Nel 2006, in piena guerra mondiale al terrorismo, un corrispondente del New York Times fece un reportage da Washington dove si era recato per intervistare alcuni rappresentanti delle massime istituzioni politiche ed economiche statunitensi, così come il capo della branca della sicurezza nazionale dell’ Fbi e alcuni esponenti del Committee sull‘ intelligence e l’antiterrorismo, chiedendo loro se sapessero la distinzione fra sunniti e sciiti, a chi facessero riferimento gli hezbollah o al-Qaeda, dove fossero dislocati, etc. etc. La risposta più frequente fu “Non saprei. Ma che importanza ha?”
A distanza di otto anni da quel reportage è possibile, forse, che quelle lacune siano state colmate: e sarebbe alquanto preoccupante se così non fosse, dato l’ampio e sanguinoso confronto che sta avvenendo fra quelle due identità del mondo islamico, dal vicino Oriente a gran parte del Nord del continente africano, dopo le vicende fallimentari delle primavere arabe, con in corso un conflitto come quello siriano o ancora con un Iraq che, nel solo 2013, ha avuto 9475 vittime in attentati di un terrorismo che, come la guerra in Siria, sembra proprio avere origine da questa inconciliabile distinzione, stando almeno a quella che è la lettura più diffusa e semplicistica di quanto sta avvenendo in quella regione.
Di fatto, e come sempre accade nelle vicende mediorientali, nulla è banalmente riconducibile a quelle che sono solo classificazioni che un Occidente impone attraverso i mass media, nel tentativo di agevolare la comprensione di una realtà molto complessa, fortemente sconosciuta, erroneamente considerata lontana, estranea o addirittura poco influente sulla propria vita quotidiana e degna di considerazione solo di fronte ai massacri di civili: il risultato è, però, la disinformazione dell’opinione pubblica, con il conseguente rischio, più grave, di grandi sbandate da parte degli analisti.
Conoscere e distinguere sunniti e sciiti è, quindi, il primo passo, e non mancano gli strumenti per informarsi al riguardo. Tuttavia, ciò che sta avvenendo soprattutto in Siria e Iraq, negli ultimi due anni, va ben oltre e bisogna stare attenti a non cadere nella trappola che quegli orrori siano solo alimentati dallo scontro fra le due nazioni “protettrici” dell’una e dell’altra parte, ossia, a livello locale, l’Iran per gli sciiti (da Bashar Assad in Siria al governo di Nuri al-Maliki in Iraq) e l’Arabia Saudita per i sunniti (l’opposizione siriana e la maggioranza del popolo iracheno); mentre, a livello più ampio e quasi da clima da guerra fredda, da un lato vi è una Russia non tanto pro-Assad quanto decisa a impedire l’allargamento del conflitto e a mantenere salvo il suo “sbocco” al mare siriano (ossia il porto di Tartus), e dall’altro lato vi sono Stati Uniti e Unione Europea, divisi e altalenanti nel loro interesse verso ciò che sta accadendo e limitatamente fiduciosi nella via diplomatica, ossia negli incontri di Ginevra 2, il 22 gennaio prossimo.
Ciò che sta avvenendo in Iraq e, da tempo, in Siria va decisamente ben oltre tutto ciò: la guerra civile siriana non è il frutto di una fallita primavera araba ma il tentativo (riuscito) di evitare lo scontro diretto fra un’Israele politicamente estrema, rappresentata dal governo di Netanyahu, angustiata dal programma nucleare iraniano e, appunto un Iran, a suo tempo anch’esso indirizzato verso azioni estreme non tanto da Ahmadinejad quanto da Khamenei, deciso a non mollare sul quel proposito. Il conflitto in Siria è stato avviato come diversivo per evitare il confronto diretto fra quelle due grandi potenze militari regionali, con possibili risvolti catastrofici. Limitatamente – e con inevitabili differenze dovute a periodi storici così lontani - si è ripresentato ciò che un tempo erano i conflitti per procura della guerra fredda; peccato, però, che una volta iniziato il conflitto in Siria, le cose siano andate e stiano andando in una direzione per altri versi e paradossalmente più difficili da gestire di una diatriba complessa e pericolosa come quella nucleare fra Israele e Iran.
