La chiamano “la guerra dei joystick” quella che, silenziosamente, sta rivoluzionando dottrine e tattiche militari con implicazioni politiche e diplomatiche di portata eccezionale. Si tratta dell’impiego massiccio degli UAV (Unmanned Aerial Vehicles) o, più comunemente, dei droni per operazioni di intelligence, con il sorvolo e la ricognizione di territori sospetti ma anche per azioni di vera e propria guerra, come l’attacco di obiettivi precisi o, più comunemente, omicidi mirati.
L’ultimo caso, più famoso, del loro recente ampio uso è stato l’omicidio, il 30 settembre 2011, in Yemen, di Anwar al-Alaki, considerato uno dei successori di Osama bin Laden e ricercato dalla Cia soprattutto per la sua fervente attività di reclutatore via internet di militanti jihadisti, da Nidal Malik Hasan, il militare statunitense responsabile del massacro a Fort Hood, a Faisal Shahzad, che aveva tentato di far saltare un’autobomba a Times Square. Due missili, partiti da un drone comandato direttamente dal territorio statunitense da personale della Cia, ha neutralizzato, a migliaia di chilometri di distanza da quelle postazioni operative, uno fra i più attivi, pericolosi e ricercati esponenti di quella minaccia terroristica comunemente riconducibile ad al Qaeda.
Insomma, un personaggio temibile a cui si dava la caccia da tempo nella logica della guerra al terrorismo iniziata nel 2001 e che, da alcuni anni, utilizza ampiamente i droni per la sua attività di intelligence, ma soprattutto di contrasto sul territorio.
Alla Defence & Security Equipment International Exhibition 2011(DSEi) di metà settembre, a Londra, i droni sono stati fra i protagonisti assoluti del mercato della difesa, confermando la tendenza, iniziata già con i conflitti nei Balcani, verso questo nuovo modo di condurre le guerre.
Questi velivoli telecomandati a distanza apparvero proprio nelle guerre nell’ex Yugoslavia nel corso degli anni ’90, quando il Pentagono istituì una task force apposita, denominata Predator 911, a cui è seguito, in quest’ultimo decennio un aumento vertiginoso: nel 2000 gli Stati Uniti possedevano 200 droni; nel 2010 erano già 6000 e per il prossimo anno è prevista una dotazione, per il solo Pentagono, di 8000 esemplari. Nel primo semetre del 2011, l’US Air Force ha,infatti, addestrato 350 piloti al comando remoto dei droni. “E’ un grande mercato” ha dichiarato Ashton B. Carter, il principale acquirente per il Pentagono.
Secondo un’indagine del Los Angeles Times di fine 2010, la sola produzione statunitense di droni era di 3 miliardi di dollari annui, con una stima di 6 miliardi entro il 2018. Ad inizio 2011, uno studio del Teal Group, stimava un giro d’affari mondiale, per i prossimi dieci anni, di 94 miliardi di dollari per droni e quanto ad essi collegati come l’ e-warfare. Tutto ciò avverrebbe nonostante i tagli alla difesa o proprio in virtù di questi, dati i costi piuttosto contenuti di questi mezzi (attorno agli 11 milioni di dollari ciascuno) rispetto ai mezzi più tradizionali, come gli F-22 (150 milioni di dollari ognuno). Non è, comunque, solo di un grande giro d’affari statunitense: anche in Europa – stando ai dati della DSEi - aziende inglesi, francesi e italiane vi partecipano attivamente, con un giro d’affari annuo di circa 2 miliardi di sterline.
Ma non si tratta soltanto di considerazioni economiche.
Con i droni – di dimensioni, capacità e armamento diversi – si sta, infatti, ovviando, da qualche tempo, a quello che è sempre stato considerato un limite “politico” per l’impiego delle forze armate in scenari di guerra al di fuori del proprio territorio nazionale, ossia il rischio di perdite di vite umane, tanto che stanno aumentando in modo vertiginoso anche le commesse per i più svariati unmanned vehicles, ossia mezzi telecomandati per ogni ambiente operativo, da quelli aerei, terrestri, marittimi sino a quelli sottomarini.
