L’impressione che si prova nell’approfondire certe informazioni è un mix di impotenza e di consapevolezza di come nulla è come appare: dopo anni di analisi internazionali e una buona dose di conoscenza storica non si dovrebbero più provare certe sensazioni. Eppure è successo ancora una volta.
La notizia non è nuova, almeno per gli addetti ai lavori: già da alcuni anni si è a conoscenza del fatto che il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti dispone, al suo interno, di un microcosmo, formato da elementi scelti dell’esercito, della marina e dell’aviazione che, con una presenza globale, sparsa sull’intero pianeta, porta avanti operazioni speciali di commando, veloci e a “ bassa intensità” bellica ma di alto profilo militare. Insomma, un esercito ombra che, alla fine del 2010, era impegnato in 75 paesi del mondo.
Non è comunque questo l’aspetto inquietante: si tratta dell’ USSCOM, US Special Operations Command, organismo nato ufficialmente nel 1987 ed evoluto in compiti e grandezza soprattutto dal 2004.
Che la superpotenza militare statunitense disponga di forze speciali per compiti altrettanto particolari (Special Operations Forces, SOF) non deve destare meraviglia: esse fanno parte di tutti i più avanzati sistemi di difesa o di nazioni in perenne stato di guerra, come Israele, con i suoi sayeret. Ma per quel che riguarda l’USSCOM e le SOF il discorso è più delicato e grave.
Ciò che ha lasciato e lascia perplessi i commentatori di cose belliche sono le modalità attraverso cui le forze speciali dirette dall’ USSCOM sono chiamate ad operare, sono finanziate e sono gestite, ma anche e soprattutto – stando alle affermazioni del suo portavoce, il col. Tim Nye - l’ipotesi dell’aumento vertiginoso del loro utilizzo, che i vertici militari americani prevedono in 120 Paesi entro la fine del 2011.
Sebbene i reparti comandati dall’ USSCOM dispongano di un organismo di coordinamento ufficiale, il JSOC, Joint Special Operations Command, con tanto di ufficiale four-star commander – fra i quali tempo fa vi è stato anche il generale Stanley McChrystal - una base dichiarata - la MacDill Air Force Base, in Florida – e un budget – il Major Force Program, MFP11 - in apparenza ufficiale, i loro interventi non vengono sottoposti al alcun iter pubblico e, quindi, la loro opportunità non viene nemmeno vagliata attraverso alcun dibattito fra organismi rappresentativi, Congresso e Senato per primi.
Infatti, le forze speciali o SOF non operano solo in aree di conflitto come, ora, l’ Afghanistan e, prima, l’Iraq, ma, attualmente, anche in Yemen e Somalia, in operazioni di guerra non dichiarata o che, in apparenza, nulla hanno a che vedere con gli interessi “vitali” o “nazionali” degli Stati Uniti.
Ciò che viene ora alla luce, fra dichiarazioni ufficiali, indiscrezioni e supposizioni, è l’ampiezza del fenomeno dell’USSCOM e della sua area d’azione, oltre ai suoi metodi certamente al di fuori dei limiti legali e democratici.
Ne deriva che la sensazione che inquieta maggiormente gli analisti più critici di cose americane è il fatto che queste forze speciali – a cui appartengono anche i Navy Seals protagonisti dell’uccisione di Osama bin Laden – vengano impiegate in una guerra globale segreta, i cui scopi sono celati all’opinione pubblica e ai mass media, in barba a tutti gli strumenti di confronto e di controllo che ci si aspetta da una superpotenza militare che fa della lotta per la vittoria dei meccanismi democratici il suo baluardo di azione.
Che cosa appare, quindi, ufficialmente di questo organismo e cosa, invece, turba i più attenti osservatori ed analisti di sicurezza?
Disponendo di sito web, è abbastanza facile avere un’idea dei compiti e dell’investitura ufficiale dell’USSCOM : nato in seguito al Goldwater-Nichols Defense Reorganization Act del 1986 – dopo il fallimento dell’azione di commando per la liberazione degli ostaggi all’ambasciata americana di Teheran - e ampliato dopo l’11 Settembre 2001 e, in seguito nel 2004, con l’ Unified Command Plan, i compiti principali di questo organismo sono passati dalla pianificazione di operazioni speciali, all’addestramento del personale e al supporto dei comandanti e delle rappresentanze statunitensi al di fuori dei confini degli Stati Uniti, sino a quello di “responsabilità nella sincronizzazione dei piani del Dipartimento della Difesa contro la rete terroristica globale e nella conduzione di operazioni globali”.
