Per chi si occupa di sicurezza nell’area mediterranea è pressoché impossibile sottrarsi a considerare le conseguenze di quanto sta accadendo al Cairo in questi giorni sull’area più strategica per l’Egitto e i suoi vicini, ossia il Sinai. Proprio per la sua forte valenza nella politica di sicurezza interna e internazionale, il Sinai rappresenta la variabile più delicata della geopolitica egiziana, a cui si affianca quella della protezione del canale di Suez, che la separa dal resto del Paese e dall’evidente importanza per il commercio marittimo mondiale. L’attenzione di quanto sta avvenendo in questi giorni nella capitale egiziana ha fatto passare in secondo piano una serie di attacchi all’aeroporto e nei dintorni di El Arish, appunto in Sinai, con la conseguente proclamazione dello stato di emergenza da parte dell’Esercito, e la chiusura a tempo indeterminato della frontiera con Gaza. Ed è tutt’intorno alle delicate relazioni con i suoi vicini e dei rapporti di forza che si stanno profilando in Medio Oriente, che il Sinai emerge con il suo ruolo strategico per la stabilità dell’Egitto e dell’intera regione nordafricana.
Il Sinai, con i suoi 600mila abitanti, è un triangolo di terra di 60.000 kmq che unisce Africa e Asia, per lo più desertico e abitato da una trentina di etnie beduine, dal 1967 al 1979 è stato sotto controllo israeliano e restituito all’Egitto con gli accordi di Camp David, le cui disposizioni ancora oggi impongono al Cairo e a Tel Aviv, il coordinamento di qualsiasi attività militare su quel territorio. Superfluo sottolineare l’importanza di un tale accordo, sia alla luce della tradizione politica e militare israeliana, non certo incline a compromessi limitativi con i vicini, sia per quella egiziana, data l’ancestrale riluttanza del Cairo a considerare quella parte di territorio come influente per il resto del Paese. Infatti, proprio le grandi differenze etniche e culturali della sua popolazione fanno del Sinai un’entità quasi totalmente estranea al resto dell’Egitto, con la conseguenza di essere stata sovente trascurata dal governo centrale per poi, improvvisamente tornare alla ribalta nel momento in cui si manifestano segnali di allarme per la sicurezza del Paese o per i rapporti con la vicina Israele.
Questi segnali sono presenti da tempo ma sono diventati più preoccupanti negli ultimi due anni, ossia con l’avvio delle rivolte in Nord Africa, la caduta del regime di Mubarak e con quanto è accaduto anche agli altri Paesi della regione, Libia in particolare.
Da sempre zona di vasti traffici illeciti con cui sopravvivono le tribù beduine, il Sinai è, infatti, anche una rete fittissima di gallerie sotterranee (circa 2500, di cui 50 molto ben strutturate, anche per trasporti importanti) che collegano l’Egitto a Gaza, e in cui transitano merci di ogni genere – per lo più alimenti e bestiame, ma anche materiale per altre attività, come l’edilizia o la meccanica, sino ad armamento di ogni tipo - da quando Israele ha imposto il blocco del confine in seguito alla presa di potere a Gaza di Hamas, nel 2006 e, di conseguenza, con l’economia palestinese praticamente collassata. Lo stesso regime di Mubarak aveva stretto, da tempo, i controlli sul Sinai, soprattutto in superficie tollerando, invece, la rete di tunnel per via dell’ampio sostegno popolare egiziano alla causa palestinese.
Dopo il 2011, questi controlli sono pressoché scomparsi, con conseguenze ben più gravi ed allarmanti per la sicurezza di un’area che si estende da Gaza e sud Israele sino addirittura oltre l’Egitto, ossia la Libia e giù fino al Mali: ciò è dovuto all’infiltrazione di elementi appartenenti a gruppi armati radicali che utilizzano quella rete di tunnel per gli spostamenti fra quelle zone – e sicuri della protezione degli esponenti più radicali di Hamas, per esempio – oppure, in superficie e grazie ai beduini, per trovare rifugio nelle montagne del Sinai, diventato così, nel frattempo, un santuario del terrorismo jihadista e al qaedista dalle sigle più disparate. Non è un caso che, sebbene un po’ troppo semplicisticamente, il Sinai sia stato paragonato al Waziristan pachistano, ossia l’area di raccolta e rifugio per i combattenti jihadisti in Afghanistan.
