La Royal Military Academy Sandhurst (RMAS) è una storica istituzione del Regno Unito. Distante 40 miglia a sud-ovest dal centro di Londra, dal 1802 è la scuola per eccellenza dell’Esercito di Sua Maestà britannica. Fra i suoi allievi più brillanti, oltre ai giovani principi di casa Windsor e, a suo tempo, Winston Churchill (mentre Ian Fleming, padre della spia per eccellenza, James Bond, abbandonò l’addestramento), da decenni la Sandhurst annovera i rampolli delle case regnanti del Vicino Oriente, da quella giordana all’intera galassia della Penisola Arabica, nessuno escluso. E’ una tradizione da quando il Regno Unito era la maggior potenza coloniale nell’area del Golfo Persico. Niente di strano, quindi, che ogni anno circa la metà dei suoi cadetti extra-britannici provenga dal Medio Oriente, con un picco di elementi legati alle case regnanti dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti (EAU), per un totale ad oggi di oltre 200 ufficiali.
Nemmeno così strano che, negli ultimi anni, l’amministrazione della Sandhurst abbia ottenuto cospicui finanziamenti per la costruzione di nuovi alloggi (Zayed Building,12 milioni di sterline), un centro sportivo (King Hamadi Hall, 3 milioni) o abbia visto addirittura diplomate in affari militari principesse arabe, come la bahrenita Shaika Aisha.
La logica di fondo della stretta collaborazione fra l’istituzione britannica e gli emiri mediorientali è riassumibile in un concetto più volte espresso dai vertici dell’amministrazione militare, ossia che “costruire relazioni internazionali attraverso scambi e formazione è un pilastro portante della strategia di impegno internazionale britannico”. Niente di meglio, quindi, che 44 mesi di duro addestramento comune fra futuri alti gradi dell’Esercito e membri della classe dirigente britannici e omologhi arabi, con condivisione di sofferenze fisiche, esperienze e conoscenze destinate a durare oltre la frequentazione accademica.
Nel contempo, però, il successo di Sandhurst mostra il livello di rinnovata influenza del Regno Unito presso le case regnanti del Golfo, con particolare attenzione di Londra alle loro politiche, anche interne. Attenzione, però, non interferenza, testimoniata dall’impermeabilità britannica alle critiche mosse da parte della sua opinione pubblica circa la violazione dei diritti umani in più occasioni, in particolare dalla rivolta, del 2011, duramente repressa in Bahrein. La tradizione, tuttavia, persiste.
L’attenzione è, infatti, una consuetudine britannica, totalmente assente presso altre ex potenze coloniali in Medio Oriente, come la Francia, o quelle più recenti, come gli Stati Uniti. E ha preso così tanto vigore nell’ultimo decennio da essere oggi pilastro portante di quella Global Britain che annovera, fra i suoi obiettivi, anche la Brexit. A differenza di quelle due potenze pesantemente presenti nella regione militarmente per interessi economici di varia natura, il Regno Unito opera con estrema discrezione, come da tradizione, sebbene ora con una logica prettamente “mercantile” di vero business, in cui facilitazioni ai Paesi del Golfo per investimenti immobiliari e finanziari sul mercato di Londra (definita dallo stesso Boris Johnson, “l’ottavo emirato”) e progetti in infrastrutture portuali inglesi nella Penisola Arabica sembrano essere stati protagonisti assoluti già nei mesi precedenti il referendum sulla Brexit. Insomma, una Gran Bretagna che rinnega la sua tradizione di conquista e amministrazione di società, ridisegnate poi a propria immagine, e che ragiona più come l’Olanda del XVII secolo, con un’attenzione particolare alle infrastrutture e alle enclavi commerciali e militari fuori dal suo territorio.
Ma per comprenderne la vera portata, occorre fare qualche precisazione nella storia dei rapporti fra Londra ed emiri.
Sebbene a gennaio del 1968 il governo di Lord James Harold Wilson dichiarasse il ritiro delle proprie truppe dal Golfo, decretando, dal 1971, la fine della presenza militare britannica “East of Suez”, da cui l’emergere di quei Trucial States o pirate coast, ossia EAU, Qatar e Bahrein come Stati di nuova indipendenza, di fatto ciò non ha mai significato la fine dell’interesse e, soprattutto, dell’ influenza di Londra su tutta la regione. Sempre un passo indietro agli Stati Uniti - proprio dagli anni ’70 della crisi petrolifera nuova potenza mondiale in Medio Oriente - secondo alcuni analisti, il Regno Unito avrebbe approfittato, in particolare dal 2011, del disimpegno di Washington dalla regione (dottrina Obama del leading from behind e l’autosufficienza energetica con lo shale gas) per avviare iniziative e stringere maggiori e più proficue alleanze con gli Stati del Golfo. Già nel 1996, un Defense Cooperation Accord fra il Regno Unito e gli EAU rappresentò il primo e più importante impegno di difesa britannico al di fuori della NATO.