E’ convinzione, infatti, che i droni, permettano di essere presenti in scenari di guerra, con poche o minime ripercussioni politiche: non si è presenti fisicamente con basi, uomini e mezzi, ma si è comunque pronti ed attivi operativamente. Inoltre, non reclamano vite di soldati americani, non coinvolgono tribunali di guerra o corti internazionali di giustizia e, quindi, tengono fuori i mass media e soprattutto il dibattito pubblico.Si aggirano così i limiti imposti alle forze armate statunitensi per le operazioni belliche con la War Power Resolutions del 1973. Ed è quanto è accaduto con l’apporto degli Stati Uniti nel conflitto in Libia. E non è quindi un caso che la guerra con i droni metta d’accordo proprio tutti, democratici e repubblicani.
Per la prima volta nella storia militare, il drone, come arma, fa ben adattare urgenza bellica con opportunismo politico, trovando un unanime consenso e mettendo, quindi, tutti d’accordo.
Per questo motivo, dai veterani Pentagono e Tsahal israeliano, passando dai produttori inglesi e francesi, verso la Russia e sino ad un primo, cauto e blindatissimo esperimento cinese (WJ-600, è quello conosciuto, ma ogni grande industria militare cinese possiede al suo interno un settore di ricerca esclusivo per i droni), l’eterogeneo universo delle difese nazionali sta marciando compatto verso una massiccia dotazione di droni. Le nazioni che ne dispongono, attualmente, sono circa una quarantina.
Che poi l’obiettivo finale sia la difesa del proprio territorio o, al contrario, guerre offensive al di fuori dei propri spazi nazionali o, ancora, la fabbricazione di cloni perfetti dei più famosi droni statunitensi, come il Predator e i Global Hawk, dipende da complesse considerazioni geopolitiche come pure da evidenti opportunità per nuovi affari. Quel che è certo, è che per il futuro sarà necessario abituarsi all’idea di avere costantemente sulla nostra testa questi velivoli, peraltro utilizzabili anche a fini pacifici, come per il monitoraggio dell’ambiente o per la protezione civile, in caso di calamità naturali, come alluvioni e terremoti, o per il controllo dei mari nelle operazioni di polizia, per il contrasto alla pesca di frodo o all’immigrazione clandestina. E’ il caso dell’ultimo prodotto Alenia Sky-Y, o del Falco della Selex Galileo, a ulteriore dimostrazione dell’impiego della più avanzata tecnologia militare per usi e fini non bellici.
Sta di fatto, quindi, che una guerra con minori perdite umane fra i soldati, minori costi e minori implicazioni morali rispetto a qualsiasi altro intervento armato, dall’invio della Marina o a quei “boots on the ground” che hanno dimostrato tutta la loro fallacità in Iraq, è politicamente più spendibile, soprattutto di fronte ad un’opinione pubblica stremata da anni di guerre che sembrano infinite e inconcludenti.
Si tratta, tuttavia, di un punto di vista molto di parte: in Pakistan, infatti, le vittime fra i civili – 1000 solo lo scorso anno, a fronte di 1900 jihadisti uccisi dai droni dal 2006 - colpite per errore di identificazione o perché nelle vicinanze dell’obiettivo scelto di questa guerra condotta con i droni, e conosciuta come Sylvan Magnolia Operation, sono state così numerose negli ultimi due anni da innalzare il livello di antiamericanismo nell’opinione pubblica pakistana, al punto da incrinare i già delicati rapporti fra Washington e Islamabad, con conseguenze deleterie dal punto di vista di collaborazione politica, economica, ma soprattutto militare.
Vittime fra i civili per l’azione dei droni vi sarebbero state anche in Libia, Somalia e Yemen, ossia nei più recenti teatri di guerra in cui si stanno ampiamente utilizzando questi velivoli.