Composto da circa 57mila elementi (fra militari e civili) provenienti dalle varie armi e amministrazioni, ciascuna con propria sigla e proprio comandante, le forze speciali sotto la direzione dell’ USSCOM vengono coordinate appunto dal JSOC, una specie di comando interforze per le operazioni speciali statunitensi nel mondo. Vi fanno parte i Navy Seals, e commandos dell’Air Force e dei Marines, i Green Berets e i Rangers, così come elementi della Riserva e della Guardia Nazionale.
E’ nella lettura della parte relativa alle SOF Core Activities del loro sito web che si avverte però il vero spirito di questo organismo, che diventa, nel contempo, la principale fonte di allerta degli analisti e degli studiosi di relazioni internazionali.
In 12 punti, infatti, vengono elencati i compiti delle forze speciali sotto il comando dell’USSCOM.
Si tratta di tipi di intervento - attacchi rapidi, limitati offensivamente – con obiettivi – distruzione e cattura, in aree protette, di elementi nemici – che delineano lo spirito e le tattiche di questo organismo, ma anche le sue linee strategiche. Si va dall’assistenza ai governi stranieri e alle loro forze armate per garantire la loro sicurezza nazionale, all’azione per stabilire, mantenere o influenzare le relazioni fra le forze statunitensi e quelle autorità e popolazioni civili straniere al fine di facilitare operazioni militari complesse, in particolare, nella perfetta logica della missione che anima queste forze dell’antiterrorismo, per localizzare ed eliminare armi di distruzione di massa, in un’opera di controproliferazione di questo tipo di armamento.
Nulla di nuovo o di sbalorditivo, dato che si tratta della pratica militare a cui gli Stati Uniti del dopo guerra fredda si sono indirizzati e che ormai fa parte della loro storia bellica, dottrinale e operativa.
Nelle core activities di queste forze speciali tuttavia, appaiono due punti, psychological operations e information operations che aprono squarci inquietanti e pongono interrogativi, in particolare dopo alcuni avvenimenti che le hanno viste protagoniste, come l’operazione per l’uccisione di Osama bin Laden, nel maggio scorso, e l’abbattimento di un elicottero Chinook, a inizio agosto, con l’uccisione, fra gli altri, di 22 di questi elementi.
Ad essere messi sotto accusa sono i metodi c.d. “psicologici” delle SOF, ossia l’obiettivo di agire con questo tipo di operazioni al fine di ottenere il supporto straniero all’azione militare statunitense, a cui si affianca un sistema non ufficiale – e quindi gestito al di fuori dai mezzi autorizzati - di raccolta di informazioni, già ampiamente utilizzato nelle guerre nei Balcani e in Iraq.
Le indiscrezioni, anche da parte di elementi ufficiali, circa un deciso potenziamento di questo tipo di operazioni, hanno finito per alimentare i timori di una guerra privata portata avanti da questa frangia particolare del Pentagono. E di elementi di preoccupazione ve ne sono in abbondanza.
I sistemi adottati per tali scopi, in particolare gli omicidi mirati di soggetti intesi come obiettivi a basso e alto profilo, la cattura e il rapimento di presunti terroristi, i raid notturni e le operazioni congiunte con forze straniere avrebbero assunto, per frequenza e per modalità, contorni decisamente extra-legali, tanto da far affermare a John Nagl, il maggior collaboratore del direttore della Cia, David Petraeus, che si tratta di “an almost industrial-scale counterterrorism killing machine”.
In pratica, non solo le operazioni speciali non sarebbero limitate alle due aree di conflitto in cui sono coinvolte le forze statunitensi, ossia Iraq e Afghanistan-Pakistan, e per casi eccezionali, come la cattura dello sceicco del terrore bin Laden, ma registrerebbero da qualche tempo una frequenza quotidiana di una dozzina di interventi, soprattutto raids notturni.
Ancora una volta, si potrebbe affermare che se queste azioni di commando contribuiscono alla rapida e vittoriosa conclusione di un conflitto, in particolare quello afghano, troppo lungo e sanguinoso, sarebbero giustificabili e concretizzerebbero solo un cambio di strategia e una radicalizzazione delle tattiche operative.
