Che ci piaccia o no, è necessario riconoscere ancora una volta quanto la pianificazione strategica di lungo periodo e la marziale determinazione a raggiungere gli obiettivi prefissati siano le armi vincenti della Cina degli ultimi trent’anni. I fatti lo confermano: per un Paese ex comunista e con un’economia collettivista, raggiungere, in pochi decenni, il traguardo di seconda potenza economica al mondo con ottime possibilità di superare gli Stati Uniti entro pochi anni, non è affatto un’ esaltazione fine a se stessa dovuta a momentanea infatuazione. I dati dei rapporti stilati dai centri studi dei massimi organismi sovranazionali confermano questa tendenza, e il segreto di tanto successo sta in un mix di elementi, non sempre condivisibili secondo i parametri occidentali – come la sistematica violazione dei diritti democratici, la mancanza di norme a tutela dei lavoratori, o i disastri ambientali dovuti al rapido ed eccessivo sviluppo industriale, solo per citare i più noti – sopra cui dominano, appunto, una visione strategica di lungo periodo e una fermezza propria di una cultura politica che sono gli effetti del passato (secolare) militare e (più recente) comunista di quel Paese.
Inevitabile, quindi, provare una certa ammirazione, soprattutto quando si è costretti, attraverso ricerche e analisi internazionali, a prendere coscienza del fatto che se le economie occidentali si stanno logorando fra recessione, stagnazione, sollevazioni popolari più o meno violente e forte crisi politica, non sono state solo la crisi dei mutui subprime statunitensi o le speculazioni sui derivati finanziari a portare l’Occidente verso questo baratro, quanto le importanti lacune nella visione strategica sul futuro del sistema capitalistico.
L’ossessione del breve periodo, si sa, è stata la caratteristica dell’economia capitalistica degli ultimi trent’anni, che ha mutuato questo concetto così dannoso dalla finanza speculativa, ossia dalla peggior espressione del libero mercato che ha finito per creare l’illusione di una ricchezza veloce e globale per tutti quelli che vi partecipavano, a scapito però dell’economia reale, dato che ha sottratto, o meglio “bruciato”, così tante risorse da non avere più energie e soprattutto fonti da cui trarne. La crisi, infatti, non sarebbe industriale e manifatturiera, dato che vi sono conoscenze, capacità manageriali, abbondanza di forza lavoro, anche qualificata, quanto di carenza di risorse monetarie, dopo che decenni di cattiva gestione a favore della speculazione finanziaria hanno reso sterili l’economia reale e, paradossalmente, anche gli stessi operatori, quali gli istituti di credito. Di fronte a cotanta stoltezza e miopia strategica, è inevitabile provare una certa ammirazione per chi ha dimostrato di avere, invece, lungimiranza.
E’ vero che l’economia cinese sta rallentando e dal favoloso dato di crescita annua del 10% sta scendendo al 7%; ma si tratta di traguardi che l’Occidente ha ormai dimenticato da tempo e la consapevolezza di un ritorno al manifatturiero quale via di uscita dalla crisi, sebbene sia un discorso accettato globalmente in Occidente, partendo dagli Stati Uniti di Obama sino a realtà industriali più contenute come quella italiana, non ha ancora trovato la forza di imporsi sull’abuso della finanza. Ciò è ancora una volta dovuto all’incapacità della politica di prevalere su parametri e interessi esclusivamente finanziari e circoscritti, a cui si somma quella ristrettezza di vedute che non guarda al lungo periodo, propria di una generazione di rappresentanti politici cresciuti nell’agiatezza degli anni ’80 e ’90 e che ancora crede in scuole di pensiero economico i cui modelli hanno mostrato tutta la loro fallosità con lo scatenamento della peggior crisi dopo quella del 1929.
Queste amare considerazioni sono nate nel corso di un riesame del problema delle terre rare, un argomento che ho già avuto modo di trattare in questo sito, e che ha assunto, nel breve arco di un anno, un’accelerazione eccezionale, che ha evidenziato, appunto, la miopia dell’Occidente e la lungimiranza della Cina. Per quest’ultima, infatti, non si è trattato soltanto di sfruttare al meglio la propria abbondanza di metalli diventati strategici per il futuro dell’economia dei Paesi più avanzati, sino a definire le terre rare “le vitamine dell’industria moderna”, quanto di agire diplomaticamente al punto da arrivare a controllare il 95% della produzione mondiale – oltre a detenerne già il 35% delle riserve sfruttabili - e di aver preso coscienza della loro strategicità come arma nelle relazioni diplomatiche. Lo si era già visto, nel 2010, con l’incidente fra Pechino e Tokyo per le isole Senkaku, a cui erano seguite restrizioni cinesi nella esportazione di quei metalli, tanto da mettere in crisi l’unico settore trainante dell’industria nipponica, ossia quello dei prodotti high tech. Non meno grave, ma meno conosciuta fu anche la minaccia, al pari di un vero e proprio ricatto, di sospendere le forniture di terre rare agli Stati Uniti, suggerita in blog e giornali cinesi, sempre nel 2010, all’indomani della decisione dell’amministrazione di Obama di fornire armi a Taiwan per 6,4 miliardi di dollari.