Le vicende delle ultime settimane relative alla battaglia, conquista, perdita e quant’altro della irachena Falluja da parte delle forze dell’ ISIS (Islamic State of Iraq and Syria) o Stato islamico dell’Iraq e del Levante (ad-Dawla al-Islāmiyya fi al-'Irāq wa-sh-Shām, da cui ISIL), sono il segnale preoccupante dell’evoluzione dei fatti siriani e dei suoi più infidi protagonisti, ossia quelle forze alqaediste (di estremismo sunnita) contrarie al regime di Assad ma responsabili anche di violenze contro i suoi oppositori, così come sono indicazione del nuovo corso della stessa al-Qaeda come rete terroristica mondiale, capace sempre di mutare e rinnovarsi, come a rendere vani i tentativi di bloccarla nel suo divenire.
L’ISIS è, di fatto, l’espressione dell’evoluzione geografica di al-Qaeda in Iraq (AQI), già strumento chiave dell’insurrezione antiamericana sino al ritiro delle truppe statunitensi nel 2011; dopo di allora, ha preso vigore sino ad ampliarsi con il conflitto siriano e il reclutamento di elementi dell’al-Nusra, protagonista della guerra contro il regime di Assad ma anche in crisi organizzativa. Unendo le rispettive forze, ISIS e al-Nusra hanno di fatto resuscitato al-Qaeda che, con i primi successi delle primavere arabe, sembrava aver perso l’attrazione rivoluzionaria per quelle spinte estreme di cambiamento che premevano in vari Stati, soprattutto del Vicino Oriente.
L’ISIS è emerso come gruppo dominante, meglio strutturato e capace di attrarre combattenti jihadisti, non solo siriani ma anche stranieri, addirittura occidentali. Al suo vertice, poi, vi sarebbe quell’Omar Shishani, ceceno della Georgia (il cui vero nome è Tarkhan Batisashvili) a dimostrazione dell’infiltrazione di combattenti esperti nelle tattiche di guerriglia e di puro terrorismo ma anche totalmente estranei a quella che doveva essere la ribellione del popolo siriano contro il proprio regime. L’ISIS è anche descritta, nei rapporti dell’intelligence occidentali, come “fra le più attive e brutali organizzazioni terroristiche al mondo” che “conduce frequenti e spesso indiscriminati attacchi per massimizzare le perdite”, come dimostrano i 68 attentati con autobombe in un solo mese in Iraq e rivendicati dalla stessa organizzazione.
Sebbene l’ISIS, con i fatti di Falluja, abbia dimostrato di eccellere solo in tattiche terroristiche e non nel confronto con forze regolari, non è pensabile che dietro a tutto ciò non vi sia una strategia: l’ISIS non è un’entità da sottovalutare solo perché, secondo alcuni osservatori, vi è al suo interno un assiduo ricambio di uomini che non garantirebbero la continuità operativa o, addirittura, perché sembra che le sue azioni siano solo ed esclusivamente dettate da una violenta strategia della tensione che la porta ad essere isolata dal tessuto sociale in cui opera, per cui finirà per esaurirsi. Questi sono elementi ingannevoli propri della strategia terroristica di gruppi pseudorivoluzionari, come lo è, di fatto, l’ISIS.
