A parlare di combattenti ceceni siamo in pochi, soprattutto fra gli analisti. Di questi guerriglieri e terroristi del Nord del Caucaso importa poco o niente, perché la Cecenia è lontana, geograficamente così come nei ricordi della strage di Beslan e perché c’è la (falsa) convinzione che la sua guerra per la totale indipendenza da Mosca sia ormai finita con la vittoria della Russia. Eppure la sua eredità è uno degli elementi più strategici negli attuali scenari di sicurezza occidentali, con implicazioni geopolitiche eccezionali che solo rigidi schemi analitici non permettono di comprendere appieno.
Il “ceceno”, infatti, è ormai quasi un brand che definisce quel combattente musulmano del Nord del Caucaso che non proviene più esclusivamente dalla piccola nazione federata della Cecenia ma che, dalla sua travagliata storia di guerra contro la Russia postsovietica degli ultimi decenni del secolo scorso, ha avuto origine, si è forgiato, rafforzato e, in apparenza, si è arreso, anche se in realtà si è solo immolato in altri scenari di lotta armata. E proprio nel suo inserirsi in un contesto di guerra ad oltranza contro quel che considera il grande nemico, ossia il governo centrale di Mosca, la guerriglia cecena ha attirato verso sé elementi provenienti dalle regioni vicine come il Dagestan, l’ Ingushetia e la Kabardino-Balkaria, oppure si è trasferita altrove, come in Afghanistan, Iraq, Libia e ora in Siria, dimostrando una capacità di adattamento operativo e una rete di collegamento che non possono e non devono essere sottovalutate.
La guerra di Grozny, infatti, si è solo trasferita altrove, perché se il premier ceceno Ramzan Kadyrov riesce a tenere a freno la violenza sul suo territorio è esclusivamente per via dell’ accordo da oligarca mafioso che ha stretto con il Cremlino: un premier, ex Capo dei Servizi di Sicurezza, con un proprio esercito privato (la milizia Kadyrovsky, appunto, creata dal padre, assassinato nel 2004) che agisce con dura repressione contro gli oppositori (o indipendentisti, suoi ex compagni di lotta) e soprattutto con chi vorrebbe che quella guerra, contro la Russia e per l’indipendenza cecena, continuasse. Un oligarca che a volte imbarazza persino Mosca, di cui utilizza abbondamene i fondi inviati per il suo Paese per spese personali e del suo entourage, ma che serve per la realpolitik russa in una regione tormentata, come il Caucaso, che a febbraio 2014 ospiterà i giochi olimpici invernali di Sochi, una vetrina mondiale per la Russia di Putin. Di fatto, non saranno né le cerimonie di rito né la grandiosità degli impianti dei giochi a svelare l’importanza di Mosca, quanto la questione sicurezza che ruota attorno a quell’avvenimento: a fronte di 50 miliardi di dollari di investimenti in strutture e per l’evento, il governo centrale russo ha in preventivo una spesa di 3 miliardi di dollari solo per la sua sicurezza, viste anche le informazioni allarmanti provenienti dai propri servizi segreti e che riguardano, appunto, i jihadisti ceceni. Per l’evenienza vi è anche un accordo congiunto fra agenzie di intelligence e dell’antiterrorismo russe, statunitensi e persino britanniche, un chiaro segnale di opportunistico riavvicinamento dopo il gelo nei rapporti fra Mosca e Londra per l’affare Litvinenko del 2006.
Tuttavia, a rischio di attentati non sarebbero tanto le cittadine di Sochi, Krasnaja Poljana e Adler, che ospiteranno i giochi e per questo già fortemente messe in sicurezza, quanto quella Volgograd già sconvolta, il 18 ottobre scorso, dall’azione kamikaze di Naida Asiyalova, una donna musulmana del Dagestan che si è fatta esplodere in un autobus, uccidendo 6 persone e ferendone 37. Perché se la Cecenia e i suoi guerriglieri sono tenuti sotto stretto controllo poliziesco da Kadyrov, il vicino Dagestan ne ha accolti parecchi, è oggetto di proselitismo jihadista e soprattutto ne sta subendo le drammatiche conseguenze, sia per via della repressione del governo centrale sia per l’aumento delle azioni terroristiche.
