da parte di altri gruppi eversivi, ma non concede il suo “marchio” a ciò che è azione jihadista fuori dai confini di Iraq e Siria.
La distinzione fra i due organismi è data, quindi, sia dagli obiettivi che si propongono, sia dai metodi comportamentali e operativi, se non divergenti - dato che Da’ish utilizza anche azioni terroristiche, come missioni suicide e autobombe – sicuramente con notevoli variabili.
Non è un caso, infatti, che i rapporti fra i due soggetti siano sempre stati turbolenti, con alleanze sporadiche (come in Siria) e accesi diverbi sino alla scissione (Iraq), con oggetto di disputa proprio l’estrema brutalità utilizzata da Da’ish quando era ancora al-Qaeda in Iraq, sino a dimostrazioni di solidarietà - e non poteva essere altrimenti - da parte di al-Qaeda a Da’ish quando è iniziata l’offensiva aerea da parte della coalizione internazionale per contrastarne l’avanzata in Iraq.
La diversità la si deve cogliere nell’osservazione delle rispettive operatività nel lungo periodo, non limitandosi, quindi, ad analizzare l’azione di singoli individui, fatti o sporadiche dichiarazioni, come è accaduto nei giorni degli attacchi di Parigi.
L’esatta individuazione dei veri obiettivi a lungo termine di questi organismi eversivi può aiutare, infatti, a definire chiaramente le forme di contrasto più adeguate; e proprio perché così differenti, Da’ish e al-Qaeda impongo risposte diverse.
Al-Qaeda, infatti, non ha abbandonato il suo obiettivo strategico più importante o “nemico lontano”, ossia gli Stati Uniti e alleati, per via della loro occupazione e del controllo di porzioni dell’ Ummah (comunità islamica), con intenti che vanno dal dominio sulle riserve energetiche alla realizzazione dei piani di conquista territoriale di Israele. Il nemico statunitense è, però, così distante, e non solo geograficamente ma anche perché dissimile, data la sua forza militare soverchiante, da risultare troppo astratto ormai per molti combattenti un tempo attratti dalla guerra santa incitata dall’organizzazione di Osama bin Laden.
Sebbene non dichiarato apertamente, al-Qaeda sembra avere un solo obiettivo concreto, ossia il controllo del Pakistan (con il buon sostegno da parte dei talebani afghani) e dello Yemen, intesi come Paesi dalla posizione geografica strategica da cui irradiare il proprio governo sulla compagine dei fenomeni jihadisti nel resto dell’Asia e verso l’ Africa. Per ottenere tutto ciò, da tempo al-Qaeda Core coltiva anche contatti e interrelazioni personali che arrivano persino a matrimoni fra i suoi esponenti di spicco con donne di tribù locali, stabilendo in tal modo forti legami clanici, a cui si sommano la condivisione della stessa interpretazione radicale dell’Islam e la comune gestione del cospicuo sostegno finanziario proveniente dalle organizzazioni caritatevoli musulmane salafite.
Agendo contro gli Stati Uniti e l’Occidente, al-Qaeda mira a colpire anche quel che rappresenta il “nemico vicino”, ossia i governanti musulmani empi, apostati, irrispettosi della legge islamica. Secondo al-Qaeda, venendo a mancare loro il supporto occidentale, costoro risulterebbero meglio disposti al passaggio verso un nuovo governo più consono alla legge islamica. Ciò, tuttavia, non rappresenta per al-Qaeda Core quella priorità che, invece, riconosce alla lenta ma graduale conquista delle menti del popolo dell’ Ummah - come sta facendo, appunto, in Pakistan e in Yemen - più che quella del vero e proprio territorio fisico.
Al contrario, questa è la priorità di Da’ish.
La sua azione si concentra, infatti, sul “nemico vicino”, vale a dire tutto ciò che impedisce il raggiungimento del suo obiettivo concreto, materiale e tangibile, ossia la realizzazione del Califfato nei suoi antichi confini. Secondo la sua visione distorta di un Islam politico, tutto ciò che conquista militarmente, come è accaduto in Siria e Iraq, diventa una realtà istituzionale, sociale, giuridica ed economica propria del Califfato, recepito, però, attraverso l’abuso di una interpretazione estrema e falsata non solo della storia ma pure della stessa sharia (da cui l’opposizione cruenta anche allo sciismo), e con lo sfruttamento delle ricchezze (petrolio, acque, beni artistici) di un territorio, sottratto con il genocidio a minoranze etniche e religiose intese come nemiche, e che gli permettono di sopravvivere in quel contesto conflittuale. Tutto ciò concorre al reale compimento del suo più famoso slogan baqiya wa tatamaddad, ossia “rimanere ed espandersi”.
