Qualcuno li definisce corporate warriors, altri guns for hire, altri ancora mercenaries: si tratta dei membri delle Private Military and Security Companies (PMSC) che, nella peggiore accezione ed anche la più errata traduzione, sono definiti “mercenari”.
Con l’avanzare dell’ISIS nello scenario mediorientale e le voci insistenti sulla necessità dell’intervento di truppe terrestri, il dibattito sul possibile ricorso ai contractors sia della sicurezza (PSC) che militari (PMC), ha fatto riemergere costoro dal limbo in cui erano sprofondati dopo i fatti legati alla Blackwater in Iraq - con l’affare Abu Ghraib e la strage di piazza Nissour, nel 2004 e 2007 - e il calo negli ingaggi per via del ritiro delle truppe statunitensi da quel Paese, appunto, o il loro ridimensionamento in Afghanistan. Tuttavia, questo dibattito presso i media ha mostrato fino ad ora dilettantismo e lacune, a cui si aggiungono commenti pregiudizievoli, frutto di passaparola e non di analisi di dati e di documenti istituzionali ormai abbondantemente a disposizione.
La tendenza da parte di alcuni Stati a utilizzare l’ outsourcing o esternalizzazione presso strutture private di servizi normalmente erogati da assetti interni alle proprie forze dell’ordine o forze armate, ha preso l’avvio con gli anni ’90, ed è andato ampliandosi con la lunga guerra in Iraq fino a diventare ora non un’eccezione ma una regola. Si tratta di una vasta gamma di servizi che vanno dalla logistica, trasporti, comunicazioni, ordine pubblico e sicurezza personale, sino all’ addestramento militare e, fra le nuove mansioni, anche l’intelligence e l’operatività diretta in battaglia.
Il ricorso a questi servizi esterni, anche presso agenzie con personale locale delle zone operative, muove ormai giri di affari dalle cifre decisamente importanti: e se la sicurezza da servizio per il pubblico o per il bene comune si sta trasformando in un “servizio fornito privatamente”, quel che Eisenhower definitiva il “complesso militare-industriale” si sta sempre più convertendo in un “complesso di servizi militari”, in cui prevalgono le grandi corporations private.
Generalmente si pensa che il sempre più ampio ricorso ai contractor sia un fenomeno tipicamente statunitense, vista appunto l’esperienza irachena e afghana: in realtà, il settore è molto attivo con numerose società operanti da vari Paesi, dall’Australia, Russia, India sino al Regno Unito e appunto agli Stati Uniti, con questi ultimi che eccellono per il più alto numero di società che erogano la vasta gamma di servizi civili, di polizia oltre che militari. Il giro di affari mondiali all’anno legato alle PMSC, nel loro complesso e nel solo 2014, è ormai di 220 miliardi di dollari, con un tasso di crescita annuale previsto del 7,5%, tanto da far raggiungere circa i 250 miliardi nel 2016.
Ed è proprio negli Stati Uniti che il dibattito sul loro ruolo attuale e i possibili impieghi futuri sta assumendo notevole impatto politico, non solo per il giro di affari che smuovono i contractor del Dipartimento della Difesa (DoD), ma anche per le implicazioni strategiche e tattiche, visti i mutamenti di scenari complessi e per il futuro delle stesse Forze Armate nazionali.
I numeri al riguardo sono significativi. Dal 2008 al 2013, a fronte del ritiro delle truppe statunitensi, si era registrato un crollo del 14% delle assunzioni da parte delle 5 maggiori società contractor del DoD, con la Lockheed Martin addirittura del 20%. Sempre secondo fonti ufficiali militari, a luglio 2014, degli oltre 240mila contractors statunitensi operanti, per il Pentagono e il DoD, per la sicurezza del personale diplomatico, l’addestramento di forze locali e per operazioni aree, dall’ Afghanistan, Somalia, Pakistan, Yemen, i contractors erano di poco superiori alle 60mila unità, di cui poco più di 14mila operativi al di fuori dell’Afghanistan.
Questo ricorso a contratti con agenzie private viene genericamente definito negli Stati Uniti Operational contract support, e si estende su tre livelli di operazioni di emergenza: interna, esterna e bellica, ossia di supporto in un contesto operativo di guerra.