E il dominio cinese nelle terre rare sta scuotendo i legami commerciali proprio nella regione asiatica, come è accaduto sempre per il Giappone che si è visto costretto a allacciare rapporti con il Kazakhistan (attraverso la Sumitomo Corp. in accordo con la Kazatomprom) che, dal gennaio 2013, fornirà a Tokyo 1500 tonnellate di terre rare l’anno, ossia il 7,5% della domanda giapponese. Poca cosa rispetto alle forniture dalla Cina, ma si tratta dei primi segnali di un allarme globale che vede una corsa al loro accaparramento in ogni parte del mondo, con metodi che vanno dai tradizionali accordi commerciali sino ai traffici più o meno leciti e a vere e proprie guerre.
La consapevolezza della strategicità delle terre rare non è stata, però, una scoperta recente per la Cina: già nel 1992 Deng Xiaoping affermava che le terre rare erano per la Cina quel che il petrolio era per il Medio Oriente. Insomma una ricchezza infinita che dalle terre della Mongolia (il 50% della dotazione cinese) e del Sichuan (35%) veniva e viene utilizzata per oltre la metà nella produzione cinese di componenti elettronici e per lo sfruttamento dell’ energia solare ed eolica, e per il resto esportato soprattutto nel vicino Giappone (il 50% delle esportazioni) negli Stati Uniti (19%) e in buona parte dei Paesi dell’Unione europea (15%, fra Francia, Germania, Italia e Olanda).
Come scritto già in precedenza, il paradosso dell’intera questione delle terre rare è dovuto alla scarsa e ora tardiva considerazione che ne è stata fatta del loro impiego da parte dell’Occidente, quando l’intera attività industriale statunitense – e con essa si intende anche la proficua attività di ricerca e sviluppo in campo militare – e quella che dovrebbe essere la panacea per uscire dalla crisi anche per l’Europa, ossia la green economy e tutto quanto ad essa collegato (dalle energie alternative, ai motori elettrici e ibridi per auto, ad esempio) dipendono dalla disponibilità sul mercato di questi metalli. Lo stesso Strategic Energy Plan (SET-Plan) europeo, che si fonda su 6 tecnologie low carbon (ossia nucleare, eolico, solare, cattura CO2, energia da biomasse e reti elettriche), sarebbe a rischio per via del difficile e oltremodo costoso approvvigionamento di 5 metalli, quali indio, gallio, tellurio, neodimio e disprosio. L’allarme è così forte da fare incentivare una politica di riciclo che al momento garantisce poco più dell’1% del fabbisogno di questi metalli.
Nella batteria di un’auto ibrida giapponese fra le più vendute al mondo, vi sono 10 chili di lantanio e 1 di neodimio, così come una grande turbina eolica può contenere dai 260 chili e oltre di neodimio, mentre i missili Cruise e visori notturni in dotazione alle forze armate statunitensi dipendono da magneti, le cui componenti principali sono proprio questi elementi. Non è un caso che lo stesso Pentagono abbia istituito lo Strategic Materials Security Program (SMSP) che permette ai vertici militari americani di decidere quali metalli comprare, e soprattutto dove, al fine di aumentarne le scorte per la propria industria di difesa. Ciò permetterebbe di velocizzare un processo decisionale in materia di dotazione di armamento delle proprie forze armate, perché tecnologicamente all’avanguardia e in rapida evoluzione. Fra i 14 materiali più critici per la sicurezza statunitense vi sarebbero, quindi, il litio, alcuni acciai speciali e alcuni metalli propri delle terre rare. D’altronde l’azione e i suggerimenti del SMSP per lo stoccaggio di questi elementi strategici sono fondamentali per evitare quanto accadde in Afghanistan e in Iraq, nel 2003, quando l’intera struttura produttiva statunitense non era in grado di provvedere all’ acciaio necessario per gli Humvees alla protezione dei propri soldati su quei fronti di guerra.