L’appoggio delle tribù beduine locali è stato determinante. Queste tribù, infatti, sono da sempre in conflitto, sebbene di basso profilo, con il governo centrale del Cairo; inoltre, le rivolte del 2011 e il vuoto di potere che si è venuto a creare hanno permesso un ulteriore allentamento dei controlli, facilitando così più stretti legami di carattere criminale fra i beduini – sempre al margine anche della vita economica del Paese – e le organizzazioni di militanti islamici. Soprattutto dopo l’acutizzarsi della crisi interna libica del dopoguerra, si sarebbe pesantemente intensificato il traffico di armi passante per il Nord del Sinai e controllato da alcune di queste tribù beduine, così ampio e lucrativo da garantire a costoro non solo di che vivere, ma persino di accumulare ricchezze.
L’intensificarsi di questi traffici illeciti, soprattutto di armi, ha rappresentato, negli anni, una forma di ricatto nei confronti del governo centrale egiziano da parte di alcune di queste tribù, come la Aznana, ad esempio, i cui componenti non sono riconosciuti come cittadini egiziani - riportano infatti la dicitura “nazionalità sconosciuta” sui loro documenti – nonostante fossero a fianco delle truppe regolari egiziane nelle guerre contro Israele sia nel ’67 che nel ’73, ma che dopo gli accordi di Camp David, l’Egitto si è affrettato a disconoscere come propri cittadini. Questa condizione di non cittadinanza è condivisa da almeno un quarto dei 600mila abitanti del Sinai, con la loro esclusione, quindi, dalle decisioni e dall’ attività politica ed economica, tanto da intensificare l’attrazione di costoro verso forme di sostegno alternative più redditizie della sola pastorizia. Il traffico di armi per queste tribù è, inoltre, servito anche per farsi una guerra sulla spartizione del territorio del Sinai, anche in vista dell’arrivo consistente di gruppi terroristici alla ricerca di rifugio in quel territorio.
Nell’intera penisola del Sinai sarebbero, infatti, una decina i gruppi terroristici più attivi, ognuno con una dozzina di basi - dislocate fra deserto e montagne - e composte ciascuna dai 15 ai 20 membri, con le sigle più disparate, che non lasciano dubbi sulla loro missione, e in cui emergono i più “vecchi” Ansar Bayit al Maqdis (Sostenitori di Gerusalemme), Jaish al Islam (Esercito dell’Islam), Takfir Wall Hijra (Anatema ed Esilio), Tawhid al Jihad (Monoteismo e Guerra Santa), sino a quelli di più recente costituzione, Majlis Shura Al-Mujahideen (Consiglio della Shura dei Mujahideen di Gerusalemme), Jund al Sharia (Soldati della Legge Islamica) e Ansar al Jihad (Sostenitori della Guerra Santa). Vi sarebbero, inoltre, campi di addestramento, in particolare di jihadisti yemeniti, individuati nelle montagne nel nord del Sinai.
Le costanti presenti nei proclami di questi gruppi jihadisti sono la guerra contro Israele, in chiaro appoggio alla causa palestinese, e ad Hamas in particolare, e l’abolizione degli accordi di Camp David con l’Egitto, a cui nell’ultimo anno si è aggiunto prepotentemente l’elemento salafita e alqaedista – secondo alcuni osservatori, come Gilles Kepel, già presenti, anche se in forma minore, dalla metà degli anni ’90 – che rivendica l’istituzione di un Califfato islamico ma che, di fatto, porta avanti un terrorismo a fini puramente destabilizzanti e dai traffici illeciti decisamente proficui (dal rapimento di stranieri al traffico d’armi di ogni tipo e droghe, da e verso il Medio Oriente). Secondo fonti jihadiste, non confermate però da intelligence e analisti, i salafiti jihadisti nel Sinai consisterebbero in 10mila unità, mentre in tutto l’Egitto si aggirerebbero intorno a 1 milione di elementi. Per alcuni osservatori, inoltre, la nomina dell’egiziano Ayman al-Zawahiri, a capo di al Qaeda alla morte di bin Laden avrebbe dato maggior impulso ed attrattiva all’attività terroristica alqaedista proprio sul territorio egiziano del Sinai.
