Nel Vicino Oriente le tinte indefinite, per intenderci quelle pastello, non hanno alcun senso: se si potesse, infatti, illustrare in un quadro la situazione politica di quella regione, da almeno cento anni ma ancor più negli ultimi venti, le pennellate sarebbero grandi, sovrapposte e, soprattutto, dalle violente tonalità, in grado di mischiarsi e creare altri colori, sempre accesi e mai tenui. E meno che mai sarebbe in bianco e nero. Inutile forzare: lo stridente contrasto che esisterebbe in uno scenario espresso con toni impalpabili e insieme accesi sarebbe, infatti, identico a quello di un orrendo quadro disarmonico, irregolare, sproporzionato e incoerente, insomma brutto.
Purtroppo, però, quel dipinto esprimerebbe ciò che accade nella quotidianità di molti Paesi del Vicino Oriente nei loro rapporti con l’Occidente da cui dipende, tuttavia, la sopravvivenza di milioni di persone, da Bagdad a Damasco, da Gaza a Tel Aviv, da Amman a Beirut. Infatti, le stonature di un orribile quadro che si vorrebbe realizzare a tinte tenui e nel contempo forti, sono pari a quelle del comportamento proprio della comunità internazionale che, da un lato, invia aiuti umanitari e chiede la pace e la stabilità regionale e, dall’altro, interviene a spot con rifornimento di armi alle fazioni in guerra o con azioni militari tardive, senza una cornice strategica unitaria e coerente che definisca chiaramente i soggetti, i loro ruoli e le relative responsabilità.
Le dichiarazioni dell’ex Segretario di Stato Hillary Clinton contro l’amministrazione Obama sul mancato intervento americano nella guerra in Siria e la relativa degenerazione che ne è seguita, da cui hanno tratto origine e forza elementi come l’ISIS e relative tragedie umanitarie, è una delle tante espressioni di tale contraddizione. Alzare la voce tardivamente di fronte ai massacri dell’ISIS, quando si è stati propugnatori entusiasti e al contempo presenze altalenanti e registi eccessivamente cauti nelle vicende da cui tutto ciò ha avuto origine, ossia le rivolte del 2011 e delle guerre che ne sono seguite al loro fallimento, significa accentuare quel contrasto che non rende più credibili gli Stati Uniti e l’Occidente di fronte agli occhi dei vicini mediorientali.
La cautela prima o addirittura il distacco, anche a fronte di un anno di attentati terroristici che hanno fatto oltre 9mila morti nel solo Iraq, e ora l’invio di limitate forze militari davanti ai massacri degli iazidi iracheni, la tiepida soluzione “diplomatica” delle armi chimiche siriane a fronte di oltre 190mila morti per armi di tutt’altro tipo, con un conflitto che è continuamente a rischio di debordare anche in Libano e Giordania, il supporto a un Khalifa Haftari libico in sostituzione del governo di transizione e ben presto fatto sloggiare e poi messo a dura prova da milizie armate più determinate, agguerrite e sanguinarie, sono solo alcune delle espressioni più evidenti ma stonanti che fanno comprendere che non bastano la retorica e gli sguardi commiserevoli dai giardini della Casa Bianca di fronte al caos che domina quell’ampia regione dal 2011.
Gli Stati Uniti hanno perso, infatti, l’ennesima opportunità non di fare i “poliziotti del mondo” e “farsi carico dei drammi dell’intero pianeta”, ma di dimostrare di essere una nazione con una leadership vera, concreta e pragmatica, in grado di imporsi su controversie complesse, fornendo linee guida e supporto politico, economico e diplomatico reale a classi dirigenti in divenire di nazioni da sempre orfane di quel confronto dialettico politico, proprio delle vere democrazie, per cui sono fragili e inesperte.