Tuttavia, fu solo nel 2009 che avvenne la prima vera svolta, con il potenziamento della base aerea al-Minhad (Dubai), a cui seguirono, nel 2010 l’accordo con l’Arabia Saudita per l’addestramento a Sandhurst di proprie forze ausiliarie di polizia, e quello, nel 2012, di cooperazione difensiva con il Bahrein. Nel Single Departmental Plan: 2015 to 2020, del Ministero della Difesa britannico del 2013 si parlava già della creazione di 400 fra corsi e luoghi di addestramento per promuovere “la interoperabilità fra regione e UK”.
Nel 2016, pochi mesi prima del referendum sulla Brexit, la politica di proiezione di soft power britannico nell'area prese rinnovato vigore con la firma dell'accordo con l’Oman per il dispiegamento sul suo territorio di 45 squadre di addestramento britanniche; a questo seguì, di lì a poco, quello con il Bahrein per il potenziamento del porto Mina Salman “to support future carrier capability, and wider British maritime need in the area”, diventata così base permanente per la Royal Navy e avviando in tal modo una espansione delle attività militari, economiche e diplomatiche del Regno Unito nella regione del Golfo. Insomma, un rientro alla grande ma con discrezione britannica negli affari interni, di sicurezza e di business di quei Paesi. Un giro di affari e di commercio di circa 30miliardi di sterline annue, e la promessa del Premier May di 3miliardi di sterline per il prossimo decennio per la difesa regionale e il contrasto alla minaccia terroristica jihadista. Proprio l’attivismo del Premier britannico nell’ultimo anno ha fatto ipotizzare a numerosi osservatori la stretta connessione fra costi e sacrifici imposti dalla Brexit e la loro compensazione con nuove commesse e affari legati alla sicurezza con quella parte del Vicino oriente, senza disdegnare il tentativo di riaffermarvi un proprio ruolo geopolitico strategico. “God save the Emirs” è diventato così l'irriverente, sarcastico ma credibile motto più volte sussurrato negli ambienti industriali e finanziari londinesi parlando di salvataggio dai costi della Brexit.
Sullo sfondo pare esserci comunque, e da decenni, il desiderio britannico di garantirsi basi “per osservare e contenere l’Iran”, soprattutto dopo che la rivoluzione khomeinista aveva posto fine a un rapporto privilegiato con lo Shah, grande acquirente di armamenti britannici (secondi a quelli statunitensi), ed ora protagonista dei grandi stravolgimenti geopolitici della regione. Sebbene Londra sia stata fra gli artefici dell’ accordo sul nucleare iraniano, ha iniziato solo recentemente con cautela e pare molto timidamente ad esternare le proprie preoccupazioni circa il ruolo di Teheran nella regione, in particolare in Iraq, Siria e Yemen. Lungi dal desiderare uno scontro diretto, soprattutto militare, con l’Iran, Londra comunque ha scelto di sostenere l’altra sponda dei paesi rivieraschi le acque del Golfo Persico: da qui una dichiarazione congiunta fra Regno Unito e Consiglio dei Paesi del Golfo (GCC) al fine di proteggere interessi di sicurezza condivisi, “by deterrering and repelling any foreign aggression”, rafforzando legami attraverso l’assistenza tecnica, cooperazione, addestramento e difesa.
Ma cosa possono chiedere in termini di assistenza e addestramento militare quei Paesi che, ad eccezione della più popolata Arabia Saudita, a stento riescono a mettere insieme risorse umane per formare corpi speciali a protezione dei membri delle famiglie regnanti? La richiesta più frequente rivolta ai vertici della Sandhurst è, infatti, relativa a tattiche di contro-insorgenza e gestione dell’ordine pubblico: insomma, il timore di sovvertimenti popolari interni va ben oltre il contenimento del temuto Iran e l’eventuale rischio di scontro militare aperto. Non è un caso, infatti, si siano registrate, dal 2015, commesse ad aziende britanniche, del valore di decine di milioni di sterline, per forniture di tecnologia di sorveglianza e monitoraggio, in cui gli EAU primeggiano al fine di controllare attività loro interne, potenzialmente destabilizzanti l’ordine pubblico. Insomma, il timore di rivolte aleggia sempre.
