Che la guerra in Afghanistan sia combattuta anche per il fiorente mercato della droga non è più una novità: secondo alcuni per contrastarlo, secondo altri per conquistare quelle province (7 su 34) che dall’inizio del conflitto hanno visto aumentare in modo vertiginoso la produzione di oppiacei e di cannabis, e porle sotto il proprio controllo per via di un mercato sicuramente più redditizio di quello dei proventi del passaggio del petrolio o del gas.
Alcuni vi vedono la longa manus della Cia o comunque di quegli interessi particolari transnazionali, ma totalmente occidentali, che già negli anni ’80 e per accelerare il crollo dell’Unione Sovietica, avrebbero utilizzato le droghe afgane per finanziare il terrorismo islamico contro Mosca (dall’Uzbekistan, alla Cecenia e alla Georgia). Quel traffico sarebbe servito anche alle altre agenzie di intelligence occidentali per influenzare i rapporti con le élites al potere in Asia Centrale.
Secondo questa versione, tutto nacque, quindi, dall’alleanza fra mujaheddin e Stati Uniti per finanziare la resistenza afgana contro l’invasione sovietica, portando di fatto, però, ad un ampliamento della coltura dell’oppio in quel Paese così vasta da oltrepassarne i confini e raggiungere anche il Pakistan. La nascita di cartelli locali, la loro alleanza con leader politici afgani e la protezione degli onnipresenti servizi segreti di Islamabad a cui veniva affidata la raffinazione, avrebbero dato vita ad uno dei più fiorenti mercati per la produzione e la distribuzione di oppiacei, secondo solo al mercato della coca colombiana.
Si sa anche che si combatte in Afganistan per contrastare il potere talebano, la sua pretesa di imporre la sharia nei suoi aspetti più radicali, le sue pericolose relazioni con il più temibile terrorismo internazionale e per permettere a quel Paese di trovare una sua via democratica verso la libertà e lo sviluppo. Anche questa versione non è più tanto spendibile, soprattutto dopo la morte di Osama bin Laden, ricercato sui monti afgani, in realtà da tempo rifugiato nel vicino Pakistan e protetto da omertose connivenze fra politici e militari di quel Paese.
Al Qaeda ha assunto nuovi leader e nuove connotazioni regionali e mondiali, dal Pakistan allo Yemen, sino dalla Somalia al Maghreb, con circa una ventina di elementi ricercati dagli apparati di intelligence e quelli militari degli Stati Uniti, almeno secondo le dichiarazioni di Leon Panetta, a capo di un Pentagono che ha appena ottenuto dal Congresso 694 miliardi di dollari (17 in più rispetto all’anno scorso), anche per portare a termine questa missione al di fuori dei confini afgani.
L’Afghanistan non avrebbe, quindi, più alcun ruolo esclusivo nel proteggere e sostenere la struttura al-qaedista.
Il pericolo per il futuro di quel Paese è solo ed esclusivamente rappresentato dalla sopravvivenza dell’isteria talebana, in un misto di fanatismo religioso e ancestrale cultura tribale che coinvolge la sua vita politica ed economica, tanto da rappresentare un ostacolo ai progetti occidentali nella regione centroasiatica.
Non è, infatti, nemmeno più un mistero che quella guerra è stata combattuta per soddisfare quegli interessi economici mondiali, che miravano alla creazione di strategici corridoi per il passaggio di oleodotti e gasdotti, e che nell’Afghanistan talebano vi vedevano il peggior ostacolo alla loro realizzazione. Altri progetti e altri itinerari hanno nel frattempo superato ogni sorta di impedimento.
Sta di fatto, invece, che la guerra in Afganistan sta registrando un pericoloso innalzamento di violenza proprio nelle regioni a maggior coltura di oppio. L’ultimo attentato alle forze italiane, con l’uccisione del cap. magg. Tuccillo, è avvenuta nella provincia di Farah, la terza provincia (dopo Helmand e Kandahar) più importante per la coltivazione ma soprattutto per il traffico di droga che dall’Afghanistan prende la via verso il resto del mondo.