Ed è una responsabilità degli Stati Uniti e dei suoi alleati europei che risale già all’indomani della prima guerra del Golfo del ’91, i cui effetti deleteri si sono accentuati con i gravi errori nel corso della lunga guerra in Iraq iniziata nel 2003 (come lo smantellamento delle forze armate e di sicurezza irachene voluto da Paul Bremer, o il non proseguire nella mediazione fra le diverse componenti etniche) sino alla scelta statunitense di ritirare le proprie truppe in una fase di caos della regione in seguito alle rivolte arabe e quando si stavano già manifestando le forti spaccature di quei Paesi su elementi contradditori tradizionali, come le rivalità territoriali, quelle tribali e le intolleranze religiose. Un copione tutto errato, ripetuto anche in Libia.
Illusorio, addirittura demenziale, pensare di lasciare al loro destino conflittuale regioni così strategiche anche solo per le forniture energetiche e, data la vicinanza geografica, per le questioni di sicurezza dell’Occidente. Non c’è da meravigliarsi che tutto ciò abbia finito per alimentare voci di complotti di nebulose regie occulte. Tutto stonato, disarmonico e incoerente, e dalle drammatiche conseguenze che conosciamo.
Se gli obiettivi per il Vicino Oriente da George W. Bush ad Obama erano la guerra al terrore dopo l’11 settembre e il contenimento dell’influenza e della minaccia dell’Iran nella regione, sembra evidente che qualcosa non ha funzionato.
Per quanto riguarda il primo obiettivo, a fronte di due guerre contro la base del terrore qaedista (Afghanistan, con l’estensione ad operazioni mirate nel Waziristan pachistano) o contro chi ne è stato complice (Iraq), al-Qaeda si è solo trasformata, superando innumerevoli crisi interne e regionali, con una leadership ancora in grado di influenzare gruppi affiliati in zone estremamente calde come la Siria (al-Nusra) e lo Yemen (base di quell’al-Qaeda nella Penisola Arabica, la cui influenza si estende alla rete Jamal egiziana, all’ Ansar al-Sharia libica e a quella tunisina, sino al somalo al-Shabaab, per citare i più attivi). E nello stesso Iraq, al-Qaeda ha fornito basi, istruzione al combattimento e linee guida strategiche e tattiche a quel suo affiliato che è stato l’AQI, da cui proviene l’ISIS.
Con l’Iran non è andata e, soprattutto, non sta andando meglio. Anzi. Se l’obiettivo era contenere la sua importanza, bloccandone l’influenza nell’area come potenza, dai fatti siriani a quelli iracheni, l’Iran sta di fatto dimostrando di avere maggior global perspective dei suoi tradizionali nemici, ossia i regnanti dei Paesi del Golfo. Costoro, infatti, dallo scoppio della crisi siriana ad oggi, sono intervenuti in funzione anti-Teheran, con i noti sostegni ai ribelli anti-Assad e trovando compattezza solo nel fronteggiare le rivolte della minoranza sciita – sulla scia delle primavere arabe – in Bahrein, nella regione saudita di Qatif e in Yemen, utilizzando il Peninsula Shield, ossia la forza militare congiunta del Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC), a cui appartengono Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi, Kuwait, Oman, Bahrein.
Il fatto che quei Paesi, con Arabia Saudita in testa, si siano concentrati sul contenimento dell’Iran, foraggiando ampiamente nella guerra siriana elementi come Jabat al-Nusra, alleato dell’ISIS, senza essere in grado di indirizzare l’azione di quest’ultimo, limitarne la sua espansione in un’ottica di strategia più globale, ha di fatto permesso di incrementare sostanzialmente il radicalismo sunnita in funzione anti-sciita ma, al contempo, ha distratto quei governi dalle imprese dello stesso ISIS, in fase espansiva cruenta e vittoriosa sui fronti siriano e iracheno. Di conseguenza, quello che poteva essere uno strumento per contrastare l’Iran nello scenario siriano, ossia il sostegno a gruppi armati di matrice sunnita, sta finendo per rivelarsi una pericolosa minaccia in grado di destabilizzare l’intera regione, senza peraltro che lo stesso GCC abbia la compattezza interna in grado di resistere alle conseguenze di quanto sta accadendo.