I suoi vertici sono ben consapevoli dell’ irrealizzabilità del loro progetto del Califfato islamico di Iraq e Siria che vorrebbe abbattere i confini Sykes-Picot per creare una nazione a legge e istituzioni proprie dell’ estremismo islamico, in quel triangolo sunnita fra Ramadi, Falluja e Mosul, già dal 2004 al 2007 controllato da forze alqaediste e ora oggetto di confronto fra forze ISIS e quelle regolari irachene. Si tratta solo di un utopico progetto usato come fumo negli occhi per reclutare fanatici e confondere i più superficiali (o faziosi) osservatori occidentali. Con l’ISIS al-Qaeda, come fin dalle sue origini con i progetti di “internazionale anticapitalista del terrore” di Osama bin Laden, non intende compiere rivoluzioni sovversive ma attuare solo ed esclusivamente una strategia della tensione: infatti, contrariamente a come di solito si è portati a credere, per la realizzazione concreta – e non fasulla, come è avvenuto con le rivolte della primavera araba – di una rivoluzione è necessario l’ampio e autorevole sostegno della maggioranza del proprio popolo, di membri politici e religiosi locali e delle potenze regionali, in grado di accettare il cambiamento e di supportare la transizione di quella nazione o parte di essa.
E l’ISIS sa di non possedere nulla di tutto ciò, ma nemmeno è interessata ad averlo. Nella stessa provincia irachena di Anbar, l’ISIS si è scontrata anche con le milizie di tribù sunnite, e solo in seguito con le forze regolari inviate da Bagdad. In Siria, non è bastato far sventolare la propria bandiera nera sulle forniture di viveri e dare supporto medico ai ribelli, da Damasco ad Aleppo, per ottenerne l’assenso, e per dimostrare di avere riserve finanziarie e organizzative in grado di far cambiare rotta alla loro battaglia. L’azione caritatevole dell’ISIS è stata interpretata come puramente propagandistica, ossia un tentativo di proselitismo che vuol far gradualmente incuneare nella mente dei combattenti siriani l’eventualità – molto lontana - dell’istituzione di uno Stato islamico.
Ma a credere per davvero a questo progetto sono in pochi: lo dimostrano le divisioni interne all’ISIS avvenute in seguito alle violente azioni del gruppo contro i capi delle milizie nemiche, come nel caso di Hussein al-Suleiman del Fronte islamico (anch’esso sunnita e sostenuto dall’Arabia Saudita), attratto con l’inganno per una trattativa, rapito, torturato e poi ucciso. La stessa sorte sarebbe toccata a molte altre persone, da attivisti, politici, religiosi cristiani e giornalisti, sia siriani che iracheni, soprattutto se sunniti.
Inoltre, l’ISIS si finanzierebbe con attività nel mercato nero iracheno, dai furti al traffico di armi, rapimenti e riscatti sino a quello di droghe, per un giro di affari che, secondo fonti statunitensi, le sole estorsioni sul commercio locale nell’area di Mosul porterebbero nelle casse dell’organizzazione attorno agli 8 milioni di dollari al mese. Non è su queste basi che si fonda una rivoluzione per istituire un vero Stato in grado di cambiare la geopolitica di una regione.
E se si vuole ricercare un profilo strategico all’azione dell’ISIS, ebbene tutto ciò è solo ed esclusivamente strategia della tensione: non vi sono ambizioni rivoluzionarie in corso, se non nel lunghissimo periodo e nemmeno così scontate. L’ISIS, agguantando al-Nusra, ha imposto una cortina terroristica sulla guerra civile siriana e ampliato il suo raggio d’azione sull’instabilità politica interna di un Iraq in balia del dispotico e corrotto governo di Maliki, sciita filoiraniano, in disaccordo con una realtà curda in espansione economica e in cerca di maggior autonomia politica, e con una popolazione sunnita allo sbando, accusata di fare da sponda alle forze estreme sunnite (come l’ISIS, appunto), artefici degli attentati terroristici di cui sono vittime soprattutto gli sciiti.