Il Dagestan è la provincia più meridionale della Russia, al confine con la Cecenia, appunto, e i due Stati indipendenti della Georgia e dell’Azerbaijan: ha 3 milioni di abitanti, a maggioranza musulmana che, fino alla politica di ri-centralizzazione della prima presidenza di Putin (ossia un ritorno alla nomina del Presidente di quegli Stati federati direttamente da parte del Cremlino) è sempre stata una provincia relativamente tranquilla. Tuttavia, dopo la “riappacificazione” cecena, il Dagestan è diventato, a tutti gli effetti, il fronte più caldo della guerra del Cremlino contro la sua minaccia terroristica jihadista decisa a creare quel Califfato del Caucaso del Nord a forte ispirazione salafita e per la sharia. E si tratta di vera e propria guerra: dal 2009 ad ora si sono registrate, solo in Dagestan, 350 azioni terroristiche, con centinaia di uomini delle forze dell’ordine uccisi (90 solo quest’anno), accanto a giudici, magistrati e religiosi moderati. Fra Cecenia e Dagestan, nel 2012 e per mano di terroristi, vi sono stati 700 morti e 525 feriti, mentre nei primi sei mesi del 2013, rispettivamente 232 e 253.
L’agenda dei militanti jihadisti ceceni in Dagestan va, però, dall’islamismo puro salafita (frutto del ritorno di molti giovani dalle madrasse del Medio Oriente, in particolare saudite, come i due fratelli Tsarnaev responsabili dell’attentato di Boston dell’aprile scorso) sino alla vendetta personale e al racket per traffici loschi, in cui le rivendicazioni religiose si mescolano agli interessi dei politici locali, in una serie di dinamiche di potere molto complesse e che rappresentano la vera sfida per le autorità russe.
Inoltre, a differenza degli anni ’90, non si tratta più di gruppi corposi, composti allora da 400-500 unità, ma di cellule (3-4 componenti), con un’aspirazione nazionalista-religiosa già presente, addirittura, nella Russia del XIX secolo che, per alcuni storici, fu la causa proprio della fine del grande impero russo. Ora, l’influenza dapprima wahabita poi sempre più radicale, e i relativi effetti di una politica di stretto contrasto da parte di Mosca, hanno permesso quell’espansione della base sociale della lotta jihadista che non riguarda solo più le province della Cecenia e del Dagestan, ma anche il territorio di Stavropol sino a raggiungere la stessa capitale russa, passando per l’ Ingushetia e la Kabardino-Balkaria. Si tratta, quindi, di un fenomeno parcellizzato, non da grandi numeri, ma estremamente invasivo e pernicioso che necessita di misure anticrimine e antiterrorismo propri di una guerra con ampio uso di polizia segreta. Ciò si è reso necessario dopo il fallimento del metodo utilizzato dal presidente Medvedev, ossia del cercare il dialogo fra gli esponenti musulmani più moderati e quelli più radicali, con il drammatico epilogo di 4 religiosi assassinati e lo sconfinamento di elementi armati estremisti in Georgia, come provocazione a Mosca e al suo tentativo di avvicinamento di entità troppo diverse.
La campagna antiterrorismo di Putin in Dagestan ha, infatti, subito un forte giro di vite dal luglio scorso, quando il guerrigliero ceceno Doku Umarov, già autoproclamatosi più volte presidente della repubblica cecena dell’Ichkeria, con un video messaggio, ha ordinato ai suoi uomini di utilizzare la massima forza per sabotare i giochi olimpici di Sochi. Da allora si sono susseguiti prelievi forzati da parte della polizia di attivisti politici, veri o presunti fiancheggiatori dei jihadisti (la maggioranza poi scomparsi definitivamente, e non vi è una conta certa), di religiosi estremisti delle madrasse, molte delle quali ora chiuse, sino a giungere alla schedatura dei loro studenti (foto e impronte digitali), così come del DNA di donne (soprattutto se vedove di militanti) considerate islamiste fanatiche, al fine di poterle identificare in caso di azione suicida e per rivalersi sui famigliari, con la distruzione delle loro case sino alla mancata restituzione dei resti e, come previsto ultimamente, anche con il risarcimento in denaro dei danni provocati nell’attentato. Ciò fa sì che una volta decisa la militanza jihadista, costoro si allontanino volontariamente dalle famiglie, dedicandosi totalmente alla lotta armata ma, di conseguenza, frantumando ed indebolendo le rispettive comunità.
In effetti, il fenomeno delle c.d. black widows, riapparse dopo le azioni al teatro Dubrovka di Mosca (2002) e di Beslan (2004) – in 13 anni 49 attentati suicidi in Russia, con 780 vittime - sta diventando un’altra spina nel fianco della politica di sicurezza russa. Si ebbe notizia delle loro prime azioni già nel 1999, in Cecenia, ma si è registrato un balzo in avanti eccezionale dopo il 2010, con vedove di militanti provenienti proprio dal Dagestan, discriminate dalla stessa famiglia d’origine e con grandi difficoltà ad integrarsi in una società ad alto tasso di disoccupazione e corruzione. L’affiliazione a gruppi jihadisti da parte di queste donne si rivela essere una soluzione estrema ma anche risolutrice di problemi di sostentamento: a loro, peraltro, viene riconosciuto un ruolo importante nel reclutamento di giovani così come nella raccolta di fondi per la lotta armata.
