Global Trends & Security Politica internazionale e Sicurezza, di Germana Tappero Merlo
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Il destino di guerra dell'Etiopia, 16/11/2020

Il destino di guerra dell'Etiopia, 16/11/2020 - Global Trends & Security

Uno strano destino di guerra sembra  travolgere l’Etiopia e il suo Primo Ministro Ahmed  Alì Abiy, Premio Nobel per la Pace nel 2019 per aver posto fine ad un conflitto congelato, lungo vent’anni, con la vicina Eritrea. Con i suoi 110 milioni di abitanti - il secondo Paese più popoloso d’Africa - divisi in 80  fra etnie e nazionalità  differenti, con un tasso di crescita (ante pandemia) del 10% annuo, destinato a diventare la prima potenza economica dell’Africa orientale per via delle sue infrastrutture per la fornitura di energia elettrica - grazie anche alla mega diga GERD, “una gloriosa battaglia vinta contro la povertà”, recita lo slogan governativo – l’Etiopia sta di fatto rovinosamente franando verso una guerra civile. Una “guerra inaspettata”,  l’avrebbe definita Abiy, anche se è difficile credergli, con tutte le molteplici premesse evidenti già da parecchio tempo, tanto che, per alcuni osservatori, ciò che sta avvenendo ora in quel Paese è come ‘guardare al rallentatore un treno schiantarsi’. Il rischio, non così remoto, è che l’instabilità e il confronto armato interno, già ora molto sanguinario, dall’Etiopia si allarghino al resto di quella che è una delle regioni più strategiche al mondo, ossia il Corno d’Africa. Perché da lì, allo Yemen e alla Penisola Arabica il passo è breve.

Come tutti i conflitti africani dell’era post-coloniale, anche ora in quel Paese l’oggetto del contendere  fra nemici locali, per lo più etnie, sono quelle aree divise da confini imposti loro senza che sia stata rispettata la loro reale, antica competenza di possesso di quella zona che, per quelle genti, significa vedersi sottrarre terreni da economia semplice (agricoltura e pastorizia) sino a  più importanti ricchezze (petrolio, acque, uranio, terre rare e molto, molto altro), in grado queste ultime di attrarre, però, ingordi interessi anche esterni, da cui instabilità e conflitti a diverso grado di intensità, con un ricorso al terrore come tattica privilegiata. Sono tutti conflitti intra-stato che stavano incombendo da decenni, ma che ora  la liberalizzazione  di nuovi spazi politici e sociali, con anche il moltiplicarsi di protagonisti di peso nelle relazioni internazionali, ha fatto emergere numerosi soggetti che ne diventano portavoce. Da qui le guerre per procura per potenze regionali e mondiali, di cui   quelle più note nel Vicino Oriente e Asia centrale, ancora un po’ eclissate quelle in Africa.

Ma, appunto, le premesse a ciò che sta accadendo in Etiopia. Sino ad ora si è trattato per lo più di violente frizioni interne fra diversi gruppi etnici, a colpi di machete e attentati terroristici, contro la popolazione avversaria inerme,  per questioni di ‘confine’ oppure  per rivendicare l’autonomia dal governo centrale, a sua volta accusato di non garantire la sicurezza della sua gente da gruppi armati riferenti alle diverse etnie. Da qui l’aumento del malcontento popolare che replica con altri attacchi, altre  stragi  fra civili, anche di manifestanti  alle legittime proteste di piazza contro il governo. Stragi a cui non si sa dare paternità, come quella di 500 lavoratori uccisi a colpi di machete, lungo il confine con il Sudan. Censura (anche di internet) e propaganda alzano fumi su indagini e colpevolezze.

E  Abiy risponde, non con il dialogo, come si converrebbe ad un accreditato  mediatore, ma con il pugno duro delle sue forze di sicurezza. In una sola di quelle proteste, a giugno, vi sono stati oltre 150 morti fra i manifestanti, con strascichi di evidenti violazioni dei diritti civili, fra esecuzioni extragiudiziarie  e detenzioni arbitrarie, già ampiamente documentate da organizzazioni umanitarie.