Sulla base di dati ufficiali del DoD, in media, i contractors hanno rappresentato metà delle forze impiegate per gli Stati Uniti nei Balcani, in Afghanistan e in Iraq, comprendendo per questi ultimi anche i Paesi limitrofi. Nel solo Afghanistan, a marzo 2013, vi erano circa 108mila membri di società private, ossia il 62% del complesso di personale presente, con esborsi finanziari, da parte del DoD e per servizi esterni, maggiori di qualsiasi altra agenzia governativa.
A parere di molti esperti, si tratta oramai di una tendenza incontrovertibile negli affari militari, soprattutto negli Stati Uniti, in cui realtà imprenditoriali dedicate a questi contratti, come la DynCorp, Northrop Grumman, Leidos, Excelis, Raytheon, SAIC, General Dynamics, L-3 Contractor, solo per citarne alcune e tutte con forti ingaggi presso il DoD, paiono essere diventate il punto di riferimento non solo per i più tradizionali servizi offerti ma perfino come think tank strategici, gestendo informazioni prese direttamente dai loro contractors operativi negli scenari di maggior crisi o conflittuali. Addirittura, secondo altri osservatori, e grazie alle loro fonti, starebbero influenzando pesantemente l’opinione pubblica, distorcendo la realtà dei fatti e portando così a ingigantire criticità al solo fine di far intervenire i propri elementi.
Insomma, l’intero mondo della sicurezza e della difesa sta mutando profondamente, pressato dall’evoluzione degli scenari geopolitici, con i loro nuovi soggetti e i complessi ambiti operativi, e dalla crisi economica dell’Occidente con le sue frenate nella crescita e i rischi di recessione, da cui i tagli di bilanci e la privatizzazione di vasti settori dei servizi pubblici. Tutto ciò impone urgentemente riflessioni sul futuro di quella che pare essere un’ennesima rivoluzione negli affari militari (Rma), così come avvenne a suo tempo, ad inizio anni ’90, quando si preferì accrescere notevolmente l’impiego delle innovazioni tecnologiche sui teatri operativi a fronte di una notevole riduzione del fattore umano
Come accennato più sopra, le PMSC si distinguono fra PSC (sicurezza) e PMC (militare) ciascuna con evoluzioni ed impieghi operativi differenti.
Le società private per la sicurezza personale PSC, la cui dimensione varia da locale, media a multinazionale – la principale è la britannica G4S, con i suoi 618mila addetti in 120 paesi, seguita dalla statunitense Securitas, 280mila addetti in 50 paesi – annoverano fra i loro clienti organizzazioni internazionali, aziende multinazionali, organizzazioni non governative, imprese medie-piccole, così come singoli individui. E’ per lo più un servizio di protezione personale che viene destinato a privati, da singoli a gruppi di operatori, in contesti a rischio (dalla criminalità comune e/o organizzata alla pirateria marittima, oppure scorte armate in zone a conflittualità elevata, protezione impianti etc.).
Anche le agenzie delle Nazioni Unite fanno ricorso a PSC per la protezione del proprio personale e delle relative sedi: ciò è emerso urgentemente di fronte alla consapevolezza che l’insegna blu dell’ONU non è più rispettata nella sua inviolabilità, come lo era stata fino a una ventina di anni fa, tanto che negli ultimi conflitti è stata più volte oggetto di veri e propri attacchi. Il fenomeno si è così esteso ed ormai radicato che ne è nato anche un dibattito interno a questo organismo circa la necessità di ricorrere sempre più spesso a PSC, ma altresì di ottenere garanzie circa un comportamento etico e di rispetto dei diritti umani da parte dei contractors privati. Le perplessità al riguardo avevano già portato nel 2008 al documento di Montreux, in cui veniva affermato l’obbligo per gli Stati di assicurarsi che i membri delle loro compagnie private rispettassero comportamenti etici e le leggi sui diritti umani; a ciò seguiva, nel 2010, per iniziativa della Svizzera, l’elaborazione di un vero e proprio codice di comportamento per i providers di servizi di sicurezza privati.