Il fatto, però, che queste operazioni definite black ops, avvengano anche in Yemen o nelle Filippine, in appoggio alle forze regolari nella lotta contro il gruppo di Jemaah Islamiyah o quello di al-Harakat al Islamiyah (con un costo annuo accertato di 50 milioni di dollari), o che vi siano esercitazioni congiunte, definite invece white ops, fra queste forze speciali e truppe regolari dal Sudamerica (Belize, Panama, Repubblica Dominicana e Brasile), all’Africa (Burkina Faso, Senegal, Mali), all’Europa (Germania, Norvegia, Romania e Polonia), Medio Oriente (Giordania) sino all’Asia (Tailandia, Indonesia, Corea del Sud), solo per citare alcuni degli interventi più importanti, non piace a molti osservatori.
Infatti, il campo di azione delle forze speciali è ben più vasto ma non chiaramente definito, stando alle dichiarazioni, ad inizio 2011, del gen. Olson, allora a capo dell’USSCOM, di fronte all’ House Armed Services Committee: Bahrein, Egitto, Iran, Kazakhstan, Kuwait, Kyrgyzstan, Lebanon, Oman, Qatar, Arabia Saudita, Siria, Tajikistan, Turkmenistan, Emirati Arabi e Uzbekistan. A questa lista si aggiungerebbero altri luoghi che, secondo quanto affermato ancora dal portavoce Nye, “non è conveniente per noi elencare”.
Ciò che, quindi, più sta irritando gli osservatori è che parrebbe che agli intenti e alle dichiarazioni di isolazionismo “militare” dell’amministrazione Obama non corrisponda la realtà dei fatti, in una chiara contraddizione che va ad alimentare il malcontento e la delusione circa la gestione della politica estera e militare da parte di quel presidente. Che le guerre di Bush siano diventate anche quelle di Obama è noto, ed è anche il titolo di un saggio ben scritto e molto diffuso. Ma qui si sta andando oltre.
Lo stesso Project Lawrence, datato ormai di oltre due anni, attraverso il quale l’USSCOM recluta personale, anche senza cittadinanza e green card statunitensi, purché di madrelingua di Paesi interessanti – come è accaduto con i coreani – per azioni di penetrazione e di esplorazione di territori nemici, fa parte di questo ampliamento dell’attività militare di vigilanza, di controllo e di addestramento di queste forze speciali, giustificata come difesa degli interessi vitali statunitensi. Di questi interessi però non si rende conto pubblicamente: l’approccio delle operazioni dell’USSCOM è quello proprio della guerra al terrorismo dichiarata da George W. Bush all’indomani dell’11 settembre, in un’estensione temporale e di spazi che sembra non concordare con la svolta e il cambiamento propri della campagna presidenziale di Obama.
In pratica, ciò che più sconcerta in questa vicenda è che l’attuale presidenza degli Stati Uniti, ossia la superpotenza militare attorno cui ruota una gran fetta della politica internazionale e di sicurezza del pianeta, afferma di tenersi in disparte dall’intervenire in scenari di guerra, anche di fronte a tragedie umanitarie - come nel caso della Libia, in cui si è affrettata a delegare la questione alla Nato – e a limitarsi a fare, inutilmente, la voce grossa contro il siriano Assad, o a non intervenire affatto di fronte a identici massacri in Yemen, per poi scoprire che forze speciali americane sono sempre più impegnate a portare avanti azioni armate o ad addestrare per eventualità, nemmeno tanto remote di scontri bellici, gli eserciti di numerosi altri Paesi sparsi nel mondo, fra i quali quelli coinvolti nella c.d. primavera araba (Bahrein, Egitto, Siria e Yemen).
In pratica, l’intera questione delle operazioni speciali dell’USSCOM solleva dubbi sulla coerenza e sulla trasparenza dell’operato dell’amministrazione Obama e, quindi – per essere benevoli - della sua presa di coscienza della vera realtà dei fatti che lo circondano e la sua relativa credibilità.
Vi è poi la questione della raccolta delle informazioni. Si tratta dell’aspetto meno appariscente e conosciuto dell’intera vicenda, ma non per questo meno delicato e pericoloso. Dall’11 Settembre, infatti, il dibattito sull’efficienza e sui ruoli della vasta galassia di agenzie di intelligence americane (16 enti, fra interni ed esterni, civili e militari, blindati ognuno nel proprio comparto) ha permesso di vigilare sul loro operato e far emergere scontri interni, contraddizioni ma anche pericolose derive.