Ma non mancano attriti violenti fra gruppi etnici etiopi con altri, quelli di Paesi vicini, come Somalia e Sudan, da cui l’ultima strage con 35 vittime falciate su un autobus di linea in una regione occidentale, al confine con il Sudan. In sostanza, ciò che sta avvenendo ora in Etiopia è un conflitto intra-stato dalle potenzialità regionali dirompenti.

Anche perché gli oppositori più agguerriti di Abiy sanno perfettamente dove colpirlo. Il nuovo e più importante scontro interno etiope è infatti fra le forze armate governative e quelle dislocate nella regione  del Tigrè, a nord, proprio al confine con l’Eritrea.   Tutte compatte attorno al  Fronte di Liberazione del Popolo Tigrino (FLPT), queste forze armate regolari etiopi  sostengono le pretese di autonomia del Tigrè da Addis Abeba. Non uno sparuto gruppo armato,  ma si ipotizzano 250mila unità, fra regolari e milizie, dell’intero Comando Settentrionale Etiope. Combattenti per tradizione, temprati  un tempo dall’opposizione armata al vecchio regime marxista Derg (1991) e ora da anni e anni di guerra contro l’Eritrea. Una forza militare che è ora in mano all’etnia  tigrina che per oltre trent’anni ha governato l’Etiopia, soppiantata proprio da Ahmed Abiy nel 2018. Una forza che ‘non si deve sopravvalutare’ avrebbe affermato Abiy, ma che di fatto temendola, l’ha bombardata con attacchi aerei mirati.

La  resistenza armata del Tigrè si basa su accuse di brogli alle ultime elezioni (continuamente posticipate per colpa della pandemia), con cui il premier  Abiy ha visto rinnovare il suo mandato, che costoro hanno rigettato, rispondendo  con altre elezioni, indipendenti ma illegittime secondo il governo centrale. Lo scontro si è fatto via via così cruento da trasformarsi in conflitto aperto, con una singolarità strategica rispetto a quanto ci si poteva aspettare: la risposta tigrina agli attacchi aerei del governo centrale è stato il lancio di razzi, in questi giorni,  verso l’aeroporto e sedi di istituzioni governative dell’eritrea Asmara. E’ voler cercare la frizione  con il dittatore eritreo Ysayas Afewerki. Significa  colpire al cuore il successo di Abiy come pacificatore. E’ voler  mortificare l’ex nemico e ora  nuovo alleato  che, voci sempre più frequenti, vogliono che  Abiy  incontri sovente allo scopo di visitare installazioni militari da replicare poi nel suo Paese. Tutto ciò è inconcepibile per il FLPT che da sempre considera Afewerki il più acerrimo nemico della  terra d’Etiopia. Da qui, l’escalation del confronto fra forze tigrine e governo centrale etiope che, nel frattempo, richiama parte del suo contingente impegnato  nell’operazione di peacekeeping lungo i confini con la Somalia contro il rischio jihadista degli al-Shabaab e non esita, in terra etiope, a utilizzare  milizie  di altre etnie (Amhara) e  forze paramilitari, come i Liyu dell’ Oromia. Ci sono tutti i presupposti per una guerra civile, anche se Abiy la definisce  “una mera operazione di polizia” contro una banda di ‘criminali’ e ‘terroristi’. Così facendo nega l’evidenza di centinaia di morti fra i civili soprattutto tigrini, da cui l’accusa ad Abiy, da osservatori internazionali, di  vera e propria pulizia etnica.

Da quell’inferno di violenze alla ricerca della salvezza il passo è breve, seppur carico di disperazione e incertezze. La fuga di migliaia di disperati ha contato sino ad ora circa 10mila persone, per lo più bambini, verso il Sudan, ma è destinata a crescere, anche per via degli effetti della pandemia e dela devastazione di raccolti da parte di un’eccezionale ondata di locuste dal deserto.