Nel giugno scorso, quando era stata conquistata dalle forze dell’ISIS la provincia di Anbar e Bagdad era a rischio, lo stesso Iran era stato chiamato a intervenire a sostegno dell’Iraq dall’allora premier Nuri al-Maliki, dopo che questi aveva invano chiesto a Washington un supporto militare che andasse oltre i consiglieri e gli addestratori militari. L’invio da parte dell’Iran dei pasdaran di al-Quds e del gen. Qasim Sulaimani a Mosul e il dispiegamento di uomini lungo i confini fra le due nazioni avevano fatto ottenere a Teheran più una vittoria dalla valenza politica di lungo periodo per le sorti della regione che quella tattica di breve per l’andamento di quel conflitto.
La stessa dichiarazione di Rouhani, che faceva prevedere una possibile collaborazione dell’Iran a fianco degli Stati Uniti contro la minaccia dell’ISIS, dimostrava la risolutezza dell’Iran a supportare l’inetto e corrotto al-Maliki - sebbene gli avesse già tolto il proprio sostegno alle ultime elezioni - anche a rischio di farsi coinvolgere in un conflitto diretto a difesa degli sciiti, ma rimarcando il fatto che da mesi Maliki chiedeva inutilmente a Washington forniture militari che gli avrebbero permesso di fronteggiare l’avanzata dell’ISIS. Una richiesta su cui l’amministrazione Obama temporeggiava pericolosamente, avendo scelto il disimpegno nello scenario iracheno dopo il ritiro delle proprie truppe e per non dare ulteriore spazio a un governo sciita filoiraniano in Iraq nel bel mezzo della guerra in Siria. Argomentazioni corrette e logiche, certamente, ma prive di una lungimiranza strategica visto quanto sarebbe accaduto nel nord Iraq e a Gaza.
Vi è, infatti, un aspetto di questo quadro disarmonico che desta ancor più preoccupazione e riguarda il supporto iraniano alle frange più estreme di Hamas, ossia alle brigate Ezzedin al-Qassam, protagoniste degli attacchi a Israele da Gaza e di quanto è avvenuto nelle settimane passate. Sebbene le relazioni fra Hamas e Iran siano sempre state problematiche, negli ultimi 18 mesi e per via della crisi siriana, vi è stato un riavvicinamento. E’ un supporto che pesa sulla dirigenza politica moderata di Hamas, perché cosciente delle conseguenze dirette sull’organizzazione di un appoggio iraniano - che considera solo opportunistico per aumentare il proprio potere nella regione - ma che è troppo debole per contrastare adeguatamente al suo interno, lasciandosi sopraffare dalle frange estreme.
La scelta iraniana di Hamas è parsa, comunque, la soluzione più scontata, dopo che la Fratellanza Musulmana (FM) espressione del fondamentalismo sunnita, e i suoi affiliati, in primis Hamas, appunto, sono stati messi al bando da quelli che erano stati i vecchi sostenitori e finanziatori, ossia l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e, in ultimo, l’Egitto di al-Sisi.
L’accettazione di parte di Hamas del sostegno di Teheran non sarebbe stato, quindi, affatto scontato ma considerato come soluzione estrema. E il fatto che l’Iran si sia mosso da tempo, in seguito ai fatti siriani, a supporto degli esponenti radicali della resistenza palestinese, per rafforzarne il ruolo e ottenere l’appoggio dei Palestinesi dei Territori, è frutto di una strategia politica studiata da Teheran per il lungo periodo, con implicazioni di rilievo di “disturbo” a Israele, non solo per l’immediata sicurezza, ma anche sulla questione nucleare.
E’ far comprendere a Tel Aviv e a Washington che se su quest’ultima questione si può temporeggiare con balletti di incontri diplomatici, la resilienza dell’Iran come interlocutore trova forza su altre questioni, ossia sul sostegno e sul rafforzamento di soggetti ben più verosimili di un attacco nucleare e, di conseguenza, ben più pericolosi, come i fedeli Hezbollah in Libano, e puntare al controllo politico e militare di Hamas nei Territori di Gaza e Cisgiordania. E sarebbe proprio questo appoggio di Teheran, secondo alcuni osservatori, a impedire ad Hamas di accettare le condizioni per un cessate il fuoco con Israele su Gaza.