Già poco più di un anno fa, il New York Times – in una notizia poi ripresa da altri quotidiani - aveva denunciato l’attività di Michael D. Furlong che, in qualità di alto funzionario civile del Dipartimento della Difesa statunitense, aveva creato un network di agenti privati attivi nell’Afpak. Il lato oscuro dell’intera vicenda era dato da due fattori: la clandestinità del network spionistico e la provenienza dei suoi componenti.
Infatti, si trattava di una rete composta da persone provenienti dalle forze speciali, reclutate come contractors privati che facevano capo all’ International Media Ventures, una società privata di “comunicazioni strategiche”, e all’ American International Security Corporation, i cui compensi non venivano iscritti in nessuna voce dei capitoli di spesa del Pentagono. Il ruolo di Furlong, esperto proprio di psychological operations, era quello di distrarre fondi da dedicare a questa rete, alle società Ventures e American International, e per proprio tornaconto. Nel solo 2008, e secondo il NYT, il giro di affari non ufficiale sarebbe stato di 22 milioni di dollari, per la sola raccolta di informazioni.
Quel che ancora sconcerta i commentatori è che, nonostante gli illeciti - dalla distorsione di fondi pubblici, frode e tangenti - Furlong sia ancora al suo posto; a ciò si sommano i dubbi e le perplessità circa le informazioni e le indiscrezioni sull’ampliamento delle attività delle forze speciali, di chi le controlla e le dirige, ma soprattutto da dove provengono i fondi per finanziarle.
In tempi, poi, di crisi economica, possibili rischi di default e tagli di bilancio, l’aspetto finanziario dell’attività militare degli Stati Uniti, a propria difesa e per i propri interessi in giro per il mondo, ha un peso politico molto rilevante: considerato poi l’avvio della campagna presidenziale per il 2012, i successi o i fallimenti in campo militare faranno la differenza.
In dieci anni, dall’11 settembre a oggi, il budget ufficiale dell’USSCOM è in pratica triplicato, dai 2.3 ai 6.3 miliardi di dollari, senza contare quanto speso per Iraq e Afghanistan, perché allora si giunge a 9.8 e la richiesta per il FY2012 è di 10.5 miliardi di dollari, con un aumento del 7% rispetto al 2011. Si tratta sempre di cifre ufficiali ma parziali e che coprono le spese per il mantenimento e l’addestramento di queste forze, così come l’acquisto di mezzi operativi o strumenti, come i Predator , i droni ampiamente utilizzati in molti scenari di crisi o di guerra, dal Waziristan pachistano allo Yemen, Libia e, ultimamente anche Somalia.
Ciò che non convince è la mancanza di trasparenza di tali operazioni, di cui si ha notizia in caso di incidenti gravi come quello di inizio agosto o nel caso di illeciti come quelli di Furlong. Il timore che questo tipo di operazioni prenda il sopravvento su una politica militare di difesa o di interventi a “fini umanitari” è fondato: si tratta, infatti, non solo di discutere sull’opportunità strategica di certi interventi, quanto sull’esistenza e sull’efficacia dei meccanismi democratici di controllo dell’attività di questo tipo di organismi, in grado di decidere le sorti di Paesi e di aree geografiche.
Delegare poi a organismi privati la gestione della raccolta delle informazioni è una deriva che, con la logica della libera concorrenza e del mercato, rischia di far prevalere interessi particolaristici (ossia di chi finanzia quelle società e i termini con cui è gestito il loro personale), su quelli del bene della nazione. Sono argomenti propri di un dibattito molto acceso fra gli addetti ai lavori, ma di cui non si ha una percezione pubblica, per volontaria censura ma anche per diffuso timore che possano intervenire cambiamenti verso questa tendenza alla privatizzazione dell’ intelligence.
Tuttavia, così facendo, oltre ad demarcare sempre più profondamente il solco fra agenzie di informazioni a scapito di una globale e proficua collaborazione, si rischia di favorire le forze ostili che si vorrebbe combattere, da quelle eversive, rivoluzionarie o terroristiche sino alla criminalità organizzata, con inevitabili tonfi, di cui l’11 Settembre è stata la prova più dolorosa ed evidente.
