Una frenetica attività diplomatica sta coinvolgendo il Medio Oriente ed è decisamente più movimentata dell’andamento di una guerra siriana-irachena che pare quasi praticamente allo stallo. Come da tradizione dell’area, tutto avviene dietro le quinte, imponendo un duro lavoro di intelligence e di analisi a tutti gli attori, dai Paesi del Golfo all’ Iran e Turchia, ma soprattutto ad Israele. A scatenare la frenesia diplomatica segreta è stato, inutile ribadirlo, l’accordo sul nucleare iraniano.
Quell’accordo ha scompigliato le carte fra gli attori mediorientali, imponendo ora nuovi ruoli e nuovi copioni per quei vecchi protagonisti su cui sembra essere sparito il manto protettore statunitense a favore di quello di soggetti strategici come la Russia e la Cina che, da dietro il siparietto della diplomazia più visibile, stanno intessendo nuovi e più promettenti relazioni. E chiave di volta, strategica anche per i loro piani, è ora Teheran.
L’Iran è tornata, infatti, protagonista delle relazioni mondiali – data la valenza di un accordo sulla limitazione di quel tipo di armamento e per i vantaggiosi aspetti economici legati alla fine delle sanzioni – soprattutto per un suo potenziato ruolo politico che, per ora, può dimostrarsi risolutivo di innumerevoli questioni, a fianco però di un’autorevolezza anche religiosa con il rischio, in futuro, di un’ulteriore accentuazione del contrasto sunniti-sciiti, in una regione dove per “la religione” si combatte il jihad e si finanzia il terrorismo, si vogliono cancellare i vecchi confini e si rivendicano nuovi territori oppure, per altri estremismi, si creano nuovi insediamenti e ci si ammazza a colpi di pietra, coltelli o molotov. Un aspetto, quindi, quello religioso, qualsiasi esso sia, da non trascurare mai in una seria analisi della regione, soprattutto da quando con il sedicente Stato Islamico, l’Islam da religione è diventata ideologia, fanatica, sanguinaria, conquistatrice e distruttrice.
Teheran è uscita a testa alta, per propria volontà e auspici statunitensi, dall’Asse del Male in cui era stata cacciata da tempo proprio da Washington: ha dimostrato una buona volontà a collaborare sul nucleare, ma si è altresì guadagnata, almeno da un anno, una valenza strategica militare fondamentale nel complesso, sanguinario e ancora irrisolto conflitto siro-iracheno. E’ noto ormai il ruolo avuto dalle milizie irachene filo-sciite nel contrastare l’avanzata in centro e sud Iraq delle forze del Daesh. Certamente non sono state sufficienti, tanto che a sostenerle – come pure i curdi a nord - è intervenuta una forza aerea di una coalizione internazionale a guida statunitense: tuttavia, quelle milizie hanno dato una svolta al conflitto, hanno coronato con successi sul campo l’uscita militare dell’Iran dai suoi confini in difesa degli sciiti iracheni e hanno permesso che anche le milizie hezbollah, filo-iraniane ma soprattutto filo-Assad, ottenessero maggiori considerazioni fra gli altri protagonisti della regione.
E se le cronache della stampa occidentale non lo evidenziano a sufficienza, quelle mediorientali non lesinano a ribadire come Assad e le sorti del conflitto in Siria stiano subendo un influsso positivo da quell’accordo tutto a loro vantaggio, con grande ansia di chi ha investito finanziariamente nella caduta di quel regime (Turchia, Qatar e, inizialmente Arabia Saudita ), di chi lo teme per la sua influenza su elementi terroristici e per il controllo di territori contesi (Israele) e di chi lo combatte per la libertà e la democrazia del proprio Paese (i c.d. ribelli moderati).
Non da ultimo, e non certamente di poco conto, la sopravvivenza di Assad è l’elemento catalizzatore per la violenta opposizione armata delle variegate forze qaediste e jihadiste in Siria.