A queste vittime civili – peraltro fermamente negate da J.O. Brennam, massimo consulente di Obama per l’antiterrorismo, alimentando lo scetticismo presso gli osservatori internazionali, sull’affidabilità di alcuni consiglieri di quell’amministrazione - vanno ad aggiungersi considerazioni di natura operativa e diplomatica, ossia il fatto che queste azioni militari dei droni statunitensi non avrebbero il consenso dei governi centrali: in Pakistan incontrerebbero il solo benestare di alcuni elementi dell’Isi, ossia dei servizi segreti di quel Paese, considerati a tutti gli effetti – e contro qualsiasi logica democratica – “uno Stato dentro lo Stato” pachistano.
Ad aggravare i toni della questione, ci sarebbe anche una devianza del sistema statunitense nella gestione della guerra dei droni, ossia il fatto che queste operazioni non sarebbero gestite direttamente ed esclusivamente dal Pentagono, quanto dalla Cia e dalla sua Special Activities Division, come già deciso da G. W. Bush nel corso del suo secondo mandato e artefice del programma Sylvan Magnolia.
All’azione di intelligence per la ricerca delle cellule e degli esponenti di al Qaeda, propria dell’agenzia di informazione statunitense, vengono quindi affiancate sia l’operazione di contrasto con attacchi mirati attraverso i droni, sia i più segreti e rapidi raids delle SOF dell’US Special Operations Command, tanto da far parlare di “militarizzazione della Cia”. Si tratterebbe, infatti, del nuovo corso intrapreso dall’agenzia statunitense con la nomina del gen. D.H. Petraeus, in cui la Cia sembra essersi sostituita alle forze militari nell’agire direttamente sul territorio, mentre il Pentagono, con Leon Panetta, ex capo della più famosa agenzia di intelligence, si dedicherebbe alla raccolta di informazioni.
In definitiva, in nome di una collaborazione globale nella lotta al terrorismo, attraverso un’azione militare della Cia e in stretto rapporto con parte dell’Isi, gli Stati Uniti agirebbero con attacchi di droni non sempre e del tutto “mirati” oltre i confini dell’Afghanistan, violando la sovranità nazionale di un Pakistan a cui non è stata dichiarata guerra – ma creando così le condizioni perché ciò avvenga -con conseguenze deleterie sui già delicati equilibri geopolitici della regione.
Non è un caso che alcuni analisti stiano parlando di una pericolosa deriva della crisi nei rapporti fra i due Paesi, passando da un low intensity conflict ad una vera e propria low intensity war: gli attacchi statunitensi con i droni in Pakistan, quindi, avrebbero dato vita ad un’ escalation di quella che doveva limitarsi ad essere un’azione collaborativa di intelligence e di contrasto del terrorismo. E’ una situazione che si è andata deteriorando nell’ultimo anno, dall’affare Raymond Allen Davis e dopo le polemiche per le differenti e contraddittorie versioni circa l’assassinio di bin Laden, e a cui non si è voluto porre rimedio; al contrario, gli attacchi sono aumentati e le conseguenze si sono fatte ben presto sentire.
Infatti, l’aumento dell’antiamericanismo – sostenuto anche dai due principali partiti politici pakistani, Jamaat-i-Islami e JUI-F - o, addirittura, l’ incremento nelle fila degli affiliati alla lotta jihadista (fenomeno comune a molte zone oggetto di questi attacchi) proprio come reazione a questa offensiva dal cielo, sono le argomentazioni più comuni da parte degli oppositori di questo nuovo corso dei conflitti moderni.
In pratica, gli Stati Uniti andrebbero ad alimentare un fenomeno, quello dell’ingrossamento delle fila dei jihadisti, che si vorrebbe invece eliminare totalmente, come è stato detto a giustificazione dell’uccisione dello yemenita Anwar al-Alaki, considerato un reclutatore per eccellenza di nuovi affiliati alla lotta terroristica.