Per questo Da’ish si dimostra vincente soprattutto per le giovani generazioni di combattenti jihadisti, rispetto al lento progredire della minaccia posta in essere da al-Qaeda in zone lontane e contro obiettivi troppo estranei alla quotidianità dell’ Ummah. Insomma, quel che Da’ish propone e affascina, attirando simpatie, adesioni ed emulazioni, è la concretezza-vicinanza del suo progetto a fronte dell’astrattezza-lontananza di quello di al-Qaeda. Si tratta dell’ appeal di un vittoria immediata che richiama combattenti in Siria e Iraq da ogni parte del globo e che prodiga anche imitazioni in altre aree, come nella Cirenaica libica in cui è già stato proclamato il Califfato di Derna - protagonista, fra l’altro, dell’attacco suicida all’hotel Corinthia di Tripoli nei giorni scorsi - o il quasi-istituito Califfato del Libano che Da’ish si appresta a riconoscere come wilayat e con a capo il pluriricercato Sheikh Ahmad Assir.
Ciò, tuttavia, non deve trarre assolutamente in inganno e far immaginare a un declino o, addirittura, ad una fine della stessa al-Qaeda. Come affermato più sopra, questa organizzazione terroristica pura punta al controllo di regioni strategiche ai suoi fini, attraverso un lento processo di conquista delle istituzioni e parte della popolazione (istruzione dei giovani, graduale imposizione della sharia e dei tribunali islamici, per citare gli strumenti più noti) sino alla proclamazione di emirati veri e concreti in quelle che erano i confini delle vecchie aree tribali, e che rappresentano la vittoria finale contro i governanti apostati.
AQIS dovrebbe, quindi, servire a questo progetto; non da meno AQAP sta già servendo a concretizzarlo.
L’al-Qaeda nella Penisola Arabica, infatti, agisce in Yemen da anni con la stessa logica che ora al-Qaeda Core vorrebbe per il continente asiatico, tenendo ben presente l’obiettivo strategico, ossia colpire il nemico, Stati Uniti e alleati, nei loro punti nevralgici che, a parere della leadership di al-Qaeda, sono rappresentati fra gli altri dai traffici marittimi passanti da quei choke points che sono, nello specifico, l’Oceano Indiano, il Golfo di Aden e lo stretto di Bab el-Mandeb.
E’ riprendere il concetto espresso da Abu Musab al-Suri - principale ideatore della dottrina strategica di conquista di al-Qaeda - che aveva preso a prestito dalle tattiche operative delle Tigri Tamil del gruppo LTTE dello Sri Lanka[1]: puntare ai choke points (stretto di Hormuz e i terminal petroliferi del Golfo Persico, il Canale di Suez, gli stretti di Bab el-Mandeb e di Gibilterra, e addirittura il Canale di Panama), bloccandone il passaggio per ogni tipo di imbarcazioni, affondarle minando le acque, minacciare azioni piratesche, sino addirittura ad azioni suicide contro le stesse navi.
E’ la realizzazione di un vero e proprio jihad sui mari, inteso non come l’ inverosimile scontro asimmetrico tra potenze militari navali, ma come violento impedimento del flusso marittimo civile commerciale e delle flotte militari che al-Qaeda Core denuncia come “sostegno alla crociata degli Stati Uniti e dell’Occidente all’ Ummah”, dall’Afghanistan, Kashmir, Bangladesh, Indonesia ma anche sino allo Yemen, e che comprende tutto ciò che permette la presenza militare occidentale nei territori dell’Islam.
In quest’ottica, nel settembre scorso, e con la stessa logica degli attacchi alla USS Cole (2000) [2], alla petroliera francese M/V Limburg (2002) e a quella giapponese MV M. Star (2010)[3], elementi di un AQIS appena istituito avevano tentato la cattura di 2 fregate della Marina pachistana (PNS Zulfiqar e PNS Aslat) da utilizzare contro navi statunitensi e indiane. Il commando era guidato da 2 ufficiali della Marina stessa reclutati da al-Qaeda; elementi qaedisti erano parte dell’equipaggio presente sulle due fregate e il supporto a terra era garantito da forze talebane.