I giovani sono infatti il punto più debole nell’intera struttura economica e sociale del Nord del Caucaso: in Cecenia, a fronte di una forte disoccupazione, la corruzione degli apparati statali e l’ampia diffusione della criminalità organizzata che gode dell’appoggio di parte dell’establishment centrale, alla maggioranza dei giovani che non entra a far parte della privilegiata milizia di Kadyrov non rimane che la guerriglia islamista o l’attività criminosa, che pare essere l’unica occupazione veramente redditizia della piccola repubblica.
Il proselitismo, invece, trova terreno più che fertile in Dagestan, ossia in una provincia anch’essa con forti livelli di disoccupazione e alta corruzione, dove l’islamismo rappresenta l’unica arma contro la miseria e le ingiustizie sociali: gli stessi imam ottengono forti erogazioni da finanziatori per lo più dei Paesi del Golfo, vicini al jihadismo e alqaedismo, ossia gli stessi che hanno poi portato i guerriglieri ceceni sui fronti caldi afgano, iracheno, libico e, da ultimo, quello siriano.
Tutto ciò sta andando a minare quella complessa rete di rapporti tribali e clanici, organizzata in comunità o djamaats, e proprie del Dagestan, a fondamento sociale di quella provincia, e che aveva permesso alle élites al potere una certa continuità nel passaggio dall’era sovietica a quella postsovietica, favorite anche da una Costituzione con una equilibrata divisione dei poteri e un ampio grado di autonomia dei leader locali nel gestire i propri affari interni, con il pieno supporto delle tradizionali istituzioni islamiche.
Questo equilibrio sociale è ora fortemente minato per il rischio di uno spostamento politico verso rappresentanti religiosi ed estremisti - non essendoci alternative affidabili - a causa del clima di terrore e di repressione che ne è la diretta conseguenza. Da tutto ciò deriverebbe, nell’intero Dagestan, un aumento vertiginoso del sentimento popolare antirusso e il rischio concreto di uno slittamento verso un feudalesimo politico e sociale pericoloso in quell’ area molto strategica per interessi economici e geopolitici, e non solo regionali, visti i corridoi energetici passanti in quell’ ampia area e di potenziali conflitti (Armenia-Azerbaijan).
Se le forze di sicurezza russe, con polizia e uomini dell’ FSB (ex Kgb) combattono i “ceceni” nei boschi e nelle zone montagnose della Cecenia, nelle regioni vicine li combattono anche nei villaggi e nelle città, dimostrando chiaramente la netta distinzione dei due fenomeni terroristici, ossia quello della jamaat cecena e quelli dei restanti gruppi del Nord del Caucaso.
Ma vi è un’ulteriore distinzione: l’organizzazione con a capo Umarov combatte ancora per la Cecenia e per quel sogno di Califfato che sembra sfuggirli, e nega per questo ogni coinvolgimento dei suoi uomini sia in azioni come l’attentato di Boston (di matrice jihadista individuale e del tutto spontanea), sia nella guerra in Siria dove, invece, paiono dominare i “ceceni” del Nord del Caucaso più interessati ad abbattere Assad che per il jihad nelle loro regioni d’origine. Per alcuni osservatori sembrerebbe quasi uno scambio di “favori” fra combattenti siriani e ceceni, dato che parecchi jihadisti siriani andarono a combattere in Cecenia durante la guerra contro Mosca. Proprio a costoro vennero attribuite le responsabilità di numerosi attentati nella capitale, così come in numerose altre città russe, proprio negli anni delle guerre cecene. Insomma, il nemico comune esiste, ed è il governo centrale russo al cui controllo la guerriglia cecena spera di staccare la propria patria di provenienza, così come, in Siria, spera di indebolirne l’appoggio al regime di Assad.
Secondo i servizi russi dell’ Fsb la minaccia “cecena” ai Giochi olimpici deriverebbe proprio dal ritorno di costoro dalla Siria, con l’addestramento e l’esperienza acquisita a fianco delle forze alqaediste attive in quel conflitto; si teme, infatti, il loro rientro in Dagestan, inteso come base operativa, e da quella provincia il loro spostamento verso il resto del Nord del Caucaso, con il possibile sostegno di una decina di gruppi islamisti che sarebbero già stati individuati e a cui si sta attivamente dando la caccia. Il numero dei “reduci” dalla Siria oscillerebbe dai 400 ai 1200, anche se le cifre sono del tutto ipotetiche.
