Hezbollah in Libano
La difesa della comunità sciita sembra essere, al momento, la priorità della politica estera dell’Iran, in particolare dal 2011 in seguito alle gravi crisi originate dalle rivolte arabe che, dall’illusoria lotta per la democrazia, si sono trasformate nel più concreto scontro fra potenze regionali con buona dose, fra gli altri motivi, di conflitto interreligioso fra sunniti e sciiti. La guerra in Siria e in Iraq, così come i tumulti in Bahrein e ora i conflitti interni allo Yemen, hanno acuito pesantemente la preoccupazione di Teheran nel salvaguardare la popolazione sciita e i suoi interessi dalla violenza dell’ estremismo salafita sunnita delle milizie del Da’ish[1], o ISIS, e dal rischio in vaste aree di infiltrazione e di sopraffazione da parte del qaedismo.
In questa logica di difesa messa a punto dall’Iran di Khamenei debbono essere interpretati i sostanziosi sostegni militari che Teheran garantisce agli sciiti di Damasco, Bagdad e Sana’a, utilizzando lo schema organizzativo ed operativo proprio degli hezbollah libanesi, considerati lo strumento per eccellenza della proiezione di potenza iraniana al di fuori dei propri confini. Gli hezbollah, infatti, da troppo tempo ignorati o sottovalutati dai media e dagli osservatori occidentali, rappresentano un modello di riferimento che è al contempo un’azione armata efficace e un progetto politico ben articolato che si sta ampliando dalla sua regione originaria, ossia il Libano, sino all’Africa occidentale, passando dallo Yemen e il Sudan. Gli hezbollah, nella loro decennale esperienza libanese, sono infatti l’espressione più concreta e ormai collaudata di una strategia di “Stato nello Stato” - che è, ad esempio, anche quella di Hamas - ossia di un movimento con un’organizzazione politica, economica, sociale e militare autonoma interna a una realtà statale, che non disdegna l’intervento armato per perseguire i propri obiettivi, che sono anche di proiezione esterna di una potenza come, in questo caso, quella iraniana.
Per alcuni osservatori, Teheran agirebbe, infatti, attraverso il modello hezbollah per un piano che fu già di Nasser negli anni ‘60 e ‘70 del secolo scorso, ossia porre sotto il controllo del proprio Paese, l’Iraq, la Siria, il Libano e lo Yemen, allo scopo di isolare l’Arabia Saudita come rivale regionale e condurre l’opposizione ad oltranza contro Israele. Per fare ciò, e a differenza di Nasser che agì più a parole che con i fatti, l’Iran starebbe ora operando concretamente, approfittando del caos e dell’instabilità che si sono venuti a creare nella regione, sostenendo forze e milizie ad essa fedeli e puntando su soggetti che agiscano secondo un suo solido piano politico di egemonia.
L’esperienza iraniana al riguardo non manca, come testimonia appunto quella degli hezbollah e del Libano.
L’azione armata degli hezbollah è ormai da manuale: questa che è considerata la “fanteria leggera più specializzata al mondo” si avvale degli insegnamenti tattici dei pasdaran dell’IRCG (Guardie della Rivoluzione Iraniana) e relativi strumenti organizzativi e di supporto, abbandonando ufficialmente come hezbollah l’azione terroristica diretta contro Israele che prosegue, invece, con elementi a loro affiliati noti con l’appellativo generico di “Resistenza Islamica”.
Una duplicità operativa, quindi, che è collaudata e a cui il conflitto siriano ha dato forza regionale e visibilità mondiale, tanto che hezbollah è un qualcosa che per Teheran va oltre l’esperienza di un gruppo armato in Libano, in quanto esso rappresenta un modello da esportare e da adattare alle realtà contingenti più a rischio, con puntuale riferimento al core del suo impegno, ossia la mumana’a (immunizzazione), intesa come tutela della popolazione musulmana dalla “contaminazione” dell’Occidente, che affianca la muqawama (resistenza), la liberazione di tutti i territori libanesi ancora occupati da Israele.
A fare da sfondo a tutto ciò domina la leggenda-mito del Kitab al-Jafr (Il libro di Jafr) scritto dallo stesso Alī ibn Abī Ṭālib (da cui discendono gli sciiti e il loro primo imam), con la sua previsione apocalittica della scomparsa dello sciismo per mano sunnita ed ebraica, a iniziare proprio da una guerra in terra di quella che è ora la Siria, obbligando a intervenire un esercito dall’est (individuato nell’Iran), sino a liberare la stessa Gerusalemme dai nemici dello sciismo.