Quando poi dall’ UN World Drug Report 2011 risulta che la coltivazione di oppiacei, e quindi di eroina, ha subito un lieve incremento dal 2009, e dei 195.700 ettari dedicati a quella coltivazione 123.000 sono in Afganistan e che, nonostante la guerra, la produzione è rimasta pressoché stabile nel 2010, inevitabile porsi interrogativi sull’efficacia di quel conflitto nel contrastare una fra le maggiori fonti di finanziamento dei talebani. Il contrasto alla produzione e al traffico di oppiacei afgani attraverso l’azione militare si sta rivelando, quindi, assolutamente fallace, estremamente costoso e decisamente inconcludente.
E’, quindi, lecito chiedersi cosa c’è che non sta funzionando in quello scenario bellico. E dalla lettura di quel rapporto, così come di numerosi documenti anche non ufficiali, ci si rende conto che non si tratta solo di carenza nella conduzione di una complessa strategia militare, quanto del coinvolgimento di interessi così esorbitanti e con molteplici protagonisti da ridurre il conflitto afgano, seppur con la sua complessità, la sua durata e la sua brutalità, ad una piccola pedina di un grande partita giocata su più fronti geografici.
Ufficialmente e da più parti viene riferito che la produzione afgana è rimasta stabile per fattori climatici avversi come l’alternarsi di periodi di siccità a quelli di vere e proprie alluvioni. Il contrasto sia interno che internazionale non avrebbe, quindi, alcuna incidenza dato che la coltivazione dell’oppio e della cannabis verrebbe tollerata anche perché unica fonte di reddito per interi villaggi di quella parte del Paese in cui l’azione di governo delle autorità centrali non arriva. Insomma, ne andrebbe della sopravvivenza di quelle genti. Che poi, su una popolazione di circa 32 milioni di afgani, 1 milione di giovani sia già dipendente da droghe pesanti, sembra non preoccupare le autorità centrali.
Non è, infatti, la sorte di costoro che preoccupa gli analisti internazionali, quanto le cifre macroscopiche che permangono della produzione di oppiacei afgani, il percorso che questa enorme quantità di droghe compie da quel Paese al resto del mondo e, soprattutto, chi lo gestisce.
Chi controlla, quindi, questo traffico di oppio e i suoi derivati? Secondo fonti occidentali, sono proprio i talebani, tanto da essere fra i primi narcotrafficanti al mondo a fianco delle Farc; eppure vi sarebbero anche testimonianze di un’azione di contrasto da parte proprio dei talebani che, nelle aree da loro controllate, già un decennio fa iniziarono un’azione di distruzione delle coltivazioni di oppio. Dalle oltre 4mila tonnellate annue degli anni ’90, la produzione afgana crollò nel 2001 a meno di 200 tonnellate. Dopo l’11 settembre e con la nuova guerra al terrorismo, mutarono i rapporti interni ed internazionali di quel Paese e i talebani, nelle aree da loro controllate, allentarono il divieto alla coltivazione dell’oppio che tornò ad essere una delle principali fonti di finanziamento della loro resistenza.
Stando a fonti occidentali, la loro azione di contrasto si sarebbe nel tempo limitata all’uso e non alla produzione e al vero e proprio traffico di droghe, che proseguono indisturbati grazie alla collaborazione fra i capi dei villaggi interessati a quella coltura, le autorità locali e quelle nazionali. Non a caso, uno dei fratelli di Hamid Karzai, ossia Ahmed Wali Karzai sarebbe fra i signori della droga afgani e, per alcuni, anche alle dipendenze della Cia. La roccaforte della famiglia, protetta da qualsiasi ingerenza esterna dallo stesso presidente, si trova proprio nella regione a sud del Paese a più elevata produzione di oppio e di eroina.
Secondo alcuni osservatori, come ad esempio lo storico Douglas Valentine, la guerra in Afganistan sarebbe anche il risultato dello scontro fra due grandi agenzie statunitensi: la Dea, impegnata nella lotta a quel traffico, e la Cia che attraverso suoi emissari proteggerebbe gli apparati politici ed amministrativi afgani che, con i talebani, sostengono quel mercato così remunerativo. Secondo questa tesi, l’oppio afgano avrebbe quello stesso ruolo che le potenze europee e il Giappone gli affidarono per indebolire il prestigio politico ed economico della Cina, fra il XIX e il XX secolo: gli obiettivi ora sarebbero l’Iran, la Russia e le sue ex repubbliche dell’Asia centrale, in un’operazione di penetrazione occulta condotta da Washington per indebolirne la loro portata politica ed economica, smantellandone il tessuto sociale con alti tassi di tossicodipendenza e delinquenza.