Infatti, è sui sunniti che l’ISIS ha posto il suo controllo per agire nel resto del Vicino Oriente. Ed è qui che si concretizza quella che pare essere la “non-strategia” dell’ISIS e della nuova al-Qaeda a cui appartiene, che alcuni analisti hanno già definito, da un po’ di tempo anche se inascoltati, al-Qaeda 3.0.
Si tratta, infatti, della terza fase di mutamento di questa rete terroristica transnazionale che dalle prime, eclatanti ma irripetibili azioni, con a capo un unico leader quale era Osama bin Laden, è passata alla fase 2.0 con una sua riorganizzazione regionale (dall’AQAP della Penisola Arabica, all’AQIM del Maghreb) e due capi “storici” come Anwar al-Awlaki e Ilyas Kashmiri (entrambi uccisi dall’azione dei droni statunitensi) e le loro cellule (per lo più singoli individui) sparse in varie parti del mondo, e messa fortemente in crisi, come ho scritto più sopra e sempre per via del mancato supporto popolare, più dalle rivolte delle primavere arabe che dall’azione di contrasto al terrorismo della guerra con i droni. La stessa vittoria dei Fratelli Musulmani in Egitto, sunniti ma nemici storici del fanatismo sunnita alqaedista, aveva dimostrato che si potevano cambiare le cose nel mondo politico arabo e musulmano senza ricorrere al terrore ma con manifestazioni di piazza e azioni non violente. Non è un caso, infatti, che i Fratelli Musulmani egiziani siano stati travolti: certamente in parte ciò è accaduto a causa dei loro errori nelle alleanze regionali (il Qatar non ha il peso strategico e soprattutto finanziario dell’Arabia Saudita), ma anche perché il loro progetto di uno Stato con la sharia non rientrava nei piani di potenze regionali (sempre l’Arabia Saudita) a conferma di quanto descritto più sopra, con il risultato di un colpo di mano dei militari e una situazione di grande instabilità e insicurezza, come dimostra ciò che sta accadendo nel Sinai.
Non è un caso, quindi, che visti i fallimenti globali delle primavere arabe, dalla Libia alla Siria, al-Qaeda sia risorta.
Al-Qaeda 3.0, al momento, non punta ad azioni eclatanti in Occidente o al controllo delle principali capitali mediorientali e meno che mai ad attuare alcuna rivoluzione per istituire “califfati”. Essa si distingue dalle sue due versioni precedenti perché pare essere un insieme composito nelle sue componenti organizzative e nei loro obiettivi, anche se formato da una galassia di gruppi armati, composti da elementi locali ma soprattutto stranieri, infervorati da medesime velleità jihadiste e indirizzati su identiche attività prettamente criminali oltre che stragiste.
Se al-Qaeda agisce, ora, con attentati in Bagdad (con l’ISIS) o al Cairo (con il gruppo Ansar Bayt al Maqdisi), o addirittura a Beirut (con le Brigate Abdullah Azzam) è per distrarre le forze armate regolari irachene, egiziane e libanesi dall’attaccarla là dove i suoi militanti si incontrano, si addestrano, condividono fanatismo religioso e know how operativo. Si tratta di quelle che definisco le “aree periferiche critiche”, quei santuari in cui l’attività terroristica viene ideata e i suoi esecutori accolti e formati: in Iraq sono le province di Anbar, Mosul e Diyala e in Egitto è il Sinai, dove le città costiere sono state oggetto di 260 attacchi terroristici da luglio 2013 a oggi, solo come risposta all’azione di contrasto portata avanti dalle forze regolari egiziane e per distrarle da un resto della penisola ormai in mano a bande jihadiste e alqaediste di varia provenienza. Non a caso, per alcuni analisti, il Sinai sembra essere destinato a subire un aumento di violenza e di contrasto nel nuovo anno.