Indubbio è, infatti, l’apporto della religione e del mito di Jafr all’azione dei combattenti hezbollah nel conflitto siriano, in un mix di richiami alla difesa della “Mezzaluna sciita” – l’area a prevalenza sciita che va dall’Iran sino alla Siria passando dal sud dell’Iraq – e di progetto di egemonia regionale di Teheran, con l’inevitabile accentuazione anche del confronto interreligioso fra le due anime dell’Islam.
Per i miliziani hezbollah, quindi, combattere in Siria non significa soltanto difendere il regime alawita di Assad, quanto anche lottare per la sopravvivenza dello sciismo dall’aggressione di Israele e del radicalismo sunnita salafita, anche a rischio del martirio, come accadde per l’imam Hussein a Karbala (682 dC), a cui fa perenne riferimento l’azione armata sciita.
Il ruolo di hezbollah a fianco delle truppe regolari siriane è cosa ormai nota (battaglie strategiche per le sorti del conflitto come quelle di Qalamoun, Homs, al-Qusayr),tanto da venir considerate le forze di assalto del regime di Assad. Parimenti è noto il loro ruolo strategico nella difesa del Libano dalle incursioni di milizie jihadiste filo-Da’ish o di quelle qaediste di al-Nusra, in particolare nella città enclave sunnita di Arsal, al confine fra i due Paesi, fra migliaia di esuli e traffici illeciti di ogni genere, a conferma dell’ allargamento del conflitto siriano al Libano, già testimoniato da incursioni dell’aviazione di Assad contro ribelli rifugiati in quel territorio. Oltre a quello siriano-iracheno, questo è, di fatto, il confine più violabile e violato dell’intera regione: e da ciò trae giustificazione la partecipazione degli hezbollah nel conflitto siriano, sebbene contro la linea ufficiale del governo libanese di dissociazione da esso.
La debolezza delle forze militari libanesi a fronte dell’avanzata di quelle jihadiste e qaediste dalla Siria – con azioni terroristiche e attacchi suicidi anche nella stessa Beirut – e con la riattivazione di cellule salafite in Libano come risultato delle vittorie sul campo di Da’ish, non permettono, tuttavia, di sindacare sul notevole appoggio strategico di hezbollah alla difesa del Paese dei Cedri. Ciò comporta inevitabili preoccupazioni, soprattutto per Israele, circa il rafforzamento politico e militare degli hezbollah che vantano anche una rappresentanza nel Parlamento libanese, una politica sociale vasta e ampiamente condivisa e, di conseguenza, il relativo supporto popolare anche non esclusivamente sciita che potrebbe però tradursi in consenso politico.
Non è un caso, infatti, che a fronte del caos politico imperante in vaste aree, soprattutto in Iraq, e del rischio di cadere nelle mani dei fanatici del Da’ish per la mancanza di sicurezza, si preferisca l’intervento anche di milizie sciite decisamente filoiraniane. Hezbollah, infatti, e come accennato all’inizio, stanno diventando un modello che va ben oltre l’originale presente ora nello scenario siriano e libanese; sono il riferimento per l’azione armata e la protezione delle comunità, con relativo intervento nel sociale, per molte milizie sciite irachene nate nella regione attorno a Bagdad e già più volte intervenute a difesa dei grandi centri urbani sciiti ma anche sunniti. L’istituzione di queste milizie sciite è, infatti, la risposta alla caduta di Mosul del giugno scorso in mano al Da’ish, a cui è seguita la fatwa dell’autorità suprema sciita irachena Ali Sistani che chiamava i propri fedeli a difendere il Paese e i suoi luoghi sacri.
D’altronde la debolezza delle forze regolari irachene è cosa ormai nota, a cui contribuiscono vari fattori fra i quali le forti diseguaglianze fra comandi e truppe, come espressione delle divisioni religiose ma anche e non meno importante, secondo alcuni osservatori, il fatto che siano state organizzate, addestrate e gestite per un decennio da comandi militari stranieri, soprattutto statunitensi, ora non più presenti sul territorio con ruolo attivo. Ne è nato un vuoto nel coordinamento e nel comando che ha portato allo sbando le forze regolari irachene: ciò sarebbe espressione non solo di una mancanza di visione strategica globale militare, ma soprattutto politica da parte dell’amministrazione statunitense, lasciando di fatto ampi spazi d’azione a forze regionali, come appunto l’Iran.
Ciò che viene poco o mal diffuso dai media è, infatti, l’apporto militare di Teheran a questo conflitto, in cui i vertici delle forze speciali Quds dell’IRCG, in particolare il loro comandante, gen. Qassem Suleimani, stanno giocando un ruolo attivo e risolutivo in molte aree dell’Iraq, riproponendo il modello hezbollah libanese attraverso la costituzione e l’addestramento di proxy militias (milizie per procura) con relative forniture di armi, munizioni e uniformi.