Si tratta di una lettura fra le più accattivanti del perdurare della guerra afgana e del gioco di potenza condotto dagli Stati Uniti nell’area: tuttavia, questa versione va ad alimentare ulteriormente l’approccio complottista alle relazioni internazionali. Anche se questa tesi è sostenuta da un’ ampia documentazione, l’azione di contrasto risulta pur sempre alquanto attiva fra organismi sovranazionali e forze militari in campo tanto da vanificare ogni deduzione che ne deriva dalla versione data dai teorici del complotto.
Tuttavia, ampie zone grigie permangono; ma gli attori coinvolti e le trame intessute a livello mondiale sono tali e tante da rendere ben più complessa la lettura del conflitto in Afghanistan.
Senza avere la presunzione di affrontare in maniera esaustiva l’argomento (come, ad esempio, l'altro fronte del traffico di droghe afghane, quello verso la Russia) cercherò di delinearne gli aspetti più inquietanti ed urgenti per la sicurezza.
Senza avere la presunzione di affrontare in maniera esaustiva l’argomento (come, ad esempio, l'altro fronte del traffico di droghe afghane, quello verso la Russia) cercherò di delinearne gli aspetti più inquietanti ed urgenti per la sicurezza.
Un ruolo preminente nella gestione degli oppiacei afghani, e quindi in diretto contatto con i talebani, è svolto dal Pakistan, nell’area tribale della FATA meridionale, ed in particolare dalla regione del Belucistan che confina sia con Iran che Afghanistan e oggetto di attenzione da parte di Pechino per una collaborazione con Islamabad per un più agile accesso cinese all’Oceano Indiano e ai suoi porti marittimi. Il Pakistan – che con la Cina, l’Iran e l’India si contende il primato in Asia del consumo di oppiacei - emerge, quindi, come punto nevralgico del traffico di quelle droghe verso l’Africa, attraverso i suoi porti, e via terra verso quel resto dell’Asia, in particolare la Cina, non coperto dalla produzione di un altro Paese, Myanmar, con cui l’Afghanistan si contende, invece, il primato nella produzione dell’oppio.
In pratica, quanto prodotto nell’Afghanistan sud orientale viene dirottato attraverso il Belucistan pakistano verso l’Iran e verso l’Africa: la regione pakistana diventa così strategica per il controllo di uno dei traffici più redditizi dell’intera regione centroasiatica, ben più remunerativo rispetto, appunto, ai proventi del passaggio del petrolio e del gas.
Il solo fatto di dover dipendere dalla collaborazione con le autorità del vicino Pakistan per tentare di porvi un freno rende l’intera operazione bellica di contrasto al traffico di droghe colma di incognite e, soprattutto, di rischi, come ha già ampiamente dimostrato da tempo la lotta al terrorismo e, in ultimo, l’affare bin Laden. Non vi sono più, infatti, relazioni chiare e stabili fra Islamabad e i vecchi alleati, come gli Stati Uniti: già prima dell’assassinio di Osama bin Laden i rapporti si erano incrinati decisamente a favore di alleanze con altre potenze della regione come la Cina che, al momento, pare essere il partner favorito nei rapporti economici e anche militari, anche se Islamabad si muove agilmente in un’altalena di incontri al vertice fra Pechino e Washington, tanto da lasciare perplessi gli analisti sul futuro della sua sicurezza e di quella dei Paesi vicini.
Il mercato delle droghe, in Pakistan come in molti altri paesi, ad esempio quelli africani, è fiorente proprio grazie alla connivenza fra produttori, trafficanti e autorità politiche e militari di quelle che sono realtà nazionali estremamente instabili, con alti tassi di povertà e corruzione, in cui la buona volontà di chi vorrebbe contenerlo e contrastarlo si riduce ad un estenuante ed illusorio braccio di ferro fra giganti narcotrafficanti e nani impotenti, rappresentati da una minoranza di autorità locali che collabora alacremente con numerosi organismi internazionali e sovranazionali.