Quella iraniana rappresenta, quindi, un’azione all’interno di una global perspective che magari non è condivisibile, ma che punta a obiettivi concreti e coerenti (indipendenza nucleare, limitazione della potenza di Israele e supporto degli sciiti, ovunque) anche a costo di mutare la propria dirigenza e linea politica (che contrasto, infatti, fra Ahmadinejad e Rouhani) e le relative alleanze. Al pari – e non è un caso - solo Israele possiede, nella regione, la stessa lucidità strategica anche se, come Paese democratico, la sua leadership politica deve mediare fra posizioni estreme della sua opinione pubblica.
Ed è su quei due soggetti, Hamas e Hezbollah, e ciò che gli gira intorno che ci si deve soffermare per tentare di capire su cosa stia franando pericolosamente l’Occidente nel Vicino Oriente.
E’ da ricordare ancora che Hamas è espressione del fondamentalismo sunnita, ossia di quella Fratellanza Musulmana di cui si è accennato più sopra, da cui è nata nel 1987, e ora finita nelle lista dei gruppi terroristici anche dell’Arabia Saudita (al pari di Hezbollah), da cui l’ affrancarsi ufficialmente di Riyadh anche da al-Nusra e ISIS, sue dirette emanazioni; ad essa vi appartengono l’egiziano Morsi, solido sostenitore di Hamas, e gran parte della dirigenza di al-Qaeda. La FM presenta per lo più una minaccia strategica al modello di governo dei sovrani del Golfo Persico, principalmente per l’opposizione del gruppo al diritto di successione monarchico delle case governanti arabe, inclusa e soprattutto quella dei Saud. Ne deriva che FM e Hamas per associazione, sono considerati dai regnanti di questi Paesi come il maggior pericolo da non sottovalutare e da contrastare, per la loro stabilità, la sopravvivenza loro e dei loro affari e, quindi, per l’ordine all’interno dell’ ummah stessa.
Per affinità ideologica e visione strategica, tuttavia, la Fratellanza gode dell’appoggio anche del Qatar, così come della Turchia nella veste del partito AKP di Erdogan ed, in particolare, della fondazione umanitaria islamica IHH (Insani Yardim Vakfi) del figlio Bilal. Il Qatar sostiene pesantemente, pubblicamente e finanziariamente, la Fratellanza e le sue manifestazioni locali dall’Egitto di Morsi – unica monarchia del Golfo a farlo - ai combattenti in Siria del gruppo Liwa al-Tawhid, affiliato alla qaedista al-Nusra e a un’ampia fetta della galassia jihadista in Libia. Proprio il sostegno qatarino alla FM aveva portato già nel marzo scorso alla decisione di Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Bahrein di ritirare i propri ambasciatori da Doha: una decisione molto forte, giustificata dalla violazione del Qatar dell’accordo proprio del GCC di non interferenza negli affari interni dei vari membri, ma che profilava una spaccatura politica dalle conseguenze ben più gravose per la stabilità della regione.
Coerente a questa logica, e a sostegno della FM (e della sua guida spirituale Youssef al-Qaradawi residente a Doha), il Qatar ospita dal 2012, dopo che Hamas ha lasciato Damasco, perché in completo disaccordo con Assad, la sua dirigenza politica e il suo leader Khaled Meshaal, come pure quella dei Talebani afghani, giocando un ruolo decisivo nella liberazione del marine Bowe Bergdahl in cambio di 5 qaedisti prigionieri a Guantánamo. Con la Turchia e l’Iran, il Qatar è fra i più attivi finanziatori di Hamas, con stime che girano attorno a centinaia di milioni di dollari annui.