Per ampliare l’orizzonte geografico, lo stesso Mali dapprima, e poi la Libia e il Niger, nelle loro vaste aree desertiche e di confine, hanno ospitato e ospitano gruppi jihadisti alqaedisti, originando una sorta di franchising dell’azione terroristica di questa al-Qaeda 3.0, volta solo ed esclusivamente a creare instabilità e a mantenersi con traffici illeciti. Si tratta, quindi, solo di criminali, al più fanatici religiosi, che agiscono con tattiche terroristiche, al servizio di chi ha interesse a mettere le mani su Paesi o anche solo aree dalle grandi ricchezze petrolifere, idriche e strategiche.
Ciò che emerge, quindi, dall’azione dell’ISIS e della nuova al-Qaeda è la sua prepotente componente jihadista, con l’utilizzo delle zone periferiche e di confine di Paesi, instabili dopo i sofferti e tragici epiloghi delle proteste, concepite strategicamente come “aree fluide” da cui partono azioni contro centri urbani, per lo più le capitali, non per una loro conquista ma solo ed esclusivamente per alimentare l’instabilità regionale e imbrogliare ulteriormente uno scacchiere geopolitico e geoeconomico strategico per la stabilità e l’ordine mondiali.
Tornando, quindi, all’Iraq e all’azione dell’ISIS ecco che si può comprendere la richiesta agli Stati Uniti del premier sciita Maliki di dotare il suo Paese di droni (10 ScanEagle e 48 Raven) proprio per azioni di IS&R, ossia la ricognizione e sorveglianza in particolare delle aree periferiche e di confine. Inoltre, la stessa dislocazione di cellule operative dell’ISIS nei villaggi e città lungo l’Eufrate, oltre che nell’area a sud di Bagdad, configura la presenza alqaedista sul territorio iracheno a macchia di leopardo: l’azione IS&R dei droni potrebbe essere di efficace ausilio operativo per le forze di contrasto sul territorio.
Queste forniture che Washington si appresterebbe a concedere in cambio di una “riconciliazione” fra il governo sciita di Bagdad, i sunniti ma soprattutto i curdi - in attrito con Maliki per il loro accordo autonomo con la Turchia circa la fornitura di petrolio iracheno senza il benestare politico del governo centrale – andrebbero a supportare l’azione dell’ intelligence irachena, al momento troppo debole a causa di uno sconsiderato accentramento di poteri, dalle forze armate ai servizi di sicurezza, gestiti direttamente da Maliki (a lui rispondono, infatti, i ministeri degli Interni e quello della Difesa sino alla polizia locale, forze paramilitari e corti di giustizia). Costui, inoltre, in scadenza di mandato (il terzo e difficilmente rinnovabile alle prossime elezioni del 30 aprile) non gode più del supporto unanime dei massimi gradi di quelle strutture, per il fatto che avrebbe addirittura introdotto nelle forze armate la figura dei dimaj o “commissari politici”, così come le sue simpatie filoiraniane avrebbero alimentato le lotte interne al potere. Maliki viene, però, accusato soprattutto di mancate risposte efficaci all’aumentata violenza, preferendo concentrarsi nella sua altalenante, confusa e lamentosa politica estera, sempre in cerca di appoggi, finanziamenti e forniture militari da Washington a Mosca sino a Pechino.
Perché è proprio sull’inevitabile e urgente rafforzamento delle forze militari regolari irachene che si sta giocando un confronto a più elementi fra queste potenze mondiali: la lentezza nelle decisioni e nelle consegne da parte statunitense starebbe favorendo seriamente la Russia come fornitore di armi all’Iraq, dato che Mosca si è dimostrata più attiva nelle decisioni e rapida nelle consegne, allontanando qualsiasi implicazione di carattere politico. Un normale giro di affari che potrebbe solo essere compromesso se venissero confermate le voci di possibili scandali circa la corruzione di alcuni esponenti politici russi. Non da meno appare interessata la stessa Cina, a cui Maliki ha fatto richieste precise di armamento pesante.