Il problema di fondo non solo del fiorire di un redditizio mercato delle droghe, ma del prolungarsi di un conflitto come quello afgano per contrastarlo, è rappresentato, infatti, dall’alto tasso di corruzione che investe gran parte della classe politica di quelle nazioni centroasiatiche, per cui la buona volontà e le buone intenzioni naufragano nel pantano di una guerra lacerante e ormai persa.
Un ruolo determinante nel traffico è svolto, ovviamente, dalle locali organizzazioni criminali, ma anche da quei gruppi terroristici che, con quei proventi dati dalla vendita massiccia di droghe, possono agevolmente acquistare armi e quant’altro necessitano per le loro azioni. Un ruolo dominante in tal senso, stando a fonti soprattutto statunitensi, è svolto proprio dall’Iran e dagli hezbollah, in un arco d’azione molto ampio che parte dall’Iran, appunto, al Libano (Beka’a) e che prosegue verso l’Africa e l’America Latina.
Sempre secondo il rapporto dell’agenzia delle Nazioni Unite, la droga afgana raggiunge, infatti, l’Iran e la Turchia, dove viene lavorata, quindi dirottata verso i Balcani ed infine commercializzata nel resto dell’Europa. L’Iran avrebbe un ruolo decisamente prevalente rispetto al resto dei Paesi, ossia l’89% dell’oppio coltivato in Afghanistan passa attraverso il suo territorio, con il conseguente 41% dell’eroina prodotta al mondo concentrato nei confini iraniani.
Sebbene la droga sia unanimemente riconosciuta dalle autorità religiose musulmane come “non-islamica” e quindi il suo uso sia decisamente da contrastare, al contrario il suo commercio è tollerato perché fra i più redditizi della fazione armata terroristica libanese degli hezbollah, espressione più radicale del potere teocratico iraniano, a cui si affianca il sostegno siriano in Libano. Un ruolo dominante di collegamento verrebbe svolto dalle frange più radicali presenti fra gli espatriati e i dissidenti delle numerose comunità libanesi all’estero, in particolare in Africa, dalla Costa d’Avorio (80mila) al Senegal (10mila), oltre che in America Latina (nella sola Venezuela vi sono oltre 100mila libanesi), e soprattutto nella Tri-Border Area (Paraguay, Argentina e Brasile). Gli introiti (secondo uno studio della Rand sarebbero di circa 20 milioni di dollari annui) verrebbero, appunto, “puliti” attraverso filiali di banche conniventi (come, stando a fonti del Tesoro statunitense, la Lebanese Canadian Bank, LCB,) e destinati al finanziamento dell’azione terroristica degli hezbollah in Libano e Israele.
E’ in questo contesto che emerge prepotentemente l’Africa occidentale che da “Gold Coast” si è trasformata negli ultimi anni nella “CoKe Coast”, ossia il grande snodo del traffico di droghe provenienti sia dall’America latina che dall’Asia centrale e dirette in Europa; in quello che è diventato l’hub africano di droghe si è consolidata negli ultimi anni una forte collaborazione fra narcotrafficanti latinoamericani, criminali locali, terroristi ed élites politiche del luogo.
L’Europa è diventata, infatti, il mercato più redditizio per i narcos latinoamericani, scalzando in parte il mercato statunitense non così proficuo come un tempo, per via dell’indebolimento del dollaro a favore dell’euro, e per questo motivo preferito per il pagamento della droga e nelle relative operazioni finanziarie di ricilaggio.
