La notizia è passata inosservata. Concentrati su quanto sta accadendo in Libia, non è stato dato il giusto spazio a quanto sta avvenendo sia nel Golfo Persico ma anche in un altro fronte, da tempo molto più caldo, quello afgano-pachistano. Si è trattato sicuramente di una questione di priorità “geografica”; tuttavia, i violenti disordini che sono esplosi dapprima a Lahore e poi in altre città pachistane alla notizia del rilascio dell’agente della Cia e contractor Raymond Allen Davis, accusato di duplice omicidio, aprono squarci inquietanti ma chiarificatori della guerra al terrore che si sta combattendo in Asia centrale.
Agenzie di contractors privati, utilizzo di droni per omicidi mirati contro terroristi nella regione pachistana, tribale e molto conservatrice del Waziristan, a ridosso del confine con l’Afghanistan, rapporti turbolenti fra Stati Uniti e Pakistan, a cui fanno da sfondo omissioni, guerre segrete e malcontento popolare, sono solo una parte di quanto emerge da quell’area e di cui l’affare Davis sembra aver dato, in parte, visibilità.
Il fatto risale al 27 gennaio 2011. In pratica, Davis, fermo a un semaforo nella trafficatissima Lahore, viene bloccato da due giovani in moto. Davis estrae la pistola e li uccide, giustificandosi che temeva si trattasse di una rapina. Avrebbe agito, quindi, per legittima difesa.
Viene subito invocata dagli Stati Uniti la Convenzione di Vienna per l’immunità diplomatica, dato che Davis risulta far parte dello ”staff tecnico ed amministrativo” del locale consolato statunitense. Il governo pachistano prende tempo – fino al 14 marzo – per decidere, temendo un aumento dei disordini di piazza che, di fatto, esplodono cruenti proprio di fronte all’ambasciata americana all’indomani della notizia del suicidio della giovane moglie di uno degli uomini uccisi da Davis.
Agli inquirenti pachistani, infatti, paiono subito incoerenti le affermazioni rilasciate e la descrizione dei fatti, poi accertati e ampiamente documentati. La notevole quantità di colpi sparati (anche da un’auto del consolato accorsa in aiuto al proprio dipendente), numerose pallottole, caricatori e make up militare trovati nell’auto di Davis, ma soprattutto le immagini nella memory card della sua fotocamera non lasciano spazio ad alcun dubbio: strade di confine con India, madrasse e moschee, campi di addestramento militare, riprese del Forte Balahisar (quartier generale dei Corpi di frontiera a Peshawar), ponti e quant’altro possa interessare a chi fa spionaggio militare.
Secondo gli inquirenti, quindi, Davis non è il diplomatico che afferma di essere ma, soprattutto, come lo ha prontamente ed ufficialmente riconosciuto l’ambasciata statunitense a Islamabad e la conseguente assicurazione del presidente Obama giunta alle autorità del luogo.
Il governo di Islamabad offre, quindi, uno scambio di “prigionieri”, ossia Davis contro una donna pachistana accusata di omicidio di un americano in Afghanistan. Fin qui, per quanto complessa e dolorosa la questione potrebbe anche chiudersi con uno scambio alla pari. Tuttavia, troppi aspetti della questione Davis stanno emergendo a complicare la scena di quel che sembrava solo un crimine ordinario, in particolare i delicati e complessi legami fra i protagonisti della vicenda.
Anche i due assalitori, infatti, non erano solo delinquenti comuni come affermato dalle autorità pachistane: sarebbero stati, infatti, collaboratori esterni dell’Isi, ossia dell’agenzia di sicurezza pachistana, incaricati di pedinare Davis perché scoperto a indagare proprio sull’Isi. Quest’ultima nega; ma il fatto che dai cellulari dei due assalitori emerga che lo stavano pedinando da un po’ di tempo, fa perdere l’attendibilità del movente della “rapina”.