Lo stesso era già accaduto nel 2012 in Siria.
Siria e Iraq
Fin dal suo inasprimento, l’Iran comprese che il conflitto siriano non avrebbe comportato l’utilizzo di grandi manovre da parte di eserciti convenzionali, ma piccole unità estremamente mobili sul territorio: da qui la decisione (primavera 2013) di addestrare tramite hezbollah i membri del gruppo siriano paramilitare alawita Shabiha che affianca le forze regolari siriane, e ora composto all’incirca da 40mila unità, con anche elementi sciiti iracheni che si spostano da uno scenario all’altro di quello che è ormai un unico grande conflitto dalla Siria all’Iraq. Alle truppe Quds è delegata, invece, sebbene non ufficializzata da Teheran, l’azione risolutiva sul campo contro il Da’ish, a fianco dei combattenti regolari sciiti iracheni o dei peshmerga curdi.
La funzione ufficiale degli hezbollah nell’area irachena è esclusivamente quella di consiglieri delle unità sciite appoggiate dall’Iran, tutte forgiate già nel corso del conflitto siriano, come l’ Asa’ib Ahl al-Haq (AAH), la Saraya al-Difa’ ash-Sha’abi, la Badr, la Saraya al-Khorasani, la Kata’ib Sayyid al-Shuhada e l’Harakat al-Nujaba e alcune, come la Kata’ib Hezbollah già ampiamente utilizzata contro le truppe statunitensi durante il decennio di occupazione dell’Iraq.
Non solo azione militare, però: secondo alcuni osservatori queste proxy militias sarebbero destinate a diventare strumento centrale dell’influenza iraniana nella regione, a partire proprio dall’Iraq, come gli hezbollah in Libano, appunto. Ciò giustifica concretamente il loro ampio foraggiamento da parte di Teheran non solo per le sorti del conflitto in corso, ma anche per garantirsi in futuro la fedeltà dei governi di Bagdad, che si auspica siano sciiti.
Ciò avviene anche perché in Iraq sono presenti altre milizie sciite non legate all’establishment religioso attualmente al potere in Iran (come la Saraya al-Salam, Liwa al-Shabab al-Risali, Saraya Ansar al-Aqeeda per citare le più importanti) ciascuna afferente addirittura a personalità religiose in contrasto fra loro, a testimonianza delle grandi divisioni anche all’interno del mondo sciita. Da qui la necessità di Khamenei di ampliare il suo ombrello protettivo sull’azione armata sciita nello scenario iracheno e siriano con il modello hezbollah libanese, premendo per un loro ruolo non solo militare ma anche di rappresentanza politica e di operatività aggregativa nel sociale.
Per permettere che ciò si avveri, Teheran ammette anche il contrasto fra le varie milizie sciite irachene, in modo che ciascuna non si rafforzi al punto tale da mettere in discussione la leadership dell’Iran sulla comunità sciita e i suoi relativi progetti, o addirittura di allearsi con i suoi nemici.
Per evidenziare il suo ruolo di nazione leader della lotta dello sciismo contro il violento salafismo del Da’ish, Teheran conduce anche una campagna molto attiva di propaganda mediatica, sebbene oscurata in Occidente, che vede protagonista proprio il gen. Qassem Suleimani ripreso a fianco di peshmerga o degli sciiti turkmeni o altri combattenti iracheni, come a confermare la sua guida personale sui campi di battaglia e la potenza dell’ IRCG come espressione concreta della proiezione della rivoluzione iraniana oltre i suoi confini originali. Tutto ciò contribuisce a far nascere paradossi propri di quella guerra che vede Suleimani, il massimo generale iraniano gli ordini diretti della persona di Khamenei, combattere il Da’ish che egli considera una creatura voluta e sostenuta dagli Stati Uniti, e vincerlo grazie alla protezione aerea della coalizione guidata proprio da Washington. L’effetto propagandistico di tutto ciò presso gli sciiti e l’intero mondo che guarda all’Iran come potenza regionale, è unico e indiscutibile.
23/12/2014
[1] Le definizioni Daesh, Daish o più esattamente Da’ish, dalle iniziali delle parole al Dawal al Islamiya fi Iraq al Sham, Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (o della Siria), sono preferibili a ISIS o Stato Islamico per una scelta politica ben precisa, in quanto a fronteggiarsi sono anche due visioni dell’Islam e si vuole evitare di abusarne, per non dare al termine “islamico” una connotazione negativa. Da’ish è utilizzato anche nel mondo arabo e in Iran, con un suono e una accezione negativi perché il termine Daw’aish significa «bigotti che impongono la loro visione delle cose agli altri».
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