Ma non si tratta dell’unica contraddizione della politica militare di Obama che fra tentennamenti, oscillazioni fra isolazionismo o scarso interventismo, ritiro di truppe e aumenti di spese militari, capovolgimento di ruoli fra militari e servizi segreti sta cercando affannosamente – non riuscendovi - un nuovo compito per gli Stati Uniti come potenza mondiale, facendo persino ipotizzare, ai teorici delle relazioni internazionali, un ruolo di soft power. Come se una superpotenza che fonda la sua posizione di leader proprio sulla sua autorevolezza militare su cui poggia l’intero sistema economico e produttivo nazionale possa, tutt’ad un tratto, negare la sua vera natura per compiacere a inutili e riduttivi schemi analitici. Agli Stati Uniti, come superpotenza militare e con la loro storia politica ed economica degli ultimi settant’anni, è negato il soft power. Solo una rottura netta con il passato potrebbe far ipotizzare un nuovo corso per la politica nazionale e mondiale degli Stati Uniti: Obama, per ora, non ci è riuscito; al contrario.
Infatti, la guerra con i droni è la vera strategia, politica e militare, dell’amministrazione Obama, in perfetta continuità con quella iniziata da G.W Bush con il programma Sylvan Magnolia. E l’utilizzo dei droni sembra ben coniugare i nuovi ambiti dell’ intelligence e di quelli militari, di cui la nomina di Leon Panetta, ex Cia, a capo del Pentagono e quella di un generale come David Petraeus a capo della Cia, sono l’espressione più coerente ma anche la personificazione più evidente e, nel contempo, contraddittoria, della continuità fra vecchia e nuova gestione.
La guerra al terrorismo, con l’individuazione delle basi di al Qaeda e la caccia ai suoi principali esponenti, è stato, dunque, l’elemento chiave che ha favorito l’assunzione in modo massiccio di questi velivoli da parte del Pentagono negli ultimi due anni dell’amministrazione Obama (270 contro le 60 degli otto anni di G.W. Bush), indirizzando così le tattiche operative future ma, in particolare, la geopolitica.
Con l’intento di combattere il terrorismo e le sue cellule sparse dall’Asia centrale, al Corno d’Africa, passando per la penisola arabica, il Pentagono di Leon Panetta sta ampiamente utilizzando, dal giugno 2011, i droni in Yemen e in Somalia, con l’appoggio di basi apposite per questi velivoli nella Repubblica di Djibuti e nelle Seychelles – e se ne sta progettando un’altra in Etiopia - mentre quelle operative negli Stati Uniti sono la Creech Air Force Base del Nevada e la e la Holloman Air Force Base del New Mexico.
Il coinvolgimento militare statunitense in Yemen attraverso l’uso dei droni – iniziato nel novembre 2002 con l’uccisione di un capo di al Qaeda, Kaid Sinjan Ali al- Harithi e cinque suoi collaboratori - ha, quindi, subito un aumento vertiginoso da inizio estate 2011, con un bilancio, però, di vittime civili (130 in sole due settimane) tale da preoccupare le autorità del Paese e da far affermare loro che “gli Stati Uniti stanno trasformando lo Yemen in un altro Pachistan” .
La motivazione, ufficiale, di questo spostamento del campo d’azione dei droni statunitensi dall’area Afpak – dove peraltro continua incessante l’azione dei droni in Waziristan, provenienti dalla US Shamsi Air Base del pachistano Belucistan – all’Africa orientale è data dall’evoluzione che avrebbe subito al Qaeda dopo l’uccisione di Osama bin Laden: lo Yemen sarebbe diventata la base preferita dei nuovi capi dell’organizzazione jihadista, vista anche la situazione di instabilità politica che si è venuta a creare negli ultimi mesi e data la vicinanza con la Somalia, da anni alla prese con una guerra civile e combattuta fra democrazia e tentazioni fondamentaliste.
Stando alle dichiarazioni del gen. Carter Ham, al comando dell’Africom, vi sarebbero, infatti, legami fra il gruppo al Shabaab somalo e quello di al Qaeda nel Maghreb Islamico (Aqim) del Nord Africa, e il Boko Haram del nord della Nigeria responsabile degli ultimi attacchi terroristici in quel Paese. E sebbene questi gruppi agiscano soprattutto a livello regionale, la loro minaccia varcherebbe quei confini per giungere a colpire interessi vitali per gli Stati Uniti. Ecco perché, secondo Ham, è necessario trovare un modo per fare pressione su questi elementi: e gli attacchi con i droni sono parte di questa strategia di pressione psicologica continua.