I mezzi con cui i narcos latinoamericani fanno giungere la coca sulle coste africane si sono diversificati negli anni: fra gli ultimi espedienti vi sono mezzi semisommersi in fibra di vetro – una specie di piccoli sommergibili che navigano appena sotto la superficie dei mari – , con motori diesel alquanto potenti (dai 200 ai 300 hp) e in grado di coprire autonomamente sino a 2000 miglia di navigazione nelle acque dell’oceano Atlantico. Con un equipaggio di 4-5 uomini, partono dalle coste colombiane con il 30% del carico di droga, per essere più veloci in caso di individuazione; poi vengono riforniti nelle acque internazionali sia di cibo e carburante che del resto del carico di droga. Secondo fonti colombiane, il 70% della cocaina verrebbe trasportata verso l’Africa su questi mezzi, dal costo ciascuno dai 500mila ad 1 milione di dollari e in grado di sfuggire ai veloci mezzi della guardia costiera e delle autorità di contrasto al traffico di droga. Infatti, solo il 25% di questi mezzi viene individuato e fermato ancora in acque territoriali.
La coca latinoamericana (con una stima di 50 tonnellate annue) viene indirizzata, quindi, verso il Nord Africa (Marocco) e, da qui, verso l’Europa (Spagna e Italia): la stessa al Qaeda del Maghreb (AQIM) sarebbe coinvolta nella protezione del traffico dell’ultimo tragitto via mare della coca smerciata dai narcos e dalle Farc verso le coste europee.
L’oppio afgano, invece, dopo un passaggio dall’Iran verso in Libano o dal Pakistan verso il Corno d’Africa, con Somalia e Kenya punti di accoglienza e di smistamento, viene tagliato e confezionato, e l’eroina prodotta, viene in parte indirizzata direttamente verso i Paesi europei o in parte verso la Nigeria, il Ghana, il Benin, la Guinea e la Guinea Bissau, e da qui smerciata verso le coste americane.
In questi Paesi si può trovare ogni tipo di droga: oltre all’eroina, anche la marijuana, le anfetamine e le metamfetamine prodotte direttamene in loco. Il pericolo, infatti, per gli utilizzatori finali di questi prodotti è dato proprio dai vari passaggi e dai tagli che sia la coca che l’oppio subiscono dalle aree di coltivazione all’utenza finale: la “purezza” della coca latinoamericana viene ridotta dall’originale 80% al 12%, mentre quella dell’oppio afgano e pachistano scende dal 90% al 16% nel momento in cui lascia il continente africano.
Lo scenario è sempre lo stesso: nazioni povere, instabili politicamente, con rapida ed incontrollata urbanizzazione e con autorità di polizia, di controllo marittimo e doganale insufficienti ma soprattutto corrotte, e in cui il modello economico e sociale di arricchimento rapido ha preso il sopravvento su qualsiasi altra proposta alternativa per lo sviluppo del proprio Paese. La droga rappresenta solo uno dei numerosi traffici illegali, fra i quali quello del greggio “rubato” agli oleodotti della regione, quello dei medicinali contraffatti e degli esseri umani: insomma, i peggiori illeciti i cui proventi vanno per lo più ad alimentare il commercio di armi con le inevitabili conseguenze per la sicurezza e la stabilità di quel continente.
Una realtà che si è imposta negli ultimi decenni partendo dalla tragica situazione economica e politica di un paese come la Nigeria, costretta a sopravvivere con i proventi del mercato del greggio che, nonostante i forti aumenti del prezzo del petrolio, non è più controllato dalle autorità locali ma dai grandi interessi delle multinazionali del settore e impossibilitata così ad attuare veri programmi di sviluppo sostenibile.
Il contatto poi fra nigeriani emigrati in Europa (così come negli Stati Uniti e persino in Australia) e rappresentanti della criminalità organizzata dei vari Paesi – fra cui la ‘ndrangheta calabrese – completa l’arco di produzione, raffinazione e traffico di parte dell’oppio partito dall’Asia centrale e giunto così a destinazione come eroina nei vari mercati di spaccio, in questo caso occidentali, a cui si aggiunge quella proveniente dai Balcani.
Proprio la potenza della criminalità nigeriana avrebbe di fatto avviato ed imposto nel tempo un nuovo modo di aggregazione fra criminali in quella regione africana: non relazioni durature e blindate all’interno di una gerarchia famigliare o di clan – come la criminalità organizzata italiana, dalla mafia alla camorra, o quella giapponese della yakuza – ma un network di joint ventures, con la creazione di un sistema ad alto rischio ma anche di alti profitti. Si è venuta così a creare una partnership fra criminali e terroristi con attività di collegamento transnazionale che annovera più soggetti coinvolti, non solo più esclusivamente nigeriani.