L’ordine, partito da al-Zawahiri e rivelato dalla stessa al-Qaeda Core alla stampa internazionale in un documento scritto, era di “colpire la presenza militare degli Stati Uniti sui mari”, colpevoli anche di unire i Paesi asiatici nella “crociata” globale contro l’Islam attraverso il Coalition Maritime Campaign Plan, CMCP, ossia il piano di pattugliamento e messa in sicurezza delle rotte marittime che fa parte dell’ Operazione Enduring Freedom, e che fornisce appoggio logistico alle FFAA statunitensi e della coalizione internazionale in Afghanistan. Il piano venne sventato dall’azione dell’ intelligence pachistana: tuttavia, fece emergere preoccupazioni, non soltanto relativamente al progetto eversivo ma, in particolare, all’infiltrazione di al-Qaeda nelle fila delle stesse FFAA pachistane.
Il controllo del Pakistan, infatti, è per al-Qaeda cruciale, molto di più di ciò che potrebbe ottenere dalla sua influenza in Iraq o in Siria, o addirittura sui gruppi del Nord Africa (come in Sinai) e di parte di quell’AQIM che ormai ha apertamente dichiarato il suo sostegno a Da’ish: in Pakistan vi sono, infatti, innumerevoli gruppi jihadisti ma soprattutto un humus tribale sensibile al richiamo islamista estremo, consensuale e condiviso che poggia su un vasto e comune antiamericanismo, e una conformazione geografica che permette la creazione di santuari protetti. Tutto ciò è molto di più di quanto Da’ish spera di ottenere in Iraq e Siria.
Al-Qaeda, infatti, prosegue nella sua lenta ed invasiva conquista fra le fila di esponenti anche delle istituzioni pachistane, ottenendo adesioni; Da’ish ottiene, invece, visibilità dalle azioni cruente di gruppi simpatizzanti, come il Jundullah (affiliato al TTP), protagonista, nel dicembre scorso, dell’assedio e della strage alla scuola di Peshawar, con 140 morti, e dell’attentato suicida, il 30 gennaio scorso, alla moschea sciita di Shikarpur, con oltre 60 morti. Non da meno, tuttavia, il Da’ish conquista elementi di più basso livello, in particolare nel Kashmir[4] e in India, dove è riuscito a reclutare giovani poi mandati a combattere in Siria e Iraq e, si teme, pronti ad agire come lupi solitari al loro rientro.
Al-Qaeda mirerebbe, inoltre, – secondo alcuni osservatori, ed è un punto di vista in parte condivisibile – all’armamento nucleare detenuto dal Pakistan, così come a capitalizzare a proprio vantaggio gli attriti fra quel Paese e l’India, con tutto ciò che comporta destabilizzare la nazione indiana con la sua portata strategica per l’Asia. Questo rappresenta veramente l’alzata del tiro della vecchia organizzazione di Osama bin Laden, non certamente i fatti di Parigi.
Le frecce all’arco di al-Qaeda, a fronte delle sue debolezze viste sopra, sono numerose, maggiori di quelle a disposizione di Da’ish: al-Zawahiri, sebbene privo di carisma, è uno stratega esperto, e al-Qaeda possiede chiari riferimenti dottrinali che ben si adattano al clima di instabilità e tensione di molti Paesi della regione, soprattutto del Pakistan. Inoltre, la rete qaedista è presente in oltre 60 Paesi, continuando altresì a ricevere cospicui finanziamenti dalla comunità salafita-sunnita. Sono elementi da non sottovalutare perché si è abbagliati dalle azioni tragicamente più “spettacolari” di Da’ish.
Ecco del perché di AQIS: un tentativo di rinvigorire la “base”, agendo anche con attacchi terroristici in India e Pakistan, quest’ultimo inteso come hub da cui proiettare verso Oriente la propria influenza e affermare il proprio controllo sulla pletora di movimenti o simpatizzanti jihadisti: i Paesi dell’area, infatti, dove sembra esserci maggior sensibilità al richiamo jihadista sono l’Indonesia e la Malesia[5] con un ruolo, al momento, non ancora significativo ma non da sottovalutare, della regione cinese dello Xinjiang con la sua componente di musulmani uiguri.