Ma i guai per Abiy arrivano anche da altrove. E’ fallito da pochi giorni l’ennesimo  tavolo di trattive con l’Egitto e il Sudan per la questione del riempimento, da parte etiope, della diga GERD sul Nilo Azzurro, considerato per quei Paesi  a valle un  durissimo colpo alle loro economie. E se il dialogo fallisce, venti di guerra soffiano, come sempre accade in quella parte di Africa. Anche se non concreta, al momento, la minaccia di un ricorso alle armi passa attraverso il dislocamento di forze aeree e d’élite  Saiqa  egiziane nella Marwa Air Base in Sudan, allo scopo ufficiale di esercitazioni congiunte (almeno sino a fine novembre) fra i due Paesi. Esercitazioni militari che prevedono la simulazione di un attacco ad una grande infrastruttura critica. Facile immaginare quale possa essere questo impianto.

In partica, è ribadire che la valenza strategica di quelle acque vale l’azzardo di un confronto armato o, quanto meno,  mostrare i muscoli ad Abiy. Perché non profittarne, visto il momento di estrema debolezza di quel Paese? Il quadro si complica e gli analisti già parlano di ‘rischio balcanizzazione’ di quella porzione di Africa orientale, ossia  una frammentazione territoriale fra etnie che va contro la visione di unità nazionale ambita  da Abiy, per la quale ha fatto pace all’esterno, ma che si ritrova ora a fare una guerra al suo  interno per un etno-nazionalismo, ora rivendicato dalle forze del Tigrè, ma che sembra imporsi come modello in gran parte del mondo contemporaneo, dall’Africa al Medio Oriente.

Ciò significa instabilità politica, rischio di guerre e  un mancato contenimento del terrorismo, soprattutto quello jihadista della vicina Somalia, anche perché la popolazione etiope cristiana ortodossa sarebbe un obiettivo decisamente  ambito per i combattenti qaedisti di al-Shabaab. Non rimane che la fuga, la ricerca di una salvezza nei Paesi vicini:  ondate di paura e di esseri umani   che potrebbero riversarsi  lungo il Corno d’Africa così come sulle sponde africane del Mediterraneo. Almeno così recitano gli ultimi rapporti di agenzie, anche di intelligence, internazionali. Prenderne coscienza in tempo è un dovere collettivo. Trovare una soluzione di dialogo è un’urgenza che non ammette esitazioni, per non trovarsi poi a sdegnarsi per i morti dei naufragi nelle acque dei nostri mari e a chiedersi ignorantemente da quale guerra quei disperati stessero scappando.

 

16/11/2020

Chi sono

Chi sono - Global Trends & Security

Analista di politica e sicurezza internazionale, opero attualmente presso enti privati in Israele, Giordania, Stati Uniti e Venezuela. Ho svolto attività di consulenza sul terrorismo per organismi governativi e privati in Libano, Siria, Iraq, Afghanistan, Somalia, Egitto, Sudan, Etiopia, Eritrea, Libia, Tunisia, Niger, Messico e Brasile.

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18 febbraio 2022. Uscita del mio volume "Dalla paura all'odio. Terrorismo, estremismo e cospirazionismo", Tangram Edizioni Scientifiche. Trento. " Il volume è il risultato di analisi e operatività sul campo che l’autrice ha condotto negli ultimi due anni circa fenomeni globali legati all’eversione e al terrorismo, sia di matrice islamista jihadista che dell’ultradestra violenta. Vengono analizzati soggetti e dottrine in un contesto di evoluzione delle relazioni internazionali e dei nuovi conflitti ibridi e identitari, in cui il terrorismo è tattica dominante. Sono inoltre delineati i processi, personali e collettivi, di radicalizzazione sia religiosa che politica, da cui derivano educazione e cultura alla violenza. Queste ultime acquisiscono un ampio pubblico attraverso la rete internet, anche nei suoi meandri più oscuri e tramite forme di comunicazione, qui analizzate, che trovano ampio utilizzo da parte delle nuove generazioni di nativi digitali. A ciò si sono aggiunti i toni aggressivi delle più recenti narrazioni cospirazioniste, originate sia da eventi interni a Stati democratici occidentali che da quelli emergenziali da pandemia. A vent’anni dalla paura del terrore proprio dell’11 settembre 2001, si sta procedendo velocemente, quindi, verso un livore generalizzato, a tratti vero e proprio odio, da cui una cultura di violenza politica dai legami transnazionali e che mira all’eversione, con i relativi rischi per la sicurezza nazionale."

  • 24/03/2023 01:37 pm
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