Agli Stati Uniti, Maliki avrebbe chiesto anche armamento per azioni ben più strategiche, come gli elicotteri da combattimento Apache: e Washington sembra oscillare fra il desiderio di proteggere l’Iraq con un ombrello aereo in grado di contenere la minaccia iraniana (sarebbero a rischio di ritorno gli antichi rancori sullo Shatt el-Arab, e la relativa sicurezza degli impianti petroliferi iracheni off-shore) e i limiti di budget statunitensi dovuti alla diversione dei fondi per la difesa verso quella che è la politica di contenimento della Cina in Estremo oriente. E mentre Washington sta cercando una soluzione alla crisi di sicurezza irachena, il governo di Maliki freme sotto l’assalto dei jihadisti alqaedisti, gli attentati in tutto il suo territorio e un’incertezza sul suo futuro che fanno puntare il dito contro il malgoverno e la corruzione dei due mandati del premier sciita.
La situazione si sarebbe così deteriorata che Maliki non godrebbe nemmeno più del sostegno di Teheran con un Rohani pressoché deciso a non supportarlo alle prossime elezioni, come fece, invece, Ahmadinejad nel 2010 garantendogli l’appoggio e il voto dei Sadristi iracheni. In questo suo secondo mandato, Maliki avrebbe alimentato l’odio settario, indebolendo l’unità nazionale e bloccando l’evoluzione e il rafforzamento delle istituzioni indipendenti. Ciò, secondo Teheran, avrebbe portato ad un forte aumento del rancore e della violenza contro gli stessi sciiti e un sentimento anti-iraniano così radicato e diffuso nella regione da risultare troppo deleterio, soprattutto in vista delle nuove trattative sul nucleare.
Tutto ciò, inoltre, è stato contornato da un livello elevatissimo di corruzione in vasti settori della pubblica amministrazione irachena e in particolare nelle fila delle sue forze armate, tanto da compromettere tragicamente la sicurezza del Paese: gli stessi attentati con autobombe fatti dall’ISIS in Bagdad sarebbero avvenuti con l’appoggio tattico del personale di quelle Iraqi Security Forces (IFI) a cui è delegata la sicurezza del Paese. Inevitabile che ciò stia rendendo l’Iraq del dopoguerra una nazione fortemente divisa e instabile, ad alto rischio per gli investimenti stranieri, sebbene vi sarebbero segnali di ripresa economica grazie anche ai forti introiti derivanti dal rilancio delle esportazioni di petrolio.
Le sorti dell’ISIS sono, quindi, rigorosamente legate a quelle dell’attuale instabilità politica, economica e militare dell’Iraq, con tutto quanto si è solo e brevemente accennato sino ad ora: la via per la normalizzazione di quel Paese si sta dimostrando lunga e impervia, e necessiterebbe non solo delle forniture militari richieste a Washington (con un’amministrazione Obama in parte ostacolata dai tagli ai bilanci militari ma soprattutto incerta per innumerevoli motivi, come l’eventuale uso di quelle armi da parte di Maliki contro pacifici oppositori interni) ma soprattutto di quel mix di “operational thinking and organization” che fu la ricetta di successo negli anni 2007-2008 delle truppe statunitensi del gen. Petraeus. Allora quel comando permise di concentrarsi totalmente in azioni di antiterrorismo, decapitando i vertici delle differenti organizzazioni e indebolendone le infrastrutture. In seguito, tuttavia, gli Stati Uniti avrebbero commesso in Iraq l’errore che già fu del Vietnam e ora dell’Afghanistan, ossia dare troppa enfasi alla quantità di intervento più che alla qualità dello stesso. Non sono arrivati a mediare nei contrasti fra le forze politiche, etniche e religiose in quel Paese, cercando di mutarlo secondo propri parametri e schemi ma che, una volta ritirate le proprie forze militari, nel 2011, sono riemersi dal limbo in cui li avevano cacciati, con le rispettive fazioni più determinate ed agguerrite di prima ma anche in balia di elementi come, appunto, al-Qaeda e quanto ci gira intorno, come ora l’ISIS o quel Movimento per il risveglio islamico (Ḥarakat al-Inqādh al-Sunniy, in una delle sue definizioni), ossia quella forza paramilitare messa da parte da Maliki ma che, secondo alcuni esperti dell’antiterrorismo occidentale, rappresenterebbe il più importante e crescente problema di sicurezza per l’Iraq.