Infatti, fra i “ceceni” occupati nel conflitto siriano, e di cui si ha notizia certa, spicca il gruppo Jaish al-Muhajireen wal-Ansar, alla cui testa vi è Tarkhan Batirashvilki, conosciuto come Abu Umar al-Shishani, protagonista nel settembre 2012 della battaglia di Aleppo: vi appartengono 1700 membri, uomini ma anche donne, metà ceceni e il restante azeri, georgiani e daghestani. Vi sarebbero, inoltre, circa 800 guerriglieri vagamente definiti “ceceni”, non inquadrati in gruppi precisi, e che rappresenterebbero una delle forze straniere più importanti in territorio siriano. Non da meno, comunque, si ha anche notizia della presenza di 400 mercenari russi, reduci dalle guerre in Cecenia e decisi a fronteggiarsi con i vecchi nemici di un tempo.
Il flusso di “ceceni” verso la Siria sarebbe passato prima dall’aeroporto di Mosca verso i Paesi arabi, soprattutto del Golfo Persico, mentre nell’ultimo anno, secondo l’Fsb, si sarebbe registrato un altro pericoloso fenomeno che vede, invece, protagonista l’Europa, in particolare la Germania, seguita a ruota dalla Polonia.
Nella forte immigrazione russa verso la Germania, infatti, vi sarebbe una considerevole componente proveniente dalla Cecenia: nel solo 2012, 3200 cittadini russi hanno chiesto asilo politico in territorio tedesco, di cui il 70% di origine cecena. Già nei primi sei mesi del 2013 il trend si è triplicato: a luglio, il 90% dei 10mila russi emigrati era di origine cecena. Fra questi sarebbero già stati individuati almeno 200 elementi considerati “estremisti violenti” da parte del Bnd, i servizi di sicurezza tedeschi. L’attenzione da parte di Berlino aveva raggiunto livelli elevati già nel maggio scorso, nel momento in cui, attraverso intercettazioni da parte dell’Fsb, di telefonate degli uomini di Umarov, era stata scoperta l’eventualità di operazioni “cecene” in Germania. Da lì, l’allerta ai colleghi tedeschi. Lo stesso trend migratorio è stato registrato anche in Polonia, in particolare, da Varsavia, da cui i “ceceni” giunti da Mosca, si sposterebbero verso la Germania.
E’ evidente, quindi, quanto sia necessario rimarcare, ancora una volta, il forte rischio che tutto ciò comporta per la sicurezza di molti Paesi europei: il pericolo “ceceno” incarna in pieno quella transnazionalità ormai propria del fenomeno terroristico di matrice islamica che ha vecchi conti in sospeso con potenze come la Russia, che gode dell’appoggio di nuove potenze come l’Arabia Saudita (sarebbe stato proprio il principe bin Sultan a proporsi a Putin come garante contro il rischio dei jihadisti ceceni ai Giochi, dimostrando di possedere così relazioni privilegiate con costoro, se non addirittura il loro diretto controllo) e persino dell’antagonista, ossia il Qatar (già a suo tempo finanziatore delle guerre in Cecenia attraverso fondi caritatevoli musulmani con sede a Doha).
Ecco che il pericolo “ceceno” e le sue minacce, che provengano dalle montagne del Dagestan o dal conflitto in Siria, non possono e non debbono venir sottovalutati e meno che mai considerati solo ed esclusivamente un problema della Russia e del suo presidente. La mutevolezza nei rapporti di forza fra potenze, siano europee o di altri continenti, e la facilità di spostamento di elementi pericolosi ma soprattutto addestrati e determinati, alla luce di conflitti mai conclusi, come quello ceceno così come quello siriano, debbono far riflettere maggiormente sui possibili rischi a cui vanno incontro intere comunità. La vigilanza sui flussi migratori, infatti, è il primo elemento su cui deve puntare la politica di sicurezza di un Paese, soprattutto europeo, mentre a chi vive direttamente, sulla propria pelle, l’offensiva terroristica, come il Dagestan e le altre province russe, e il relativo, forte contrasto da parte del governo centrale, spetta la dura sopportazione dai tempi dolorosamente dilatati, prima che si giunga alla loro pacificazione e stabilità.
La minaccia “cecena” non è sottovalutabile in alcun modo e in nessun luogo: la sua ferocia e determinazione hanno aspetti macabri e terrificanti, come ha avuto modo di provare il giornalista Domenico Quirico quando, ostaggio in Siria di un gruppo di guerriglieri ceceni, è stato testimone dello sgozzamento di un membro della polizia militare siriana, preso prigioniero e torturato. Il commento dell’assassino, rivolto al giornalista italiano, è stato raggelante: “Adesso sai cos’è la guerra, compagno: tenace costante violenza. Uccidere, punire, costringere, pulire. Questa è la vita”. A un tale approccio alla lotta e alla resistenza, proprie di quelle esistenze, non vi sono analisi esaurienti e commenti più esplicativi.
2/12/2013
Foto NewsTeam/AP
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