Non da meno, tuttavia, quello del terrorismo jihadista. Proprio il 16-17 ottobre scorsi si è tenuta in Bahrein (all’interno dell’affollato e ricco BIDEC, il più importante salone internazionale per la Difesa della regione arabica) la conferenza su “Alleanze e Coalizioni Militari in Medio Oriente”, al cui centro dei dibattiti ha dominato il progetto saudita di un’alleanza sunnita, la Coalizione Militare Islamica per Combattere il Terrorismo, alla cui guida è stato posto, già da aprile 2017, il gen. pakistano Rasheed Sharif, veterano dell’antiterrorismo. Una sorta di Nato sunnita, dunque, ma che ancora deve fare i conti fra dissapori e riluttanze fra i vari soggetti. Non è infatti un caso che nell’ultimo elenco redatto dal Sipri di Stoccolma, l’Arabia Saudita e EAU siano rispettivamente al secondo e terzo posto come spesa per armamenti; il primo è l’India, con buona pace della tradizione e del pensiero non-violento gandhiano.
Rimane, comunque, la carenza di personale adeguatamente addestrato rispetto alle minacce interne e soprattutto esterne. Limite superato agilmente attraverso il ricorso degli EAU a contractors, ossia forze da combattimento private: è accaduto con personale della Reflex Response Company (R2), ex Blackwater, inviati dagli Emirati, già nel 2015, in Yemen a combattere a supporto della coalizione a guida saudita contro gli Houti filoiraniani. Sotto le insegne della Guardia Presidenziale EAU, quindi, mercenari sudanesi, colombiani, sudafricani e di altra provenienza, sono stati reclutati ed addestrati da ex militari francesi, inglesi ed australiani della R2. Non da meno, ex piloti militari di una società consorella della R2, la Frontier Service Group (FSG), sono stati reclutati sempre dagli emiri dell’EAU per supportare le operazioni aeree del loro alleato in Libia, il gen. Khalifa Haftar.
Tutti quei contractors fanno diretto riferimento all’emiro Mohammed bin Zayed al-Nahyan, attuale ministro della difesa degli EAU, sul cui curriculum primeggia a lettere cubitali la laurea alla Sandhurst. Ed è assodata l’amicizia fra questo l’emiro ed Erik Prince, fondatore della Blackwater e attuale responsabile di queste società operanti in vari scenari bellici. Insomma, dove gli EAU intendono conseguire interessi a puro scopo di proiezione di potenza, dispongono di mezzi finanziari, armi, conoscenze militari e personali per intervenire. Ecco perché, a seguito degli attriti e del blocco economico e commerciale di Arabia Saudita, EAU, Bahrein ed Egitto che accusano il Qatar di sostenere il terrorismo, è credibile l’accusa lanciata dalle autorità qatarine circa un piano di invasione da parte dell’Arabia Saudita del loro territorio attraverso mercenari “Blackwater-linked”: si sarebbe trattato di 15mila uomini, per lo più sudamericani, addestrati presso la base militare di Liwa negli Emirati, per un’operazione bellica a firma saudita di vera e propria “conquista” territoriale del Qatar prima dell’inizio del blocco, evitata grazie alla mediazione del Kuwait e un prevedibile invito alla calma del Presidente Trump che in Qatar dispone di due basi militari e soprattutto del comando generale delle operazioni aeree in Iraq, Siria, Afghanistan e in ben altri 17 scenari bellici o di crisi.
Un Qatar accusato di fomentare il terrorismo, in stretto legame, ora, con l’Iran, con cui condivide un immenso giacimento di gas nelle acque antistanti le loro sponde (North Dome/South Pars) e al cui comando vi è quel Sceicco Tamin bin-Hamad al Thani, anch’egli, quasi come fosse un mantra, diplomato alla Sandhurst.
Non rimane, quindi, da chiedersi cosa e quanto nei 44 mesi di addestramento presso questa prestigiosa accademia militare, gli emiri cadetti apprendano della cultura britannica e dei suoi metodi di gestione della cosa pubblica anche, se il caso, attraverso l’uso della forza. Oppure si tratta di un discorso inverso, ossia di quanto di ciò che viene insegnato a Sandhurst stia invece servendo a Londra per un ritorno in grande di Sua Maestà Britannica nei territori che videro furoreggiare Lawrence d’Arabia come paladino del nazionalismo arabo contro l’impero ottomano. La storia del tenente colonnello Thomas Edward Lawrence terminò con una amara delusione e un sentimento di forte tradimento dei suoi ideali e dei suoi sacrifici; è lo stesso che ora alimenta le frange estreme di un fermento rivoltoso e, sebbene di matrice e obiettivi totalmente opposti, di un jihadismo che, però, rappresentano ora le due grandi sfide con cui emiri e principi locali, così come Regno Unito con il suo rinnovato protagonismo di Global Britain, si stanno confrontando nei territori desertici della Penisola Arabica come nei quartieri, strade e metropolitane delle popolose città inglesi.
Foto: BBC-Radio 4
23/10/2017