La vera identità di Davis viene, tuttavia, resa pubblica dal Guardian solo un mese dopo l’incidente di Lahore. Sebbene non sia chiaro quando fu assunto dalla Cia, Davis è un privato, titolare di una società, la Hyperion Protective Services LLC, che ha sede in Arizona, e che offre servizi di sicurezza (High risk threat protection, come si legge nella descrizione del suo sito prima che venisse chiuso), e avrebbe lavorato anche con la Xe Services (ex Blackwater), ossia la società di contractors divenuta famosa soprattutto nella guerra in Iraq ma in azione ancora in numerosi scenari bellici.
Anche in questo caso, non vi sarebbe nulla di nuovo e significativo, almeno per noi occidentali, in parte perché distanti da quei fatti, ma soprattutto perché ignoranti delle più complesse vicende legate a quel tipo di soggetti e alle molteplici implicazioni politiche e militari che comportano.
Il rilascio di Raymond Davis – dietro il versamento, da parte degli Stati Uniti che però smentiscono, di un diyat, o “prezzo di sangue”, pattuito con le famiglie delle vittime, di 2.34 milioni di dollari e il conseguente “perdono” da parte del tribunale locale, secondo la sharia - ha, infatti, innescato nuove e violente proteste in Pakistan, di cui l’insofferenza da parte dei pachistani circa la presenza di numerosi contractors per covert actions è solo l’aspetto più evidente: secondo i manifestanti, l’immunità di cui sembrano godere costoro calpesta la sovranità del loro Paese e, di conseguenza, la loro dignità ma, soprattutto, va ad adombrare ulteriormente uno scenario in cui la guerra al terrorismo voluta dagli Stati Uniti contro al Qaida, e attuata principalmente con il sorvolo di droni, o aerei senza pilota, e con attacchi con missili Hellfire in Waziristan , in realtà sembra risolversi in un incessante massacro di civili, con una gestione e risultati conseguiti decisamente controversi.
Proprio all’indomani della cattura di Davis, a fine gennaio 2011, il presidente Obama, infatti, aveva ordinato una sospensione delle operazioni dei droni su quella regione, considerata santuario di cellule di al Qaida, responsabili dell’aumentata criticità della guerra in Afganistan. Una decisione non così eccezionale dato che si trattava del quinto blocco attuato da quell’ amministrazione statunitense, già responsabile, dal suo insediamento, di 180 attacchi – contro i 45 degli otto anni di G.W.Bush - con più di 2000 morti fra i civili e discutibili risultati sul piano della guerra al terrorismo.
Al rilascio di Davis, il 17 marzo, sono ricominciati gli attacchi con i droni nell’area di Datta Khel, nel nord del Waziristan: ancora una volta, in quello che è stato il più efferato di questi attacchi dal 2006, vi sono stati morti fra i civili (41, secondo altre fonti addirittura 80, presenti a una jirga tribale) a cui è seguita la richiesta da parte di Islamabad di porre fine a questo massacro.
Gli Stati Uniti non hanno “rivendicato” tale attacco; tuttavia, secondo alcuni analisti, solo le forze statunitensi hanno la capacità di attuare questo tipo di incursione in quella regione. Sebbene le autorità pachistane abbiano negato di supportare segretamente l’offensiva dei droni statunitensi, la popolazione ha iniziato a protestare violentemente, manifestando pericolosi sentimenti antiamericani, tanto da indurre il proprio governo a minacciare di rinunciare a mantenere rapporti diplomatici con gli Stati Uniti con cui era stato programmato un incontro, con esponenti anche afghani, a Brussels, il 26 marzo, proprio per concordare una nuova strategia antiterrorismo.
Tuttavia, non si tratta solo di dimostrare buona volontà politica e cambiare tattica operativa. Le implicazioni sono ben più complesse e non sempre limpide, come ci si aspetterebbe dalla gestione della guerra al terrorismo da parte degli Stati Uniti, baluardo di democrazia e salvaguardia dei diritti umani.
Infatti, alla base delle proteste popolari a Lahore e in molte altre città pachistane, vi è proprio il rifiuto della violazione delle “norme umanitarie e dei diritti umani” da parte di Washington: insomma, una nota stonata nel coro delle buone intenzioni americane nei giorni della critica decisione di istituire una no-fly zone sulla Libia a difesa, come scritto nella risoluzione 1973 dell’Onu, proprio dei diritti dei cittadini libici, brutalmente violati da parte di Gheddafi.