Era già stato previsto, e vi era stato, un ampio ricorso all’utilizzo dei droni nel Golfo di Aden negli ultimi anni per via del contrasto alla pirateria somala, in azioni di sorvolo e di acquisizione di informazioni che poi, però, nel tempo, si sono trasformati in omicidi mirati di militanti jihadisti in Somalia.
Proprio la lotta alla pirateria avrebbe indotto il governo delle Seychelles ad accettare la presenza militare dei droni statunitensi, in quanto l’azione dei pirati in quelle acque avrebbe penalizzato il turismo, voce dominante dell’economia nazionale di quelle isole, tanto da fare della “pirateria una questione di integrità territoriale”, secondo le parole del capo del governo di quella nazione. In questo caso, però, al contrario del Pakistan, vi sarebbe consultazione e coordinamento operativo fra il governo centrale e i vertici militari statunitensi nella lotta contro i jihadisti e i pirati somali.
Il fatto che, attualmente, i droni MQ-9 Reapers che decollano dalle Seychelles e Djibouti siano armati di missili Hellfire, fa, quindi, propendere più per azioni di contrasto che di intelligence, soprattutto nella distruzione di campi di addestramento che, si ipotizza, siano presenti in Africa orientale, a cui è collegata anche la pirateria marittima delle acque antistanti la Somalia. E che gli Stati Uniti siano sempre più coinvolti nel conflitto somalo e per contrastare la minaccia terroristica nel Corno d’Africa è testimoniato dai dati sull’invio di forniture militari americane, fra le quali, appunto, i droni, all’Uganda e al Burundi.
L’ intelligence sembra, quindi, sicura della presenza di cellule jihadiste: ma non vi è sempre certezza assoluta delle loro posizioni. E nel dubbio si preferisce colpire proprio con i droni, ossia “killing and not capturing”, come venne dichiarato dall’amministrazione Obama dopo l’uccisione di Osama bin Laden, ponendo fine a detenzioni più o meno legali (conseguenza della spinosa questione di Guantanamo), al problema del processo di civili da parte di tribunali militari, e tutto quanto ha fatto discutere e dubitare del sistema giudiziario e della democrazia americana dopo l’11 settembre.
Dal punto di vista strettamente militare, un’azione di questo tipo e con queste premesse, condotta con i droni va a concretizzare maggiormente il concetto di guerra preventiva: nel dubbio della presenza di cellule terroristiche, si colpisce, senza rischi e implicazioni morali e giuridiche - circa la cattura e la detenzione di civili stranieri e l’applicazione di misure restrittive alla loro libertà e conseguente violazione dei diritti umani - e sempre nella salvaguardia degli interessi della sicurezza degli Stati Uniti. Si tratterebbe, quindi, - e questo è il punto di vista totalmente condiviso – di un’azione di autodifesa, decisa autonomamente da una nazione minacciata e in guerra.
Vi sono però altre conseguenze che rischiano, nel lungo periodo, di inficiare i risultati di questo esteso utilizzo di questa tattica di guerra: si tratta di contraccolpi operativi non trascurabili per il raggiungimento dello scopo finale, ossia la distruzione della rete terroristica estremista islamica così come nata, organizzata ed attiva in numerosi Paesi del mondo e che si vuol combattere con i droni.
Innanzitutto, gli omicidi mirati con droni spazzano via certamente esponenti pericolosi, ma anche una possibile fonte informativa: la cattura e la detenzione, con possibilità di interrogatori e di confronti, hanno sempre garantito notizie su intenzioni ed azioni future, collegamenti internazionali, e tutto quanto può servire ad un sistema di intelligence e a quello operativo antiterroristico di agire ad ampio raggio e per lungo periodo. E’ quanto viene denunciato dagli analisti, ossia una crisi di informazioni a causa del “killing and not capturing” che può, quindi, rivelarsi, oltre per i motivi diplomatici visti più sopra, un vero boomerang con il conseguente indebolimento delle capacità operative delle forze di sicurezza e di contrasto del fenomeno.