Il vigore riacquistato dal rafforzamento dell’Iran a livello internazionale è mostrato dalla maggiore considerazione del regime siriano, suo protetto, da parte delle stesse monarchie del Golfo: gli Emirati Arabi hanno dichiarato di voler aprire una sede diplomatica a Damasco e l’Oman, nelle vesti del suo ministro degli esteri, Yusuf bin Alawi bin Abdullah , ha accolto ad inizio agosto il suo omologo siriano, Walid al-Moallem, volato a Muscat a chiedere un intervento di mediazione al fine di giungere ad un accordo per porre termine alla guerra e per una exit strategy personale per Assad.
Ma il colpo più significativo è dato dalla notizia dell’incontro, a breve, a Damasco fra il capo dell’intelligence del regno Saudita, Khalid bin Ali- al Humaidan, e i responsabili del regime siriano: se ufficialmente l’incontro dovrebbe vertere sulla sorte di cittadini sauditi catturati in Siria e accusati di terrorismo, visto il clamore con cui è stata fatta circolare la notizia dal sito siriano al-Masdar e dall’emittente hezbollah al-Manar, si ipotizza che l’incontro abbia come fine quello di scardinare la coalizione anti-Assad a tutto favore dell’Arabia Saudita, mettendo da un lato Qatar e Turchia. Il primo, fra l’altro, avrebbe già dato ampiamente segni di debolezza e di stanchezza nel faticosissimo ruolo di mediatore-finanziatore dei vari soggetti protagonisti delle ultime vicende belliche regionali, e avrebbe già dichiarato di voler avviare un dialogo serio con l’Iran.
Sul ruolo e sul futuro immediato della Turchia emergono, invece, più numerosi e gravi interrogativi.
Proprio una eventuale intesa Damasco-Riyadh (peraltro attiva dal 1990, a fine guerra civile libanese, interrotta dal 2011 e impensabile con Bandar bin Sultan e Saud al-Faisal ) e un’attenuazione del ruolo attivo del Qatar lascerebbero da sola la Turchia a combattere su più fronti, obbligata, per ambizioni di potenza regionale, a contrastare il Daesh e ansiosa, per propria scelta, a disfarsi del fattore curdo interno. Un impegno pressoché insostenibile, viste le difficoltà di Erdogan (ripresa acuta del terrorismo curdo e fragile supporto politico, tanto da anticipare le elezioni a fine anno) e della sua strategia del doppio binario, ossia flirtare con l’Occidente e, parallelamente, con Russia e Cina, e che pare sia giunta a un punto morto. Insomma, una duplicità e una ambiguità tutte levantine che paiono non dare a Erdogan i frutti sperati.
Secondo alcune fonti arabe, proprio la Russia starebbe, infatti, accelerando la via diplomatica alla conclusione dell’affare siriano, passando attraverso la creazione e il forte sostegno ad una coalizione anti-Daesh formata dalla Siria di Assad, le forze irachene e l’appoggio dell’Iran, non negando di voler tentare di coinvolgere la stessa Arabia Saudita, al fine di portarla fuori dal cono d’ombra in cui è stata posta, secondo Putin, proprio da Washington.
Secondo altre fonti (arabe e israeliane), ci sarebbe invece la collaborazione di Stati Uniti e Russia (incontri di Doha del 2-3 agosto scorsi) per giungere a una tregua su Assad e concentrare gli sforzi militari contro Daesh, con l’ Arabia Saudita artefice di nuove alleanze regionali, date le posizioni saudite decisamente più ammorbidite nei confronti di Bashir Assad e, soprattutto, visti gli insuccessi di Riyadh in Yemen contro gli Houti “appoggiati”, seppur non ufficialmente, da Teheran. In pratica, una via d‘uscita dignitosa e da protagonista del regno dei Saud visti gli smacchi diplomatici (forzata accettazione dell’accordo sul nucleare, a fronte però di promessi aiuti finanziari e militari da Washington) ma soprattutto bellici nei vari conflitti regionali. E tutto ciò perché, sullo sfondo, l’Iran è tornata protagonista.