Vi è ancora un ultimo spunto che offre la questione delle Forze Speciali. Si è abituati a esaltare la potenza militare degli Stati Uniti magnificando il suo potenziale bellico, di organizzazione, di mezzi e di uomini. Di fronte a crisi che rischiano di degenerare in conflitti aperti - come quelli usuali in Medio Oriente - si ricorre sovente all’invio di parte della propria flotta – presente in ogni dove con le sue basi dislocate in tutti i mari del mondo - in quella tattica di “show the muscles” che, nel tempo, ha dato anche risultati concreti di guerre evitate.
Questa pratica sembra ormai far parte del passato o, peggio, a ridursi a essere una farsa, valida solo più per quelle crisi che non possono raggiungere aspetti troppo pericolosi, come, ad esempio, nel braccio di ferro con potenze nucleari come l’Iran. Non si tratta, infatti, solo di una limitazione dei compiti dovuta alle precarie condizioni in cui versa gran parte della US Navy, ma si tratta di come sono cambiate le tattiche di intervento e, come si evince dalla lettura dei documenti ufficiali, anche di preparazione militare. Si può, dunque, ancora andare oltre e ipotizzare, con gli interventi delle Forze Speciali, anche un drastico cambiamento nella gestione della politica internazionale.
La diffusa presenza di queste forze di intervento speciale – dai 60 Paesi del 2007 ai 120 della fine 2011 - fa, quindi, dedurre che la politica di intervento militare statunitense poggi, da qualche anno, su una vasta opera di addestramento di forze militari, anche in nazioni fortemente destabilizzate da disordini interni, come lo sono stati l’Egitto qualche mese fa, o, attualmente, lo Yemen e la Siria.
Se le affermazioni e le indiscrezioni dei massimi esponenti dell’USSCOM corrispondono a quanto sta realmente accadendo in molte aree del mondo, stiamo assistendo a una radicale svolta nella storia militare degli Stati Uniti. Per qualcuno si tratta di guerre segrete del Pentagono; per altri di guerre private, sia per la gestione che per i mandanti. Di certo, quel che manca è un democratico confronto al riguardo che non può che avvalorare questi giudizi e sostenere coloro che affermano che si tratti degli ultimi disperati tentativi della potenza militare americana di salvare il proprio dominio nel mondo.
Di sicuro, la sensazione che emerge innanzitutto e con impeto, è che nulla è come appare: non è una novità nella storia militare del genere umano. E’ ridicolo meravigliarsi ancora o, peggio, urlare allo scandalo: rimangono, però, leciti dubbi sulle dichiarazioni di un presidente americano di non voler farsi coinvolgere e sulla coerenza, quindi, di suoi comportamenti, opportuni solo per i mass media.
Tutta la vicenda delle forze speciali rilancia, inoltre, un sospetto circa la genuinità di certi fenomeni, come i tumulti di molti Paesi arabi, degenerati anche in guerre, come quella libica: la presenza di queste forze, in particolare inglesi, prima e durante il conflitto, in ruoli non sempre chiaramente definiti pubblicamente – se non nel supporto ai ribelli – unitamente a quanto visto sino ad ora, alimentano ulteriormente le voci di complotti orditi da potenze occidentali per la riconquista dell’Africa o, fra non molto, di Paesi ostili del Golfo Persico.
Una parte di analisti e osservatori internazionali aspetta segnali contrari a questa interpretazione: nel frattempo, e in attesa che un ennesimo incidente riveli le vere forze in campo, si continua a credere che gran parte di quanto sta accadendo, in ogni dove nel mondo, sia frutto di un genuino desiderio di libertà da regimi oppressori o di consapevole lotta contro forze terroristiche. Inutile attesa: la storia militare insegna che i tempi per la verità su quanto accade realmente in guerra o nelle battaglie contro i nemici del bene dell’umanità sono lunghi anche di molti decenni.
Affannarsi non serve, ma denunciare le derive della democrazia e dei suoi congegni, come il mancato dibattito pubblico o l’operato poco trasparente delle sue Forze armate, deve essere un obiettivo da non trascurare se ancora si crede nella superiorità del governo dei popoli contro l’assolutismo di pochi e dei loro privati, particolaristici interessi di parte.
25/8/2011