Inoltre, si starebbe addirittura pensando, all’interno dell’ONU, di estendere il ricorso alle PMC per le operazioni di peacekeeping e peacebuilding: un settore, quindi, in crescita continua e veloce che però vede anche forti lacune, come per il contesto giuridico in cui i contractors privati dovrebbero operare in futuro per questo organismo sovranazionale e per compiti che esso esplica tuttora attraverso contingenti militari messi a disposizione dai singoli Stati e con regole redatte in circa 70 anni di operatività.
Infatti, completamente diverso rispetto a compiti e relative responsabilità delle PSC, è ciò che si sta profilando proprio a livello di PMC, ossia circa i futuri ruoli di queste società private che stanno ampliando il loro raggio d’azione a funzioni tradizionalmente proprie delle forze armate nazionali: fra queste emergono la raccolta, l’ elaborazione di informazioni e/o la stessa operatività sul campo in un contesto bellico.
In particolare, il dibattito era già iniziato in Iraq con gli scandali della Blackwater e si è esteso con l’affare Snowden e la fuga di notizie riservate da parte di un dipendente di una società privata, la Buzz Allen Hamilton, contractor della NSA: il tutto ruota, quindi, attorno all’opportunità di esternalizzare servizi in due settori particolarmente sensibili come l’ intelligence e, ora, l’operatività di forze speciali “private” in aree di conflitto.
Se, a fronte di tagli ai bilanci e crisi, esiste certamente una convenienza in senso economico a “noleggiare” all’occorrenza strutture private per compiti tradizionalmente propri del settore militare, come la logistica, trasporti sino alle mense da campo invece di mantenerle costantemente attive all’interno delle forze armate, tutta un’altra piega assumono la responsabilità e l’opportunità, anche politica, di delegare ad esse le attività militari vere e proprie su un campo di battaglia. A ciò si aggiungono le perplessità circa il futuro della raccolta e della gestione delle informazioni, ossia l’ intelligence, considerando che oramai, secondo dati ufficiali, almeno il 70% dell’intero budget statunitense per questa attività è destinato a servizi forniti dai privati.
Con l’avanzare della guerra contro l’ISIS in Iraq e in Siria, i segnali di un ritorno massiccio del Dipartimento della Difesa statunitense ai servizi di società private, sia PSC ma soprattutto PMC, paiono credibili ma allarmanti per tutta una serie di elementi dovuti in parte alle problematiche sorte con le passate esperienze e perché il sistema militare statunitense, sebbene ne riconosca il ruolo sempre più determinante, sembra diviso al suo interno sul ricorso a questi servizi esterni.
Già nel febbraio scorso, il Wall Street Journal parlava di oltre 5000 contractor delle principali compagnie statunitensi impegnati come addestratori delle forze militari irachene, anche per la manutenzione di strumenti in loro dotazione come droni ed elicotteri; tuttavia, erano numeri decisamente troppo al ribasso, rispetto ai forti introiti degli anni precedenti. Sembra, invece, che l’emergenza dovuta all’avanzata dell’ ISIS stia facendo, ora, propendere per una notevole ripresa delle attività del settore.
I segnali in questa direzione sono apparsi ad inizio estate 2014, con richieste del Pentagono ai propri fornitori di stima di costi per la realizzazione in Iraq di un network di 10 postazioni per le comunicazioni satellitari VSATs, ossia del sistema sicuro di comunicazione voce e dati utilizzato nelle basi avanzate (FOB). L’altra richiesta del Pentagono alle aziende private si riferiva ad una stima dei costi per l’impiego di istruttori e di consiglieri della sicurezza da far affiancare al ministero della Difesa iracheno.
A fronte di queste ipotesi di ingaggio, vi è già stato un dispiegamento di oltre mille unità regolari statunitensi a garanzia della sicurezza del personale e delle strutture diplomatiche in Iraq e di 600 elementi delle forze speciali, per la riorganizzazione di quelle regolari irachene e i peshmerga curdi, con tutto ciò che comporta come servizi, logistica, trasporti etc.