L’aumento della domanda di prodotti altamente tecnologici (e non solo militari) ha provocato un’accelerazione nella richiesta di questi elementi strategici, con un rialzo vertiginoso dei loro prezzi (dai 200 al 1000%), a cui Pechino ha contribuito con restrizioni alle sue esportazioni (- 40% nel 2011). Ciò ha allarmato le industrie occidentali e asiatiche dei settori ad alta tecnologia, con la pronta risposta, però, dei mercati borsistici che ha visto l’ennesima opportunità di speculazione sull’andamento dei prezzi, sebbene ora sembra aver registrato un’inversione di tendenza, proprio per le aspettative circa la corsa ai ripari intrapresa dall’Occidente.
La domanda globale di questi elementi dalle 125mila tonnellate del 2010 è prevista, infatti, in ascesa, ed entro il 2015 dovrebbe salire a 225mila tonnellate. Inoltre, la Cina, proprio per difendere la fornitura alle proprie industrie in espansione, e non solo quelle per la produzione di componenti elettronici quanto quelle per le energie alternative, data la svolta “green” che il 12° Piano Quinquennale ha previsto per ridurre l’inquinamento ambientale, ha deciso di ridurre costantemente, per il prossimo decennio - in un programma, quindi, con tempi decisamente dilatati - le proprie esportazioni, con le immaginabili conseguenze sull’intera questione terre rare e innovazione tecnologica.
Gli stessi Stati Uniti posseggono uno dei più importanti giacimenti al mondo di questi elementi, nel Mountain Pass in California, tanto che fino agli anni ’80 producevano 20mila tonnellate l’anno, quando tutta la domanda mondiale era di 30mila. Tuttavia, dato l’alto livello di inquinamento dovuto alla loro estrazione e lavorazione, quel sito era stato chiuso, preferendo sfruttare l’offerta cinese, fino a qualche anno fa decisamente competitiva come prezzo e, fattore non da poco, lasciando a Pechino gli oneri di un inquinamento dai costi umani e ambientali elevatissimi. E’ difficile, infatti, trovare giacimenti il cui accesso sia esplorabile e sfruttabile a costi contenuti, richiedendo impianti altamente tecnologici, ed essendo la loro lavorazione tossica e in parte anche radioattiva. Di certo gli Stati Uniti, con la chiusura del giacimento di Mountain Pass, ora riaperto dalla Molycorp (la più grande azienda del settore fuori dalla Cina) e in partnership con la Hitachi Minerals, hanno salvato il loro ambiente, ma non hanno fatto i dovuti conti non solo con la loro dipendenza dall’ antagonista asiatico, quanto – cosa non da poco – con la perdita delle loro competenze tecniche in area metallurgica, chimica e fisica, richieste per estrarre quegli elementi. Infatti, questa preparazione appartiene ora solo più a chi ha investito pesantemente, negli ultimi decenni, nelle terre rare, ossia la Cina, appunto, e la Russia che, nella zona di Murmansk, in Yakuzia e nella penisola di Kola possiede il 20% di terre rare mondiali. La stessa diatriba fra Russia e Giappone sulle isole Curili sembra ruotare attorno alla scoperta di un giacimento di renio (la cui potenzialità è di 26 tonnellate a fronte di una domanda globale di 30 tonnellate annue) e di altri elementi rari dichiarati strategici da Mosca.
Ma c’è di più, e riguarda l’emergenza per l’economia e la produzione industriale in Occidente di magneti permanenti leggeri, strategici, ad esempio, per le batterie. Stando al Dipartimento per l’Energia statunitense, anche a fronte di una fornitura delle terre rare al di fuori della Cina, non vi sono aziende negli Stati Uniti con capacità tecnologica e proprietà intellettuale per separare, ad esempio, dalle altre terre rare in cui si trova, il neodimio, ossia un metallo strategico per la fabbricazione di puntatori laser verdi e, in lega con ferro e boro, fondamentale per creare magneti permanenti leggeri, ampiamente utilizzati nelle nuove strumentazioni high tech. L’autorizzazione a produrre questi magneti appartiene a un numero limitato di aziende in Germania, in Giappone e ovviamente in Cina, mentre la proprietà intellettuale – ed è in questi casi che appare in tutta la sua strategicità l’importanza della ricerca – appartiene sì alla Hitachi Metals, in accordo con la canadese AMR Technologies, acquistata, però, da un consorzio cinese già nel 1995.