La stessa operazione contro il rifugio pachistano di Osama bin Laden sarebbe scaturita da informazioni estorte a un detenuto di Guantanamo. O, almeno, questa è una delle notizie che circolavano per far dimenticare le polemiche su quel campo di detenzione e per plaudere al successo delle forze speciali in quella operazione.
Inoltre, l’azzardo dimostrato troppo sovente nel colpire obiettivi poi risultati errati, dimostra anche la limitatezza dell’ humint a livello locale: colpire, sbagliare l’obiettivo e fare vittime innocenti, ha un effetto controproducente non solo a livello di relazioni fra Paesi – per i motivi visti più sopra – ma soprattutto per l’inevitabile aumento di diffidenza fra chi opera a livello locale e chi decide, appunto, a migliaia di chilometri di distanza, chi e cosa deve essere abbattuto.
Si rischia di fondare il tutto sull’equivoco e sul contrasto, con l’incognita di incorrere in guerre private fra agenzie di intelligence, che nulla hanno a che vedere con l’obiettivo reale di lotta globale al terrorismo. E il problema principale rimane l’eccessiva ingerenza straniera negli affari interni di un Paese. Sono, infatti, gli Stati Uniti, la sua intelligence e i suoi vertici militari, a decidere chi e dove in Pakistan (così come in Yemen o in Somalia) rappresenti una minaccia terroristica, e quindi colpire e indirizzare l’azione delle autorità militari di quel Paese in aree come il Fata del Waziristan.
Quel che emerge, in definitiva, non è solo un nuovo modo di condurre la guerra preventiva da parte di una superpotenza come gli Stati Uniti, ma quel vuoto, soprattutto giuridico, in cui operano internazionalmente le agenzie di intelligence, soprattutto se sotto copertura. Una specie di licenza di uccidere, al momento non imputabile attraverso nessun reato previsto da alcun codice, e giustificata dall’emergenza terroristica e dall’eterna lotta contro questo nemico globale che non conosce confini territoriali: un modello che rischia di prendere piede per quell’ opportunismo politico visto più sopra e, appunto, per la mancanza di una regolamentazione giuridica internazionale.
Nel frattempo, altri scenari di crisi o già conflittuali, in molte parti del mondo – ma ora, dopo l’Asia centrale, soprattutto in Africa orientale e nelle acque dell’oceano Indiano - sperimentano questo nuovo modo di condurre le guerre moderne: l’opinione pubblica non sembra risentire del loro impatto e delle conseguenze negative su quelle nazioni coinvolte perché tutto avviene velocemente, segretamente e con precisione quasi chirurgica. E tutto ciò, politicamente, è auspicabile, spendibile, oltre che economicamente molto vantaggioso. Si tratta di un’ulteriore conferma di quanto affermato già più volte, ossia della tendenza alla rapida conquista del dominio degli spazi, in cui i droni affiancano la guerra elettronica nella continua lotta fra grandi potenze nel contendersi il potere: che poi questo scontro sia giustificato da una eterna lotta globale al terrorismo, o da un più appetibile controllo delle materie prime energetiche o dei flussi di traffici illeciti – dalle droghe, alla pesca di frodo sino all’immigrazione clandestina – si tratta solo di differenti interpretazioni di un unico ed esteso nuovo modo di condurre i conflitti moderni.
Accanto alla cyberwar, quindi, abituiamoci al ronzio dei droni. La sfida fra potenze militari del nuovo secolo passa attraverso l’elettronica e, ancora una volta, chi dominerà con progetti, brevetti, programmi, ma soprattutto con le potenzialità economiche e finanziarie e il dominio delle materie prime indispensabili per la costruzione di questi nuovi mezzi, controllerà il resto del mondo.
4/10/2011
4/10/2011