Il ruolo delle organizzazioni terroristiche locali, come l’AQIM, a questo ingente traffico è ridotto all’imposizione di balzelli al passaggio di questo materiale sui territori da loro controllati, in particolare l’Africa subsahariana; è una forma di finanziamento, come la cattura di stranieri e la richiesta del relativo riscatto.
Le aree di transito di queste droghe, attraverso i mezzi più disparati – dai velivoli leggeri alle biciclette - sono infatti quelle a maggior instabilità per via della presenza di gruppi terroristici, come la Mauritania o il nord della Nigeria: la difficoltà nel contrastare la loro azione è dovuta proprio alla complicità fra i vari componenti della criminalità locale (per lo più famiglie, e non tribù come si è portati a pensare) e i gruppi terroristici che, non disponendo di una struttura gerarchica ben definita, controllano vaste aree con particelle molto agili nello spostarsi da una parte all’altra di quell’Africa subsahariana occidentale, rendendo difficoltoso il loro contrasto sia da parte degli organismi antiterroristici che di quelli antidroga.
Dato poi che il transito viene pagato in parte con quantitativi di droga, questa viene poi smerciata a livello locale, aumentandone in modo vertiginoso anche lo spaccio e l’uso, con relativi aumenti di tossicodipendenza, infezione da epatiti e Hiv, e relativo Aids.
Gli introiti più consistenti, invece, vengono reinvestiti in altre attività illecite, in un circolo vizioso che si autoalimenta e prospera a favore non solo delle organizzazioni criminali locali o terroristiche, ma anche dei gruppi di ribelli che, dalla Costa d’Avorio alla Liberia stanno minacciando la sicurezza di parte di quel continente.
Ciò che sta ora preoccupando gli analisti internazionali è che quest’area di Africa si trasformi quanto prima in un nuovo Messico: vi sono le similitudini (come instabilità politica locale, corruzione delle istituzioni di controllo e di polizia, e forte presenza criminale), e sono anche inquietanti, data soprattutto la vastità del territorio coinvolto. Guerre fra bande criminali sono ormai all’ordine del giorno: oltre ai narcos e criminalità locale si sono aggiunti elementi di organizzazioni straniere, come per esempio elementi della ‘ndrangheta nel Togo. Drug wars sono, quindi, ormai consuete, come sta avvenendo in quello che era un tempo il pacifico buen retiro dei turisti nordamericani, ossia il Messico, con i suoi tranquilli centri di villeggiatura come Acapulco, ora disertato per troppa criminalità e violenza. E’ un destino che preoccupa quella parte onesta e sana delle genti di Paesi come Capo Verde, Senegal e Costa d’Avorio, solo per citarne alcuni.
Infatti, la potenza dei boss africani che controllano il traffico delle droghe latinoamericane e asiatiche è tale che costoro hanno già provveduto a garantire a livello locale ciò che i diversi governi centrali non riescono a fornire, come la costruzione di infrastrutture e l’assistenza alla popolazione più povera.
Uno Stato nello Stato che non è certo una novità quando non si è riusciti a far progredire le varie economie nazionali, fra irrealizzabili e penalizzanti programmi di sviluppo proposti dagli organismi sovranazionali e l’ imposizione dall’esterno di élites accondiscendenti e corrotte per nulla interessate al benessere del proprio Paese ma al compiacimento di interessi stranieri.
Afghanistan e Africa occidentale: due realtà così diverse ma accomunate da un unico grande filo rosso che parte dai campi di coltivazione dell’oppio alla raffinazione e allo smercio di droga, passando attraverso una disperata povertà per via di un mancato sviluppo dovuto alle carenze strategiche e programmatiche della comunità internazionale che non ha saputo rispondere, se non a proprio ed esclusivo vantaggio, alle richieste di aiuto di queste regioni del mondo.