Proprio per questo l’ escalation di scontri in quella regione fra i due organismi del radicalismo sunnita, anziché una possibile alleanza, è qualcosa di più che un’ ipotesi di analisti, forse non nell’immediato, ma sicuramente in vista e soprattutto in seguito al ritiro delle forze della coalizione internazionale dall’Afghanistan e con un Pakistan ancora in balia dell’instabilità interna.
La stessa conquista di porzioni del sud-est asiatico e la realizzazione di un programma unitario sembrano, infatti, difficoltose anche per le stesse organizzazioni leader del jihadismo mondiale come al-Qaeda e Da’ish: la conformazione geografica frammentata in innumerevoli isole, la presenza di etnie, lingue e religioni diverse, il forte contrasto fra le periferie e i centri del potere si rivelano come ostacoli per la gestione dei movimenti eversivi. Questi, infatti, se non controllati sarebbero capaci di riversare il loro jihad contro obiettivi civili o istituzionali a caso, senza un preciso piano strategico se non violenza fine a se stessa e desiderio di guadagno economico: una evoluzione dell’azione violenta, quindi, che al momento è difficile da definire, a cui si teme possa aggiungersi la lotta per il controllo anche dei proficui traffici di droga, che dal sub-continente indiano si irradiano verso l’Oriente, con relativo sostentamento finanziario.
Per gli stessi motivi, il contrasto al jihad sui mari di al-Qaeda Core risulta molto complesso: vi è troppa parcellizzazione di gruppi e di obiettivi, che rispecchia la stessa frammentazione geografica dell’intero sub-continente indiano e che finisce, infatti, per ostacolare una proficua ed unitaria azione di contrasto fra agenzie di intelligence e sicurezza locali, seppur vi siano segnali di buona collaborazione, come nel caso della pirateria marittima, a cui partecipa ampiamente la stessa Cina.
Tutto ciò potrebbe, però, portare all’ inasprimento del confronto interno al mondo radicale sunnita già in atto fra al-Qaeda e Da’ish.
L’obiettivo è la conquista di quella buona parte di mondo: che sia delle menti delle genti dell’ Ummah come vuole al-Qaeda, o la riconquista violenta di quei territori perché un tempo del Califfato come vorrebbe Da’ish, pare del tutto relativo. Ciò che importa è che quel progetto ha rinvigorito gli animi fedeli ad al-Qaeda e sta donando spunto e creando terreno fertile per quelli simpatizzanti il Da’ish. Inevitabile, quindi, lo scontro, che non potrà che essere cruento. Sta a chi contrasta tutto ciò prenderne coscienza e prepararsi a difendere e a salvaguardare i possibili obiettivi, mettendo tutto l’ingegno e la fantasia che occorre per osteggiare avversari per nulla sfibrati da oltre un decennio di guerra al terrore.
[1] Unico gruppo a cui sono state attribuite azioni terroristiche in mare di tipo piratesco, e poi preso ad esempio da numerosi elementi, più criminali che eversivi.
[2] Già nel gennaio del 2000 ci fu il tentativo, poi fallito, da parte di uomini di al-Qaeda e su ordine di Osama bin Laden, di attaccare la USS The Sullivans (DDG-68), ancorata nel porto di Aden. Nove giorni dopo vi fu l’attacco alla USS Cole.
[3] Quest’azione suicida fu opera delle Brigate Abdullah Azzam nello stretto di Hormuz, con un ferito fra i membri dell’equipaggio.
[4] E’ considerato luogo di raccolta di molti gruppi terroristici, che trovano supporto in Pakistan - in particolare si teme l’aggancio con l’intera rete TTP – e da cui intenderebbero colpire in India.
[5] Nell’agosto scorso, 19 soggetti erano stati arrestati dalle forze di sicurezza malaysiane perché scoperti in un progetto di attacchi terroristici per dare il via a un Califfato del sud-est asiatico, comprendente Malesia, Indonesia, Singapore, Tailandia e Filippine.
Germana Tappero Merlo©Copyright 2015 Global Trends & Security. All rights reserved.