In pratica, e questo è solo un esempio, non solo Pechino ha saputo garantirsi e fruttare quei metalli, ma ha anche salvaguardato tutto quel know how che ruota intorno allo loro estrazione ed applicazione, fra brevetti e capacità produttiva. L’intera questione delle terre rare, quindi, per quanto abbia scatenato un allarme globale e si sia corso velocemente ai ripari, sembra ancora ruotare attorno al monopolio della Cina.
Non è un caso che si stia cercando di scoprire materiali compatibili con le terre rare, oppure di riciclare – come sta facendo l’Enea - quei componenti presenti negli strumenti high tech, per poterne ridurre la domanda, l’estrazione, l’inquinamento e tutto quanto circonda la questione. Anche perché la contaminazione ambientale (alcune terre rare contengono, infatti, uranio e torio) è sì un fattore preoccupante, ma a cui è possibile trovare rimedi attraverso nuove tecniche estrattive, come quelle che hanno iniziato a sperimentare nel giacimento di Mountain Pass, che non disperdono fanghi tossici residui o che utilizzano tecniche di purificazione proprie dell’ idrometallurgica o della biometallurgica.
Oltre al riciclo – in fase iniziale e sperimentale - si prosegue nella ricerca di nuovi giacimenti come quello, costato centinaia di migliaia di dollari, scoperto in un’area di 600mila kmq nel deserto dell’ Arabia Saudita. L’Europa, che dipende per circa il 100% dalle forniture esterne e non volendo sottostare al monopolio cinese, si sta muovendo verso forniture russe, sudamericane (in particolare Brasile) e africane (Sud Africa).
Tutto ciò, molto sinteticamente, è quanto viene riferito sulla questione delle terre rare di più recenti studi scientifici e dalle analisi economiche.
Tuttavia, vi sono altri aspetti inquietanti che ruotano attorno a questi metalli diventati strategici più del petrolio per il quale si sono combattuti numerosi conflitti nel XX secolo. Anche per le terre rare sono state scatenate guerre, a cominciare da quelle diplomatiche (come con il Giappone ) e quelle commerciali in seno al Wto fra Stati Uniti, Unione Europea, Giappone, sempre contro la Cina per via delle sue restrizioni alle esportazioni e alla duplice politica dei prezzi, contenuti all’interno e drammaticamente alti all’esterno dei suoi confini, tanto da danneggiare imprese, produttori e consumatori del resto dei Paesi più industrializzati. Pechino ha ribattuto più volte che la Cina non può essere la “miniera del mondo”, con costi ambientali esorbitanti, senza trarre dei vantaggi come gli enormi guadagni dalla vendita delle sue terre rare. E non perde l’occasione per ribadire quanto sia contraddittorio l’atteggiamento dell’Occidente, pronto a rimproverare il governo cinese perché non farebbe nulla a protezione del suo ambiente, ma allo stesso tempo adirato perché la Cina avrebbe limitato l’estrazione di quegli elementi, sebbene per porre un freno alla contaminazione delle proprie acque e di vaste aree agricole.
Ma gli aspetti conflittuali più drammatici e che fanno emergere la scarsa lungimiranza e l’incoerenza dell’Occidente stanno in quelle guerre che schermate da finalità politiche anche umanitarie, stanno in realtà lacerando vaste aree geografiche, a partire dall’Afghanistan sino al Congo. Fonti del Pentagono riportano uno studio della US Geological Survey, secondo il quale nel sottosuolo afgano vi sarebbero terre rare per un valore che inizialmente si pensava fosse di 3mila miliardi di dollari ora salito a 7,4mila miliardi, con il rammarico che questi elementi sono, per la maggior parte, nel sottosuolo della riva meridionale del fiume Helmand, teatro di scontri fra i più cruenti – forse proprio per la sua strategicità - fra le forze statunitensi e i talebani.
Da tempo e da più fonti è stato, inoltre, segnalato come l’ingente ricchezza di coltan (ossia columbite e tantanite) sia il vero motivo del conflitto nella Repubblica democratica del Congo, nella sua regione del Kivu che, dal 1998, e nonostante una tregua nel 2003, ha fatto, sino ad ora più di 4 milioni di morti (secondo altre fonti 7 milioni). Iniziato per complesse rivendicazioni territoriali, a cui hanno contribuito conflitti tribali e anche interferenze esterne, quel conflitto è stato definito la grande guerra africana e ha lasciato come pesante eredità bande armate, responsabili di violenze e genocidi.