E che il comportamento del Qatar che, non dimentichiamolo, ospita pure la V flotta US (con i suoi quartieri generali in Bahrein), sia il grattacapo più pressante degli altri Paesi del Golfo è dato proprio dalla sua estrema volontà di libertà d’azione, spesso in bellicosa opposizione con l’altro grande protagonista, appunto l’Arabia Saudita.
Sempre con Teheran, infatti, Doha appoggia nel nord dello Yemen anche i ribelli sciiti zaidisti Huti, da anni in lotta contro il governo centrale ma soprattutto contrari all’Arabia Saudita, contro cui operano con rapide incursioni armate per opposizione al proselitismo dei mujaheddin salafiti, appoggiati da Riyadh e alla “conquista” di porzioni di territorio in mano sciita, al fine di controllare strategicamente quel Paese. E che lo Yemen sia un’area cruciale fra Vicino Oriente e Africa orientale, con tutto ciò che comporta, non dovrebbe essere un mistero, conoscendo la geografia e la storia delle relazioni internazionali degli ultimi trent’anni, con le vicende somale in testa.
In Yemen, con questi presupposti, si è scatenata una guerra civile che dura da dieci anni, pressoché dimenticata ma che ha visto il coinvolgimento anche di droni statunitensi in appoggio al governo centrale per contrastare l’azione degli Huti (oltre che a caccia di capi qaedisti), nelle liste dei gruppi terroristici sia americana che saudita, ma che di fatto sarebbero temuti più dell’appoggio che ottengono da Teheran che per la loro pericolosità per la sicurezza degli Stati Uniti.
Ne deriva che Qatar e Iran paiono essere addirittura alleate nella condivisione dell’azione armata di due gruppi estremi, geograficamente e per obiettivi, come Hamas e Huti, se non fosse che Doha sostiene anche i ribelli anti-Assad in Siria, per ciò in completa antitesi con Teheran, e il che riavvicinerebbe, però, Doha a Riyadh.
Per questa comunanza di azione in Siria, alcuni analisti militari – in particolare statunitensi - propendono per una maggiore tenuta di questa alleanza fra Qatar e Arabia Saudita rispetto a quella fra Qatar e Iran. Tuttavia, non vi sono segnali sicuri in questa direzione, quanto piuttosto quelli di una forte rivalità nella politica estera dei due Paesi con la relativa loro influenza su quanto avviene non solo in Siria ed Egitto, ma anche in Libano, e conseguenti svantaggi per la sicurezza e la stabilità politica di queste nazioni e dell’intera regione arabica. A sostegno di ciò, nel conflitto siriano sono ormai all’ordine del giorno rivalità fra i diversi gruppi sostenuti da Qatar e da Arabia Saudita, non solo nel negarsi reciprocamente l’appoggio sul campo, ma anche nell’attuare scelte tattiche operative congiunte. Insomma, una rivalità ai massimi livelli che si ripercuote fino a quelli più locali, nel già tragico e sanguinario conflitto siriano, con il risultato del suo prolungamento e del rafforzamento del nemico Assad che si vorrebbe eliminare.
Ciò dimostra come a ogni specifico scenario di instabilità se non addirittura di conflitto nella regione del Vicino Oriente appartengano alleanze differenti, mutevolissime e anche contraddittorie, difficili da comprendere se si pensa di ricondurre il tutto nella logica dei “buoni” e dei “cattivi”.
Infatti, i meccanismi che fanno decidere le mosse del Qatar, così come dell’Iran - sebbene più facilitato - nello scenario politico e strategico dell’intera area, vanno oltre la semplicistica interpretazione della guerra intra-musulmana fra sciiti e sunniti. E’ definire per costoro, di volta in volta, scenario per scenario, chi e come appoggiare, attraverso meccanismi di giudizio che, da qualche anno, partono da una base comune, ossia la volontà di sganciarsi da confusi, contraddittori e tardivi diktat esterni, come gli interventi diplomatici e militari degli Stati Uniti e dell’Unione Europea.