La guerra attraverso i droni rappresenta, infatti, uno degli aspetti più cupi della lotta al terrorismo; il loro utilizzo va oltre il sorvolo e la ricognizione di quell’area del Waziristan. Gli Stati Uniti starebbero, infatti, conducendo un programma di “omicidi mirati” di cui, secondo alcuni osservatori, ne sarebbero stati scarsamente informati Obama, il Dipartimento di Stato e persino alti comandi militari. Tutto avrebbe avuto inizio nel 2007, attraverso un mix di collaborazioni fra Joint Special Operations Command – ossia l’unità speciale antiterrorismo dell’esercito americano -, la Cia e l’allora Blackwaters e i suoi contractors, incaricati della manutenzione e del volo dei droni.
Inoltre, secondo alcuni osservatori liberal statunitensi, la decisione di adottare questa strategia non avrebbe avuto una adeguata discussione pubblica e le autorità politiche statunitensi non avrebbero mai avviato indagini sulla loro legalità ed efficacia in termini di lotta al terrorismo.
Proprio nella lotta globale al terrorismo del dopo 11 settembre, alcuni alti esponenti militari statunitensi avrebbero deciso, infatti, di utilizzare i droni per quella che l’ex generale dell’aeronautica inglese, Brian Burridge, ha definito come “una guerra senza virtù”, che non richiede né coraggio né eroismo ma solo una buona dotazione di questi aerei senza pilota, i Predator, una strategica scorta di missili Hellfire e un buon centro di controllo delle operazioni, con personale altamente qualificato ma soprattutto ben lontano e al sicuro dai campi di battaglia.
Tutto ciò, infatti, appaga la più moderna logica militare statunitense, tanto seducente quanto pericolosa, di poter combattere una guerra “a costo zero”, intesa senza “danni collaterali” o vittime che dir si voglia, soprattutto fra i militari americani. Inoltre, rappresenta un buon risparmio dato che un Predator costa dai 4,5 milioni di dollari (l’MQ-1 Predator, il più diffuso) sino ai 15 milioni (MQ-9 Reaper), mentre un solo F-22 Raptor arriva a costare 350 milioni di dollari.
Dai 50 in dotazione nel 2001, gli Stati Uniti posseggono ora 200 droni. Si tratta di un investimento economico formidabile, a cui contribuisce anche l’innovazione tecnologica, tanto da parlare già di “nanodroni”, ossia una nuova generazione di velivoli così piccoli da colpire bersagli anche più nascosti, anche se, al momento, l’uso che viene previsto è quello della ricognizione e dello spionaggio.
L’amministrazione Obama ha inoltre deciso, proprio in questi giorni, di impiegare droni disarmati nel sorvolo del Messico nella lotta al narcotraffico, in operazioni di semplice intelligence, in accordo, tuttavia, con le autorità messicane.
Un impiego civile e pacifico, di semplice ricognizione, come è accaduto per il drone statunitense che ha sorvolato la centrale di Fukushima per accertarne i danni nei giorni immediatamente seguenti lo tsunami in Giappone. Ciò è avvenuto sebbene tale ricognizione non abbia riscontrato il parere positivo di autorità e opinione pubblica giapponesi; si trattava pur sempre di un male minore rispetto alla tragedia di quei giorni. Tuttavia è stato significativo dell’ampio uso di questi velivoli, non sempre rispettosi della sovranità nazionale dei soggetti “violati” e delle norme internazionali che regolano il sorvolo di territori stranieri.
Un impiego civile e pacifico, di semplice ricognizione, come è accaduto per il drone statunitense che ha sorvolato la centrale di Fukushima per accertarne i danni nei giorni immediatamente seguenti lo tsunami in Giappone. Ciò è avvenuto sebbene tale ricognizione non abbia riscontrato il parere positivo di autorità e opinione pubblica giapponesi; si trattava pur sempre di un male minore rispetto alla tragedia di quei giorni. Tuttavia è stato significativo dell’ampio uso di questi velivoli, non sempre rispettosi della sovranità nazionale dei soggetti “violati” e delle norme internazionali che regolano il sorvolo di territori stranieri.