Le cronache sulle crudeltà di quegli scontri si sommano a quelle della quotidiana spietatezza con cui viene utilizzata la forza lavoro (per lo più ragazzini, data l’angustia dei giacimenti) per l’estrazione di questo coltan, strategico perché ottimizzatore di consumo di energia nei chip di ultima generazione. Insomma, l’ impiego di coltan negli apparecchi altamente tecnologici come gli smartphone che invadono i mercati dei Paesi più avanzati ha una funzione fondamentale e fortemente auspicata per il risparmio energetico dell’Occidente, a fronte, però, di un disastro ambientale e una ferocia su quelle genti che, quotidianamente, sono oggetto di violenze e di abusi da parte delle milizie armate che rivendono quei metalli al mercato nero o a quei mercanti in combutta con i politici locali e le grandi compagnie multinazionali. In questo modo si autofinanziano tutte le milizie che dal Burundi, Ruanda e Uganda intervengono ad esacerbare quel conflitto: secondo un rapporto delle Nazioni Unite il solo esercito ruandese avrebbe guadagnato oltre 170 milioni di dollari dalla vendita illegale di coltan alle multinazionali.
Questo insieme di elementi ha creato il fenomeno dei bloody phones e quello ad esso legato dei conflict-free metals, ossia a fronte di tanto sangue per l’estrazione e il traffico illegale di quei metalli per la produzione di cellulari di ultima generazione, alcune aziende, quali la Intel, l’Apple, la Motorola e l’HP si sono imposte di tracciare l’intera filiera di produzione dei propri prodotti al fine di evitare l’utilizzo di metalli, terre rare o elementi che derivino da scenari di guerra o ne siano addirittura la causa scatenante.
Ecco che appare, in tutta la sua tragicità e ipocrisia, la miopia dell’Occidente di cui si è parlato all’inizio di questo articolo. Non solo il mondo più industrializzato ha posto le fondamenta e i pilastri portanti per il suo sviluppo su produzioni altamente inquinanti, a cui corre ai ripari con accordi tardivi e non condivisi proprio dai maggiori responsabili del disastro ambientale (come nel caso del protocollo di Kioto e gli Stati Uniti); ma non ha nemmeno previsto che per riuscire nei suoi intenti più ambiziosi di crescita continua – che pare sia sempre e incessantemente l’obiettivo prioritario sino a diventare un’ossessione – necessitasse di elementi così strategici e circoscritti in aree a rischio o antagoniste, da dover ora ricorrere a conflitti, da quelli commerciali all’interno del Wto a quelli combattuti per davvero, per riappropriarsene. E’ ciò che sta accadendo in Afghanistan o, appunto, nella Repubblica Democratica del Congo, nel primo caso con la logorante guerra per togliere il controllo ai talebani di aree strategiche, e nel secondo Paese con il supporto dato a quelle élite dell’ Uganda a cui è necessario rivolgersi e pagare profumatamente favori per ottenere una concessione e la protezione delle loro milizie per arrivare al coltan congolese.
Che dire poi della crisi economica che sta sconvolgendo l’esistenza di imprese italiane che hanno un’unica via di salvezza, ossia quella di puntare sull’innovazione. L’eccellenza del manifatturiero italiano passa anche attraverso la ricerca e l’innovazione tecnologica, e non è un caso che nel febbraio del 2012 la Commissione industria e sviluppo dell’Unione europea abbia approvato un nuovo piano di allargamento per le proprie imprese in Africa, dalla Repubblica democratica del Congo, al Sud Africa, Ruanda e Congo, “al fine di continuare a svolgere un ruolo di leader nel mercato dell’innovazione”. Quanto è cosciente l’Unione Europea che, alla base di questo proposito ambizioso, vi sia quell’instabilità che da anni scuote parte di quell’Africa con conflitti mascherati da guerre tribali o religiose?
La sfida economica con la Cina passa anche da quei territori, in cui le terre rare, come altre materie prime strategiche, siano esse africane o cinesi, hanno un ruolo fondamentale. Non essersene accorti in anticipo è un limite che l’Occidente sta pagando a prezzo elevato; e qui sta la differenza fra i vincitori e i vinti di un confronto in cui la crescita e la recessione sono, rispettivamente, l’agognato traguardo finale e il ristretto ambito in cui è costretto a vivere il mondo occidentale non più così ricco e avanzato come si credeva. E alle accuse dell’Occidente alla Cina di non rispettare i diritti democratici fondamentali e di sfruttare la propria forza lavoro, Pechino non può che ribattere con i drammatici dati sulla grave disoccupazione e la dolorosa crisi sociale che attanagliano il mondo occidentale. Per le altre considerazioni sulla natura delle guerre che l’Occidente sta conducendo da anni, in varie parti del mondo, per il controllo di risorse strategiche, Pechino, con marziale freddezza, si astiene da ogni commento.
29/11/2012