A tutto ciò fa sempre da sfondo l’ambizione di alcuni, come appunto Qatar e Arabia Saudita, di ergersi innanzitutto a guida del mondo arabo: se ciò, da un lato, vede logicamente escluso l’Iran, dall’altro, però, crea enormi attriti interni che si ripercuotono nella compattezza d’azione del GCC. Infatti, le dure prese di posizione si sono viste nel dicembre 2013, quando al summit in Kuwait e di fronte alla proposta saudita di trasformare l’ organizzazione in una unione economica e monetaria, con una politica militare e di sicurezza comune, considerandola “non più un lusso ma una necessità strategica”, l’Oman ha bloccato le trattative, avendo buoni rapporti con l’Iran e non vedendo quindi di buon occhio la creazione di una struttura di comando militare unificata, proprio in vista di un contenimento armato di Teheran.
La stessa rivalità interna che mina la compattezza del GCC di fronte al perdurare della crisi siriana e ai tragici fatti iracheni si sta ripercuotendo anche sul fronte delle diatribe religiose, dove il Qatar appoggia l’Unione internazionale degli studiosi musulmani, guidata dai più autorevoli elementi sunniti favorevoli alle correnti salafite e della FM (come Youssef al-Qaradawi), in opposizione però al Consiglio musulmano degli anziani, che ha sede negli Emirati, appoggiato da Arabia Saudita e dell’Egitto di al-Sisi.
Ed è proprio in questo complesso di insiemi e di sottoinsiemi, fatto di guerre, tensioni e alleanze, divergenze religiose con improvvise rotture e giravolte, quasi fosse composto da innumerevoli matrioske, che l’Occidente fatica a comprendere soggetti e ambiti e, invece di muoversi, arranca.
Sempre riferendosi a quanto accade in Iraq, Siria e a Gaza le relative ripercussioni sui comportamenti di Qatar e Iran, interviene quell’ altro attore, di cui si è accennato più sopra, poco compreso dall’Occidente ma che rappresenta una delle sfide politiche più complesse per parecchi Paesi del Vicino Oriente ancor più che di quelle militari per Israele, ossia gli Hezbollah del Libano. E’ quel movimento di “resistenza” a Israele degli sciiti filo-iraniani di Sayyed Hassan Nasrallah che, per primi già negli anni ’80, inventarono e adottarono ampiamente gli attacchi kamikaze e ottennero – a giudizio di numerosi esperti – la più eclatante vittoria del terrorismo dal 1968 al 2001, ossia la ritirata delle forze statunitensi e francesi dal Libano nell’ottobre 1983, dopo gli attacchi con autobombe alle loro caserme, con 241 morti fra i marines e 58 soldati francesi.
Non bisogna dimenticare che questo gruppo, che dal 2005 ha una rappresentanza presso il parlamento libanese, è considerato terroristico da Israele, (per ovvi motivi, essendo quest’ultima considerata un’entità razzista e Stato illegittimo da abbattere) ma anche da Stati Uniti, Canada e, unico in Europa, dai Paesi Bassi. E’ il gruppo armato dall’Iran che affianca le forze regolari di Bashir Assad e che, in questi anni di guerra civile, ha contrastato maggiormente anche l’ISIS. Ciò è avvenuto ancor prima la deriva sanguinaria del gruppo, ora Stato Islamico e che imperversa in Iraq, proprio quando l’ISIS era nell’insieme dei gruppi sunniti salafiti appoggiati dall’Occidente perché vicini ai ribelli anti-Assad. Hezbollah vi vedeva, in esso, un’eccessiva ingerenza occidentale che, se avesse avuto la meglio nella guerra siriana, avrebbe di fatto favorito l’avanzata di Israele in Libano. Per il leader hezbollah, Nasrallah agire in Siria significava “contenere” Israele: impossibile non intervenire.