Già nel 2010 i servizi di intelligence israeliani avevano evidenziato questo pericolo, trovando prove di traffici di uomini e di armi, passanti per il Sinai e provenienti addirittura dalla Somalia e il Sudan verso lo Yemen e l’Arabia Saudita, così come sino più a nord, ossia Giordania, Siria, Libano e Iraq, in un intreccio di spostamenti, sia in superficie che sotterranei, difficili da rimuovere non solo per le caratteristiche fisiche di quel territorio, ma soprattutto per la eccessiva “elasticità di comportamento” da parte del governo centrale egiziano. L’instabilità interna alla Libia post Gheddafi ha ulteriormente incrementato il traffico di uomini e di armi da e verso il resto del Medio Oriente, passante anche nel fitto reticolo di tunnel sotterranei, in uno scambio piuttosto considerevole di combattenti fra i vari scenari di crisi o addirittura in guerra, come l’area subsahariana o il teatro siriano.
Ancora sotto il regime di Mubarak non erano, però, mancati scontri anche cruenti fra forze regolari egiziane e gruppi al qaedisti, supportati pesantemente da elementi beduini, come quelli della tribù Tarabin – che controllano il nord e il centro del Sinai e il confine fra Egitto ed Israele, sotto il comando di Salem Abu Lafi, passato ad al Qaeda e in stretto legame con Hamas - e che imposero addirittura la ritirata delle forze egiziane, sebbene fossero supportate da un notevole impiego di mezzi sia terresti che aerei. L’operazione era stata tenuta segreta dall’allora regime, sebbene fosse stata l’azione più importante contro l’infiltrazione di al Qaeda fra le tribù del Sinai dopo l’11 settembre: quel fallimento, al contrario, segnò l’avvio di un processo di rafforzamento dei gruppi terroristici che è andato aumentando dopo la fine del regime di Mubarak e il relativo allentamento della presenza militare regolare nel Sinai.
In poco più di due anni, ciò ha permesso ai gruppi jihadisti e al qaedisti di alzare il livello delle loro azioni tanto da rendersi responsabili di continui attacchi alle esigue forze regolari egiziane - è dell’agosto del 2012 l’uccisione di 16 militari lungo il confine con Gaza, a cui Il Cairo ha risposto con Operazione Sinai, ritenuta la più importante operazione militare dai tempi degli accordi di Camp David, ma dagli scarsi esiti finali – a cui si sono aggiunte azioni di sabotaggio ad oleodotti, rapimenti di occidentali e crimini vari perpetrati con l’ausilio delle tribù beduine, sino al lancio di razzi verso il Negev israeliano, in particolare la città di Eilat.
La risposta israeliana, negli ultimi due anni è stata duplice: dapprima Tel Aviv ha ignorato i vincoli degli Accordi di Camp David, permettendo al Cairo di gestire militarmente l’intera faccenda, tranne poi intervenire sia con la costruzione di un muro lungo 150 miglia del confine fra i due Paesi e, più pesantemente, con un’operazione congiunta Shin Bet e IAF per neutralizzare i responsabili degli attacchi, ossia quel Hitham Mashal, leader salafita a capo del gruppo Majlis Shura Al-Mujahideen, ucciso dalle forze israeliane a Gaza.
D’altronde, dapprima le preoccupazioni di Israele riguardavano le possibili ripercussioni dovute alla eccessiva morbidezza del governo egiziano ed ora al caos politico presente in quel Paese, non soltanto per la sicurezza di zone turistiche come Eilat, quanto per le forti ripercussioni su scenari come quello libanese o siriano, legati a doppio filo con l’attività jihadista presente nel Sinai e a Gaza.
Il coinvolgimento diretto di Israele nel complesso scenario di contenimento dei gruppi terroristici jihadisti e salafiti attivi nel Sinai, dovuto anche ai vincoli degli accordi di Camp David, sarebbe servito, tuttavia, da detonatore in quella che alcuni osservatori hanno definito come la “campagna del Sinai”, con conseguenze deleterie per le sorti dello stesso governo Morsi.
Proprio le affinità fra i Fratelli Musulmani, il partito Libertà e Giustizia di Morsi e Hamas avrebbero compromesso una possibile collaborazione con Israele circa il contenimento di una minaccia terroristica così importante come quella attiva in Sinai e dalle ramificazioni regionali: lo stesso Morsi non avrebbe mai parlato di entità “terroristiche”, quanto piuttosto “criminali” o al massimo “jihadiste”, con una presa di posizione che esprimeva chiaramente l’approccio del suo governo circa la sicurezza in Sinai, ossia una semplice questione interna con la possibilità anche di dialogo e riconciliazione con quegli esponenti più radicali.