Ciò che ha garantito, infatti, sino ad ora agli Stati Uniti di condurre la guerra con i droni armati in Waziristan, nel rispetto del diritto internazionale, è dato dal fatto che Washington dichiara apertamente di essere parte di questa lotta armata, che l’uso di questa forza è imposta da “una necessità militare” di ricorrere agli “omicidi mirati” non essendoci alternativa possibile come la cattura dei terroristi a cui si sta dando la caccia, di aver informato il Paese in cui ha luogo l’operazione e, di conseguenza, di esserne stati autorizzati. Infatti, molti obiettivi colpiti sono scelti in accordo con i pachistani e vi sono limiti imposti da una lista gerarchica di priorità e condizioni che deve essere considerata, in cui spicca logicamente il rispetto di obiettivi civili.
Questo, almeno, è quanto affermato ufficialmente. Tuttavia, già con l’amministrazione di G.W. Bush le cose hanno preso una piega del tutto differente. Trattandosi, fin dall’inizio, di operazioni di ricognizione e di acquisizione di dati (ossia normale spionaggio militare), per gestire questo tipo di operazioni venne incaricata la Cia. Ma fu proprio Bush a decidere di non notificare alle autorità pachistane quando sarebbero avvenuti gli attacchi. La conseguenza più immediata fu una netta riduzione dei tempi d’azione, dall’individuazione di un obiettivo al suo attacco: dalle parecchie ore della trafila ufficiale a poco più di 45 minuti.
E a quanto pare qui sta il nocciolo della questione. A differenza degli omicidi mirati condotti dalle forze israeliane contro terroristi nei Territori palestinesi, estrema ratio a una vera minaccia alla sicurezza nazionale, dato che è più utile catturarli e riceverne informazioni che trasformarli in martiri, sembra che la situazione sia sfuggita di mano ai responsabili statunitensi delle operazioni Predator. E quando ciò accade, secondo gli esperti israeliani – fra i più importanti produttori di droni al mondo - si perde “la superiorità morale”, si danneggia l’immagine del Paese – in questo caso, gli Stati Uniti – e si finisce per esserne sopraffatti. Tanto più che la gestione di queste operazioni statunitensi sarebbe in mano proprio ad agenzie private. La Cia, quindi, opererebbe attacchi con droni in Waziristan con l’apporto di agenzie private di cui la Xe Service è la più utilizzata.
Al di là delle preoccupanti implicazioni di una gestione “privata” di un settore così delicato come quello dell’intelligence di una nazione, soprattutto se si tratta di una superpotenza come gli Stati Uniti, l’affare Davis ha, inoltre, fatto conoscere una vicenda dagli aspetti non ancora del tutto chiariti: sulla base dell’analisi dei tabulati del cellulare di Davis, costui sarebbe stato, infatti, in contatto con il gruppo Lashkar-e-Jhangvi, un gruppo terroristico wahabita vicino ai talebani attivi in Waziristan, responsabile di molte azioni terroristiche fra cui, stando alle affermazioni delle autorità di Islamabad, l’omicidio del premier Benazir Bhutto, nel 2007, e attacchi armati contro chiese protestanti presenti in Pakistan.
La conseguenza più immediata di questo coinvolgimento di un agente americano con i principali nemici di Islamabad è stata un’ulteriore frattura nei rapporti fra Cia e Isi, già incrinati dopo l’accusa americana all’agenzia pachistana di aver provocato gli attacchi terroristici a Mumbai, in India, nel 2008. All’ufficiale unione di intenti nel condurre la lotta al terrorismo talebano non corrisponde, di fatto, una congiunta e condivisa tattica operativa, dato che i risultati portano ad effetti pericolosi per la sicurezza di quel Paese e di quella regione in generale.