Contrastare questa minaccia alqaedista deve diventare una priorità non solo per l’Iraq, data la sua longa manus su altri Paesi, dal Nord Africa ai Territori palestinesi: perché è necessario ribadire e non sottovalutare il fatto che l’ISIS è non solo l’ espressione concreta della nuova al-Qaeda 3.0 ma soprattutto il richiamo ad una insurrezione transnazionale jihadista tanto da diventare più che un problema solo regionale: lo stanno dimostrando l’attentato a Beirut del 2 gennaio scorso, in un quartiere fra l’altro sotto il controllo degli hezbollah, con le inevitabili conseguenze di reazione di questi ultimi che gli analisti non potranno non considerare, oppure le azioni terroristiche nel Sinai, con il gruppo Ansar Bayt al-Maqdisi, o anche il solo fatto che, ai vertici della nuova al-Qaeda, appartenga un ex leader di al-Nusrah, quel Mohammed al Golani che, nel suo nome di battaglia, ricorda ai siriani, desiderosi di riscatto, quel territorio perso nel confronto armato con Israele molti anni or sono.
Ecco che la nuova al-Qaeda, che opera ai confini, nelle aree periferiche, con nuovi capi come questo Golani o, ai vertici dell’ISIS in Iraq, Mohammed al-Bagdadi, meno inclini ad apparire pubblicamente come i loro predecessori, rischia di ampliarsi a macchia d’olio sull’intera area, attraendo anche fanatici jihadisti decisi a sfidare persino gruppi come hezbollah o addirittura, secondo fonti di intelligence, a insinuarsi in Gaza, sebbene “protetta” dalle forze israeliane a nord e da quelle egiziane a sud, minandone la sua sicurezza e aggravandone la condizione di degrado e di povertà.
Paradossalmente le azioni militari dell’ISIS-alQaeda come quelle a Falluja hanno il vantaggio di far uscire allo scoperto le loro forze e i loro capi, annullandone quella natura ghost-like, ossia clandestina, che è stato il punto di maggiore forza di questa nuova espressione alqaedista. Ciò comunque non è sufficiente e rassicurante. Rimane, di fatto, la drammatica consapevolezza che il terrorismo di matrice alqaedista ha ripreso vigore, dimostrando ancora una volta come sia la personificazione terrificante di tutti i problemi insoluti di una regione come quella mediorientale, viziata da regimi, corruzione, fallimenti economici a fronte di ricchezze strategiche come il petrolio e il gas – nessuno Stato escluso – a fianco di un aumento demografico che permette il rinnovo continuo di una forza combattente di giovani, la cui unica alternativa, per ora, è data dalla lotta per chimere estremiste. Se a costoro, poi, si affiancano combattenti provenienti dagli antichi fronti, come lo sono stati la Cecenia, o più recenti, come l’Afghanistan o la Libia, a cui si aggiungono fanatici anche di altre parti del mondo, senza che venga a contrapporsi una efficace e vasta azione di contrasto che li colpisca nei loro santuari periferici e che stronchi le loro attività criminali fonti primarie di sostentamento, non è possibile pensare di rendere stabile politicamente e sicura militarmente quella parte di mondo.
Ecco perché l’alqaedista ISIS e qualsiasi altra sigla che seguirà potranno durare a lungo in quella regione e là dove non saranno garantite adeguate alternative più consone a quelle realtà degli impossibili ed irrealizzabili governi democratici in stile occidentale.
7/1/2014
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