Risulta, comunque, difficile comprendere come conciliare questa posizione accomodante che era propria di Morsi e le dichiarazioni di Mohammed Badie, leader supremo dei Fratelli Musulmani e a capo della rivolta di questi giorni nelle piazze del Cairo contro la destituzione di Morsi, e che imputava a Israele “la sola conoscenza della forza” con “corruzione” e “violazione dei luoghi sacri”, toccando in tal modo la spinosa questione delle aspirazioni palestrinesi per la statualità e il controllo di Gerusalemme est.
“E’ tempo per i Musulmani – affermava Badie – di unirsi per il bene di Gerusalemme e della Palestina, dopo che gli Ebrei hanno alimentato la corruzione nel mondo, e sparso il sangue (dei musulmani)”: è il chiaro richiamo alla lotta e alla resistenza contro Israele da parte dell’ala più estrema dei Fratelli Musulmani, a cui Hamas si è associata, un anno fa proprio in un incontro ufficiale al Cairo con membri del governo Morsi, e tramite il suo rappresentante, ossia Ismail Haniyeh, già primo ministro a Gaza dal 2006 al 2007.
A ciò si aggiunge, inoltre, l’atteggiamento intransigente di Hamas, secondo cui l’intera questione della sicurezza del Sinai è più un fallimento politico che militare, e risalirebbe all’irrisolta questione israelo-palestinese, in grado anche in questo caso di stravolgere l’equilibrio di Paesi, come l’Egitto. Nel maggio scorso, Hamas aveva ribadito all’Egitto di Morsi la convinzione, già esternata un anno prima, di rivedere gli Accordi di Camp David, al fine di estromettere Israele dalle questioni di sicurezza riguardanti il Sinai, avviando una sorta di cooperazione “regionale” fra il Cairo ed Hamas.
La stessa Hamas, inoltre, avrebbe dichiarato apertamente la sua impossibilità a impedire l’azione di questi gruppi, tanto da accusare Israele di fomentare essa stessa quegli attacchi per scopi puramente destabilizzanti dell’Egitto stesso e contro la causa Palestinese. Per questa sua presa di posizione, Hamas ha ottenuto l’appoggio anche dei gruppi salafiti jihadisti che popolano il Sinai, andando così a rinsaldare ulteriormente i legami fra chi comunque è al potere ora in Gaza, ossia Hamas, e membri attivi del più cruento terrorismo di matrice islamica.
Sebbene l’attuale situazione in Sinai abbia evidenziato le falle di quegli accordi, rinegoziarli – ma con quale autorità egiziana ora alle prese con problemi ben più urgenti di sicurezza interna? – significherebbe creare un “effetto domino” su trattati ancora più vulnerabili e fallaci, come quello con la Giordania o peggio quello, pressoché moribondo, di Oslo fra israeliani e palestinesi.
In pratica, fra gli elementi della caduta di Morsi - e che i mass media ricondurrebbero più a fallimenti di politica interna - vi sarebbe anche il sostegno dato da Hamas a livello regionale in cambio, però, di un allentamento della repressione antijihadista nel Sinai. A ciò si è aggiunto l’attrito con i vertici delle Forze armate decisi a non permettere che l’influenza islamista, sebbene moderata, dei Fratelli Musulmani permettesse una sottovalutazione di un rischio come quello jihadista in un’area, come il Sinai, fra le più strategiche del Medio Oriente. Si è trattato, quindi, anche di un braccio di ferro fra Morsi e vertici militari proprio per le divergenze sul dominio e sull’affermazione di una politica di intervento di contenimento della minaccia jihadista e alqaedista in Sinai.
“Al Cairo i Fratelli Musulmani giocheranno il ruolo di vittime della repressione, ma la loro vendetta arriverà dal Sinai”, è stato affermato nelle piazze egiziane all’indomani della destituzione di Morsi: con queste premesse e con quanto già accade da anni in quella penisola, c’è da credere che questo monito si avveri.
6/7/2013
Foto: WorldTribune.com
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