Il numero elevato di vittime civili causato dalla guerra dei droni e gli scarsi risultati rispetto al contenimento della minaccia terroristica hanno, quindi, offuscato sia i rapporti, politici e di intelligence, tra Stati Uniti e Pakistan, ma soprattutto fra il governo centrale pachistano e ampi strati della sua popolazione. Lo stesso aumento vertiginoso di attacchi terroristici avvenuti in Pakistan lo scorso anno sarebbero stati giustificati proprio come “azioni di rappresaglia” per l’attività dei droni statunitensi.
In pratica, gli attacchi con i droni avrebbero di fatto indotto i terroristi a spostare le loro basi più all’interno del Pakistan e a cambiare la loro tattica operativa: non solo più azioni oltre il confine, ossia in Afganistan, ma anche contro obiettivi pachistani, con il risultato di destabilizzare ulteriormente una nazione e un governo già fortemente scossi.
Le implicazioni, in questo preciso momento storico di “risveglio” popolare dal Nord Africa e Golfo Persico, dell’intero affare Davis-Cia-droni e omicidi di civili, sulla stabilità del già fragile Pakistan e dell’intera area circostante sono, quindi, evidenti ed inquietanti.
Così come debbono indurre a più gravi preoccupazioni gli stretti legami fra agenzie nazionali di intelligence e società private, a cui verrebbe delegata anche la raccolta delle informazioni: si tratta di una perversa concezione della gestione della sicurezza di un Paese che sembra prevalere da una decina d’anni proprio negli Stati Uniti e a cui non sembra essersi sottratta la presidenza Obama. Ciò a dimostrazione di come l’economia abbia preso il sopravvento sulla politica e non solo nei soliti e tradizionali settori amministrativi per cui se prevalgono interessi privati su quelli pubblici al massimo si corre il rischio di una perdita di consenso e il tutto si può risolvere in una mancata rielezione al Congresso o alla Casa Bianca.
Quando si tratta di sicurezza la posta in gioco è decisamente più rilevante. L’incolumità di una nazione non deve assolutamente essere delegata a interessi privati e meno che mai deve essere trattata alla pari di una merce, prodotta, distribuita e commercializzata sul mercato. Il rischio, infatti, è che prevalga la logica del profitto, ossia che la gestione della sicurezza nazionale venga venduta al miglior offerente, senza preoccuparsi di quanto costui sia in grado di amministrarla e mantenerla e si astenga dal rischioso diritto, come proprietario, di deciderne le sorti future.
Solo un’esasperazione di concetti come guadagno, profitto, interessi e mercato, proprie della cultura liberista portata ai suoi estremi, come già hanno evidenziato le vicende economiche e finanziarie della grave crisi del 2008, poteva portare alla perversa e scellerata politica di privatizzazione della guerra e, fatto ancora più imperdonabile, della sicurezza del proprio paese. Tanto varrebbe delegarla a organizzazioni “mafiose”, formidabili a fare affari quanto a difenderli con efferate azioni criminali, avvezzi ad agire senza il consenso pubblico.
L’affare Davis è solo la punta di un iceberg, sommerso nella sua parte più estesa e pericolosa e che raccoglie gli aspetti più depravati e menzogneri della gestione della politica militare del nuovo millennio, in cui l’inganno gioca un ruolo strategico al pari delle armi impiegate sul campo. Sarebbe soddisfatto il cinese Sun Tzu che nella sua Arte delle guerra poneva l’inganno al centro di tutta la sua impostazione strategica per suggerire ai massimi vertici militari le tattiche appropriate per vincere la guerra.
Tuttavia, è necessario fare una distinzione cruciale: Sun Tzu si rivolgeva ad un interlocutore che era un sovrano indotto alla guerra per il bene del suo popolo, a difesa di interessi pubblici e della nazione in generale, e meno che mai avrebbe delegato tutto ciò a forze private che non avessero dimostrato innanzitutto profondo rispetto per la sua autorità e per quella del suo popolo. Allora, il consenso popolare aveva ancora un peso nelle decisioni politiche e militari ed era solido fondamento del governo del sovrano. Quanto di tutto ciò conta ancora nell’inganno di cui abbondano i campi di battaglia odierni?
21/3/2011
Foto Lance Cheung US Air Force
21/3/2011
Foto Lance Cheung US Air Force