Secondo alcuni osservatori, l’attivismo diplomatico di Mosca di questo inizio d’agosto sarebbe, invece, dovuto all’affanno di Putin per l’avanzare di forze del Free Syrian Army e di Jaish al-Fatah verso il nodo siriano di Jounin, punto di incrocio viario per Latakia e Homs, città, quest’ultima, dove si starebbero spingendo forze Daesh, con il rischio di isolare Latakia (provincia alawita controllata da poche famiglie, fra cui gli stessi Assad) e la vicina area costiera, in cui si trova il porto di Tartus, la base navale russa nel Mediterraneo. Proprio in direzione di Latakia, in questi giorni, elementi di Daesh avrebbero lanciato missili Scud: sebbene non sia la prima volta che ciò accade, visti però ora il cambio di prospettiva dei principali protagonisti regionali e la risolutezza di Putin a voler trovare una via d’uscita ad Assad e risolvere diplomaticamente il conflitto siriano, Daesh e jihadisti potrebbero trovarsi a doversi confrontare con una Russia determinata a intervenire anche militarmente. Almeno, queste sono ipotesi che circolano fra gli analisti.
Lo stesso ministro degli esteri iraniano Mohammad Javad Zarif, protagonista negli ultimi mesi della lunga trattativa sul nucleare, è in questi giorni a Beirut a “rassicurare” i responsabili politici libanesi che l’Iran continuerà a supportare Hezbollah e la Siria, ovviamente di Assad, con relativa, grande e giustificata inquietudine di Israele .
L’accordo con le grandi potenze sul nucleare non avrebbe, quindi, distolto l’Iran, secondo il suo ministro, dai suoi impegni con gli alleati nella regione; al contrario, l’avrebbe spronato a un maggior coinvolgimento per la soluzione della guerra siriana, tanto da spingerlo, oltre che a Damasco, anche in Turchia a incontrare lo stesso Erdogan. L’incontro, tuttavia, sarebbe stato opportunamente posticipato dopo la pubblicazione di un articolo, su un giornale di opposizione turco (Cumhuriyet), a firma del ministro, in cui Zarif accusa gli Stati Uniti di essere responsabili dell’instabilità in Iraq, dalla loro invasione del 2003, e quindi della nascita e del rafforzamento di Daesh. Ma non solo: il progetto statunitense di Greater Middle East sarebbe a fondamento di ulteriori e futuri interventi militari nella regione. Ciò ha reso inconveniente, al momento per Erdogan, una eventuale visita ufficiale del ministro iraniano.
Una diplomazia mediorientale, quindi, in fermento, nonostante un conflitto che parrebbe allo stallo e la carenza di informazioni sui media occidentali, dopo che si sono spenti i riflettori sul più dibattuto e plaudito accordo sul nucleare. Ma come sempre, il Medio Oriente è solo in apparenza statico, ancorato ai suoi antichi valori e alle sue remote tradizioni che sottostanno ai suoi perenni e insoluti conflitti, a cui se ne aggiungono sempre di nuovi: il Vicino Oriente è regione di grande inquietudine da cui nascono e si estendono fenomeni dalla rilevanza mondiale.
Inutile illudersi del contrario, soprattutto se a costoro vengono imposte soluzioni dall’esterno. In questo, bisogna riconoscerlo, l’amministrazione Obama ha saputo cogliere le lezioni del passato e stimolare il vero spirito della regione: lasciare che agiscano loro da protagonisti, si assumano le loro responsabilità e si sbroglino le loro intricate matasse. E ciò ha dato vita a quel che sta avvenendo, dal nuovo ruolo dell’Iran, al ridimensionamento di quello dell’Arabia Saudita e ad una più attiva presenza (diplomatica) della Russia ed (economica) della Cina.
Rimane, però, solo un dubbio: chi avrà la conoscenza adeguata, la capacità diplomatica e soprattutto una leadership incisiva e credibile quando si tratterà, inevitabilmente, di mediare fra le posizioni estreme proprie di quelle nazioni del Vicino Oriente che, ad eccezione di Israele, sono da sempre poco propense al dialogo democratico, quanto più inclini all’autoritarismo e fagocitate dagli estremismi?
10/8/2015
Germana Tappero Merlo©Copyright 2015 Global Trends & Security. All rights reserved.