Tuttavia, ciò di cui si è maggiormente discusso a fine settembre 2014 è il contratto quinquennale di oltre 7 miliardi di dollari firmato dal Pentagono per conto dell’INSCOM (ossia l’US Army’s Intelligence and Security Command) con la NSA e, inevitabilmente, con i suoi 21 fornitori privati, capeggiati da Booz Allen Hamilton, Bae System, Lokheed Martin e Northrop Group, per provvedere alla completa copertura di azioni integrate fra intelligence e sicurezza in Afghanistan, e “alle operazioni di emergenza” nel resto del mondo, con un non esplicito ma inequivocabile riferimento al contesto mediorientale (Iraq, Siria e Yemen). In pratica, si è ulteriormente rafforzata la commistione fra ruoli delle agenzie federali e governative istituzionali (NSA e INSCOM) e i molteplici servizi garantiti dalle compagnie private contractor del DoD, ma che partecipano altresì al network di sistemi di raccolta dati, sia elettronici che humint, dato che, ad esempio, sia la Lokheed Martin che la Northrop Group, posseggono entrambe unità di intelligence molto attive, sia nella raccolta dati che nella loro analisi.
La stessa Jellyfish (emanazione dell’ex-Blackwater, ora Academi) per propria ammissione, disporrebbe di vaste reti globali di agenti, informatori e infiltrati sparsi in tutti i paesi caldi (Pakistan, Iran, Egitto, Somalia, America Latina ed Est Europa), e ora soprattutto in Medio Oriente: meno esplicitamente, nel 2011, alcuni esponenti della stessa Jellyfish avevano fatto intendere di avere “risorse umane inserite nei gruppi di opposizione” protagonisti delle primavere arabe, ossia di forze “rivoluzionarie” interne da utilizzare in futuro come tramite fra i nuovi governanti e le compagnie d’affari e le imprese occidentali.
A forza di delegare attività di questo tipo, tradizionalmente svolte da istituzioni statali, le compagnie private stanno così acquisendo informazioni, contatti, strumenti ed esperienza tali da poter operare per proprio conto. Sovente queste società offrono anche servizi di know-how informatico, con un inevitabile ritorno di dati e di informazioni riservate, sia di privati che governative di Paesi stranieri che adottano i loro servizi.
L’ INSCOM, inoltre, rappresenta il più importante contractor della NSA per l’attività SIGINT (ossia l’ intelligence da intercettazione), sebbene questa agenzia abbia ormai in gran parte esternalizzato il servizio proprio con società private, gestendo al riguardo circa 70miliardi di dollari annui. La stretta connessione e la proficua collaborazione continua per la SIGINT tra NSA-INSCOM-società private (anche solo per gli ex-generali ora parte del top management di queste ultime) hanno fatto sì che lo stesso INSCOM sia diventato vettore di business significativo per l’industria del comparto intelligence nel suo insieme. Difficile, quindi, cercare di scindere competenze e ambiti strettamente “militari” da quelli esclusivamente “privati”.
Alcuni osservatori e analisti hanno, quindi, evidenziato la vulnerabilità di una procedura che vede il più alto livello di intelligence militare statunitense, ossia l’INSCOM, permettere con security clearance (per i non addetti, è il nulla osta sicurezza al trattamento di informazioni classificate segrete o riservate) l’accesso ai propri dati anche a società private (come la Bae System, ad esempio), sebbene dopo l’affare Snowden siano stati presi provvedimenti di allerta verso rischi di fughe di notizie. E le cifre ufficiali riferite alle security clearance sono decisamente importanti, visto che nel 2012, il 22% del personale NSA che ne usufruiva era composto da privati: la sola Booz Allen afferma che due terzi dei suoi 25mila dipendenti globali dispongono di security clearance, con un quarto di costoro addirittura con top security clearance.
I rischi di ulteriori “casi Snowden” che ne possono derivare sono, quindi, evidenti e difficilmente prevedibili o contenibili; tuttavia, proprio il largo uso che ne viene ormai fatto di queste società e la capillarità dei loro organismi interni hanno portato a una dipendenza delle strutture governative statunitensi tanto che non è più immaginabile elaborare un piano di intelligence senza coinvolgere in modo massiccio le imprese private.