Forse, però e almeno sino ad ora, l’azione di contenimento di hezbollah ha impedito che le incursioni armate di gruppi affiliati all’ISIS trascinassero il Libano nel conflitto. Gli hezbollah, combattendo a Qusayr e Qalamoun, hanno permesso che le azioni armate delle forze jihadiste salafite estreme anti-Assad affiliate all’ISIS fossero limitate alla provincia di Ersal, nella Bekaa, evitando che raggiungessero il Monte Libano, Akkar sino alla costa. Ed è per questo che la rappresaglia di questi gruppi filo-ISIS si è espressa in attacchi terroristici nei quartieri a sud di Beirut, di competenza, appunto, hezbollah.
Costoro sono per ISIS l’obiettivo ideale, il vero nemico da combattere, per motivi ideologici e religiosi: sono l’espressione massima dello sciismo combattente. E sebbene l’ISIS ora stia compiendo genocidi di minoranze nel nord dell’Iraq, gli sciiti, perché sostenuti dall’Iran, sono l’ostacolo da abbattere per realizzare quel Califfato che fra l’altro, nella sua espressione geografica, comprende proprio il Libano perché è quello Sharm, di cui fa riferimento la sua definizione, e che intende riconquistare. Una minaccia di cui hanno coscienza le autorità libanesi, tanto da avviare una collaborazione fra hezbollah e proprie forze armate e di sicurezza, con l’aiuto di intelligence anche straniere, per contenere la minaccia dell’ISIS sul loro territorio. A dimostrazione della complessità e degli intrecci di quanto avviene nell’area – e di cui l’Occidente fatica a comprendere logiche e relazioni - proprio per via della crisi economica interna libanese, e quindi per mancanza di finanziamenti, le forze armate di Beirut sono in attesa di armi provenienti dalla Francia, per un valore di 1 miliardo di dollari, finanziato dalla stessa Arabia Saudita. In pratica, le forze armate libanesi possono operare congiuntamente con hezbollah grazie ai finanziamenti di una nazione, quella saudita, che considera quel movimento un gruppo terroristico e temibile alleato del grande nemico Assad, contro cui Riyadh finanza una guerra che dura da tre anni.
Ma il ruolo-chiave di Hezbollah sta ancora in altri elementi.
Nell’ultimo manifesto politico, gli hezbollah – tra l’altro aprendo la partecipazione alla loro organizzazione anche ai non sciiti - rinnegano, infatti, qualsiasi tentativo di creazione di Stato Islamico, così come abbandonano espressioni estreme jihadiste a favore di una terminologia tradizionale che, in Occidente, sarebbe definita di “sinistra”, ossia laica e con forti attacchi alla globalizzazione e al liberismo economico. A fronte di questa virata rispetto al passato, permangono all’interno del loro programma, la “resistenza” ad oltranza contro Israele in funzione di quel “diritto al ritorno” dei Palestinesi che suona troppo radicale persino per l’Autorità nazionale palestinese - con cui sono in forte dissonanza - e per questo si arrogano il diritto di armarsi contro Tel Aviv, almeno sino a quando il Libano non disporrà di forze armate in grado di fronteggiare lo Tsahal. Ciò per contrastare le mire espansionistiche degli insediamenti ebraici nel sud libanese.
A fronte di innumerevoli debolezze interne al Libano, così come di una riforma delle sue Forze Armate che tarda ad arrivare, gli hezbollah si sono, quindi, rafforzati a sud, creando una enorme enclave sciita difesa pesantemente con le armi fornite dall’Iran più ancora che, un tempo, dalla Siria. Ma non vi è solo la minoranza sciita che preme nell’azione politica e militare degli hezbollah: il loro ruolo è ben più attivo sul fronte palestinese, sostenendo e fornendo addestramento a molte fazioni palestinesi decisamente riluttanti al dialogo con Israele, tanto che – secondo fonti dei servizi di sicurezza israeliani – dal 2001, hezbollah ha appoggiato oltre cinquanta gruppi associati ad Al-Fatah, Jihad islamica e, in particolare, Hamas. L’accogliere la causa palestinese è dato dalla influenza reciproca ai tempi in cui l’Olp di Arafat era presente in alcuni distretti di Beirut, disponeva di campi di addestramento di fedayyin palestinesi nella Bekaa da loro controllata e, da sud del Libano, agivano contro Israele.