Inevitabile che tutto ciò abbia alimentato connivenze criminali fra corrotti rappresentanti politici a tutti i livelli e gruppi terroristici che da decenni dominano realtà fragili e disperate perché in esse vi trovano sostegno, in quanto loro ultima speranza per sopravvivere a lunghi anni di guerre e di povertà. Ciò che più preoccupa, tuttavia, è che non si tratta solo più ed esclusivamente di contrastare un fenomeno criminale, quanto una pericolosa piovra terroristica che unisce al fanatismo ideologico l’ingordigia di guadagni facili che le permettono di prosperare e di agire nei teatri più pericolosi, dal Medio Oriente all’Asia centrale.
Il resto è cosa nota: una guerra, come quella afgana, che dura da troppi anni e scalfita da scarsi risultati pagati a carissimo prezzo. Potenze regionali, come Iran e Pakistan, che giocano con i destini delle genti libanesi, israeliane, palestinesi e di molte nazioni africane, da quelle somale a quelle subsahariane. Di fronte ad uno scenario fra i più preoccupanti e turbolenti per la sicurezza mondiale non possono rassicurare le affermazioni del rapporto delle Nazioni Unite circa la “stabilizzazione” della produzione dell’oppio afgano come risultato di quella guerra per il contrasto al traffico di droghe.
E’ necessario interrogarsi sugli errori che sono stati fatti in passato ma che continuano a permanere nei rapporti fra Occidente e quell’Africa coinvolta in questo scenario di traffici illeciti, e agire per correre ai ripari al più presto: di certo, gli Stati Uniti hanno poco da insegnare al riguardo, data la scarsità dei risultati raggiunti non solo in Colombia, ma soprattutto nel vicino Messico. L’Europa deve, invece, svegliarsi dal suo torpore e dal suo egocentrismo se non vuole rischiare di venir travolta non solo dallo smercio di stupefacenti di ogni tipo ma da ondate di disperati alla ricerca di un’alternativa di vita alla povertà e all’attività criminale e terroristica.
L’individuazione di una sana classe dirigente, attraverso un avvicendamento democratico ed innovatore che sappia creare le basi per nuovi rapporti politici ed economici in grado di risollevare le sorti di quei paesi, che sia l’Afghanistan, il Pakistan o la Costa d’Avorio, piuttosto che la Guinea Bissau, e il relativo supporto finanziario che la comunità internazionale può garantire, sono le uniche vie percorribili a livello sovranazionale. Di certo è necessario che ci sia la volontà politica per fare tutto ciò, anche se il tempo perso negli anni, dalla fine del colonialismo occidentale in Africa o dal più recente sgretolamento dell’impero sovietico in Asia centrale, è così ampio da imporre una corsa faticosa e gravida di incognite per i tanti interessi economici e i relativi soggetti coinvolti.
Tuttavia, non bisogna nascondersi dietro la scusa dell’insormontabilità di una questione già deteriorata dal tempo e dai sempre nuovi protagonisti che si alternano nello scenario della politica economica e di quello della sicurezza centroasiatica e africana, altrimenti si finisce per alimentare ulteriormente le versioni complottiste, come quelle di un Douglas Valentine che attribuisce le responsabilità di tutte le avversità alle connivenze fra terroristi e organi di intelligence statunitensi.
Le cause della sventura afghana sono ormai chiare e i protagonisti pure: lo stesso vale per quella parte di continente africano travolto da traffico di droghe e connivenze dei locali con i criminali latinoamericani, i terroristi islamici e i ribelli di ogni dove di quella parte meridionale del mondo.
E’ nella reazione di contrasto che è necessario cambiare marcia. Bisogna solo prenderne coscienza e agire con coerenza; solo in questo modo il ritiro delle truppe internazionali dall’Afghanistan non sarà colmo di inevitabili e tragiche conseguenze per la sicurezza mondiale e si potranno anche dimenticare i barconi di disperati sulle coste meridionali europee.
Non è un compito impossibile anche se gravoso e irto di difficoltà; di certo, tuttavia, sarà meno penoso dell’accogliere in patria la salma dell’ennesimo militare caduto in quella guerra o di raccogliere in mare i poveri resti di naufraghi, e di riempire poi di incresciosa retorica le telecronache o gli articoli di giornale su questi avvenimenti, subito posti nell’oblio di un’inconsistente presa di coscienza dei veri problemi di quelle aree del mondo.
10/7/2011