La vulnerabilità sarebbe oltremodo accentuata dal fatto che all’INSCOM, così come previsto dal nuovo contratto con la NSA, spettano ruoli centrali di raccolta informazioni attraverso l’ISR - ossia intelligence, sorveglianza e ricognizione - fornite da piloti, droni, forze speciali e consiglieri militari operativi sul campo (ora, nello specifico contro le forze ISIS), a cui lo stesso INSCOM fornisce strutture e supporto logistico. Tali informazioni vengono poi analizzate da elementi dell’INSCOM distaccati nei due principali centri operativi della NSA, ossia Fort Gordon in Georgia e Fort Bragg nel North Carolina, a cui si sommano quelle provenienti dalle centrali di ascolto sparse nel resto del mondo, dal Texas, Hawaii, Colorado, Germania sino alla Corea del Sud.
In pratica, la mescolanza di personale, ruoli e ambiti operativi fra entità strategiche per l’ intelligence e società private della vasta galassia di servizi e dell’industria della difesa sta accrescendo preoccupazioni circa la sicurezza, gli effetti indesiderati (Snowden), ma soprattutto il rischio di compromissione dell’ attività operativa in scenari complessi come quello del Vicino Oriente.
Le stesse ammissioni del Presidente Obama circa i fallimenti dell’ intelligence e la relativa sottovalutazione del rischio ISIS debbono essere lette, secondo alcuni critici, attraverso questa griglia di valutazioni negative circa un sistema ormai consuetudinario di collaborazione fra pubblico e privato. In definitiva, l’eccessiva fiducia data a un sistema privato di raccolta e la relativa interpretazione delle informazioni avrebbero compromesso la comprensione di quanto stava accadendo in Iraq e in Siria.
In parte ciò è vero, anche se difficilmente documentabile, per via del contesto operativo complesso e della natura del servizio stesso.
Altri urgenti interrogativi vengono poi posti dall’altra tendenza che si sta delineando, ossia quella di delegare anche parte dell’azione militare vera e propria, a forze militari private.
Ciò avviene perché le agenzie PMC forniscono servizi che sembrano rispondere meglio alle esigenze poste dalle nuove minacce e dai sempre più numerosi conflitti asimmetrici; e tutto ciò, secondo molti esperti tattici, meglio e più spesso di quanto siano in grado di fare le forze armate regolari. Tuttavia, vi sono implicazioni proprie di processi di legittimità politica e degli stessi risultati sul lungo periodo che non possono essere trascurate.
Già nel corso della lunga guerra in Iraq, le forze tradizionali statunitensi erano state affiancate da privati, non solo per la sicurezza ma anche per l’addestramento militare e gli interrogatori dei prigionieri. Già allora erano emersi problemi di convivenza fra questi due mondi, dovuti – a detta degli interessati – ad una carenza nell’addestramento congiunto, con personale militare statunitense ignaro di come e per quanto utilizzare queste forze private messe a disposizione dal Pentagono senza protocolli e linee guida chiare e definite per l’ingaggio o per la catena di comando. Si è finito così per utilizzarle ad hoc, per necessità immediate, senza considerare le implicazioni negative non solo per l’ immagine stessa delle forze militari americane in loco, ma anche per la politica regionale e internazionale degli stessi Stati Uniti.
Il dibattito, al momento, vede contrapporsi all’interno della Difesa statunitense chi appoggia e chi invece è decisamente contrario al ricorso a forze militari private, sebbene riconosca i benefici di non coinvolgere personale militare tradizionale in azioni di combattimento rapido, in particolare in condizioni di emergenza, come quelle create ora dall’ISIS. Insomma, potrebbe ovviare a quel no boot on the ground che è la strategia dell’amministrazione Obama.