Lo scoppio della guerra in Siria aveva allontanato Hezbollah e Hamas; ma la recente guerra in Gaza ha riaperto i giochi.
Oltre ai finanziamenti – anche se meno facilmente rintracciabili – la tecnologia e l’ equipaggiamento presenti nei depositi dei tunnel di Hamas provengono da Teheran con il supporto della rete hezbollah, come assodato da intelligence israeliana: lo stesso, ma è fatto più noto – visti i blitz conosciuti ma mai ufficializzati dell’IDF e della Shayetet-13 - accade per l’ armamento, proveniente dall’Iran, passante per l’Iraq (porto di Umm Qasr) e diretto nel Sudan e poi, indirizzato verso nord, raggiunge il Sinai e la sua rete di tunnel verso Gaza.
Il timore dell’ intelligence israeliana è, di fatto, legato non solo ad un’ipotesi di progetto di attacco da questi tunnel che Hamas avrebbe pianificato per il Rosh Hashanah, il capodanno ebraico, nel prossimo settembre – da cui l’azione armata preventiva israeliana delle ultime settimane - ma che in futuro, lo stesso sistema reticolare sotterraneo possa essere ampliato a Cisgiordania e a sud del Libano, proprio per via di hezbollah e del loro sostegno incondizionato alla causa palestinese. Sebbene la conformazione del sottosuolo libanese sia più difficile da lavorare rispetto alle sabbie di Gaza, ciò non ha impedito a hezbollah di crearvi veri e propri bunker, come quello scoperto a Naqura a poco meno di 500 metri dal confine con Israele.
Infatti, la stessa struttura dei tunnel di Gaza riprende quella creata nel sud del Libano, e ideata da Imad Mughniyeh, capo militare di hezbollah e che venne ampiamente utilizzata durante la guerra contro Israele del 2006 e segnalata già allora dallo Shin Bet israeliano come una possibile minaccia futura da Gaza. Cosa che, di fatto, si è realizzata: infatti, e sempre secondo fonti ebraiche, la costruzione di quella che appare una vera e propria città sotterranea ha sottratto circa il 50% dei finanziamenti a disposizione di Hamas, di provenienza per lo più iraniana.
Di fronte a quest’ultimo, limitato esempio di quanto siano complesse le interrelazioni fra gli Stati del Vicino Oriente e del Golfo Persico, i loro partiti o movimenti politici interni, quelli riconosciuti democraticamente ma che sono, al contempo, anche sostegno o espressione della peggiore minaccia terroristica, in una regione su cui incombe lo spettro di un inverosimile scontro nucleare a fronte di ben più concrete guerre combattute per davvero e relative tragedie di dimensioni apocalittiche - e non solo per gli iazidi, ma per tutti i popoli in guerra di quella regione, compresa Israele - l’aver ridotto il tutto a un semplicistico scontro fra sciiti e sunniti, è irreale, illogico e fuorviante, con gli effetti rischiosi di fenomeni come ISIS che solo osservatori così superficiali, come l’Occidente, incentrato sulla sua crisi economica e le sue emergenze energetiche, e colpevole di inerzia di fronte agli strascichi di rivolte fallite e interventi militari violenti ma sporadici, non hanno colto e, di conseguenza, compreso nelle loro azioni politiche. E lo stesso è accaduto in Libia e nel resto dell’Africa.
Il temporeggiare, quindi, nelle decisioni senza dare prova di avere un piano globale coerente di azione politica, diplomatica e militare, come stanno palesando gli Stati Uniti e l’Unione Europea, con interventi spot tardivi, perché quanto sta accedendo in Iraq o in Libia è evidente e tangibile da molto tempo, è dimostrazione chiara di questa sostanziale ignoranza su scenari così strategici e complessi, e il conseguente relativo fallimento di capacità operativa congiunta e risolutiva e, quindi, di vera e concreta leadership.
20/8/2014
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