In pratica, quindi, si tratterebbe di forze speciali private utilizzabili all’occorrenza. I benefici non sarebbero, comunque, solo ed esclusivamente di carattere economico, sebbene queste forze private sarebbero utilizzate per “servizi” temporanei, non obbligando, quindi, a mantenere a lungo inutilizzate costose strutture militari. Secondo i fautori della privatizzazione delle forze speciali e di intervento rapido, i vantaggi si tradurrebbero anche in termini di efficienza operativa, mentre gli oppositori sostengono che un uso errato dei commando privati potrebbe finire per compromettere non solo la reputazione dell’intera struttura militare statunitense, ma anche la sua efficienza, dato che verrebbero sottratti ulteriormente finanziamenti già decurtati per via dei tagli ai bilancio.
Ciò comprometterebbe, inoltre, anche l’efficienza delle forze armate in tempo di pace, ossia per il loro utilizzo in emergenze umanitarie. Infatti, il dibattito ora fra gli alti comandi e gli strateghi militari statunitensi ruota attorno alle differenti priorità poste dal peacetime, ossia a ciò che significa garantire beni materiali (come ora con l’urgenza Ebola in Africa, e quindi cibo, medicinali, ordine pubblico etc.), rispetto alle priorità poste in wartime, appunto, ossia garantire servizi di supporto ad operazioni in un contesto ad alto rischio bellico come quello creato dall’ISIS.
Ciò che viene, inoltre, evidenziato maggiormente è relativo alla difficoltà a far accettare, all’interno delle stesse forze armate tradizionali, una cultura di contracting che permetta di modificare continuamente i protocolli di collaborazione fra DoD e PMSC (dall’addestramento congiunto, alla catena di comando, al riconoscimento dell’immunità anche per i privati etc.), al momento non ancora sufficienti, nonostante vi sia la presa di coscienza della incontrovertibilità di questo processo di privatizzazione dell’ intelligence, ma soprattutto della guerra combattuta realmente. A dimostrazione di ciò, vi sono infatti relazioni interne al DoD che lamentano la poca professionalità nel tracciare l’efficacia e l’efficienza dei contractor, con tutto ciò che comporta in termini di eventuali frodi, fughe di notizie, incompetenza e addirittura fallimenti operativi.
Stanno, quindi, cambiando i soggetti e gli ambiti delle nuove guerre, per lo più quelle asimmetriche: ma mentre i nuovi protagonisti, quelli non tradizionali, non statali, ossia forze combattenti come l’ISIS e il suo mix di guerriglieri, terroristi e soldati, sembrano imporre rapidamente nuove regole e tattiche operative, la controparte antagonista, regolare e più tradizionale sembra arrancare. Il risultato è quello di non riuscire, quindi, ad adattarsi a quei mutamenti veloci e alle nuove tattiche operative, anch’esse frutto di mescolanza di dottrine, messe in atto da questi nuovi soggetti che, lo dobbiamo evidenziare, possono rappresentare un modello da emulare – sebbene in contesti con soggetti e valenze geopolitiche diverse - in molte altre parti del mondo, ad iniziare, come lo è già ora, per il Nord Africa, l’Asia centrale e quella meridionale.
Non è, quindi, detto che ciò che sta avvenendo nel Vicino Oriente (e con questo termine si abbraccia l’intera vasta aerea dal Mediterraneo alle acque del Golfo Persico sino al Golfo di Aden) sia frutto soltanto di estrema complessità geostrategica di un caos in divenire, aggravato da carenze diplomatiche e pericolose titubanze decisionali da parte degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, quanto anche di una trasformazione di una cultura militare che sta evolvendo, influenzata da fattori presi a prestito dall’economia, come i tagli di bilancio e la privatizzazione di servizi, a cui non si è ancora riusciti a dare un quadro giuridico di riferimento.
Di tutto ciò, comunque, non si è ancora totalmente compresa la portata, nonostante si possa affermare con assoluta certezza che è in atto una nuova, ennesima revolution in military affairs: urge prenderne coscienza, per ovviare ai suoi limiti e non comprometterne così l’efficacia, come d’altronde ha già ampiamente dimostrato, con i più recenti fallimenti militari, l’ultima Rma con la sua eccessiva, esclusiva e addirittura ottusa fiducia nella componente tecnologica a scapito del fattore umano.
15/10/2014
Germana Tappero Merlo©Copyright 2014 Global Trends & Security. All rights reserved.