Porsi domande sull’operazione che ha messo fine all’esistenza di Osama bin Laden è legittimo in un mondo che si vuole democratico e in cui brucia una ferita lacerante come l’11 settembre, e quanto ne è seguito in tutto il mondo. E’ anche inevitabile dopo le fandonie raccontate all’indomani di quei fatti per avviare e legittimare una guerra contro il terrore che aveva già, nei migliaia di morti di quel giorno, la sua dichiarazione e la sua fondatezza.
E’ anche giusto mostrare cautela nel rivelare tutto quanto è accaduto, per non alimentare fanatismi o isterismi, sia contro che a favore della lotta armata: si vuole evitare – è stato detto – di trasformare bin Laden nel martire-icona dell’estremismo islamico e terroristico, come hanno già sperimentato gli Stati Uniti con un Che Guevara, ucciso mentre combatteva la sua ennesima rivoluzione, e gettato in una fossa comune, dopo essere stato però immortalato cadavere in una fotografia che è diventata simbolo della lunga mano, potente ed invisibile, degli apparati segreti della potenza americana.
Una cautela dettata quindi da motivi di sicurezza, memori delle lezioni della storia passata, anche se le foto false e i misteri su un frettoloso funerale in mare stanno sortendo effetti dannosi, con feedback peggiori della cruda verità, perché alimentano ancor più lo scetticismo dei complottisti, ossia l’altro grande nemico di ogni presidente americano, in grado di fargli perdere consenso a spron battuto anche a livello internazionale.
Anche perché, finiti l’entusiasmo e l’euforia per quell’operazione, è necessario dare risposte che non siano solo e sempre colme di retorica, pregio e, nel contempo, schermo occultante della vera coscienza dell’ amministrazione Obama, tanto da far affermare ad alcuni osservatori – come David Frum, neocon e ideatore dell’ “Asse del male” – che finalmente “è un presidente americano “ e che vi è continuità fra l’attuale presidente e il suo predecessore, quel disprezzato G.W. Bush contro cui era stata lanciata una campagna elettorale all’insegna del “change”.
Di certo non si è voluto catturare bin Laden in nome della sicurezza, quanto chiudere un conto in sospeso da più di dieci anni, dato che “l’Internazionale del terrore” organizzata dallo sceicco saudita era già presente, ben prima dell’11 settembre, nella lista delle priorità dei servizi segreti di mezzo mondo.
Da come era evoluta al Qaeda, già da alcuni anni, con nuovi protagonisti e con numerose cellule attive in gran parte del mondo, è difficile pensare che bin Laden potesse dirigere ancora qualcosa da quel suo bunker che, con le villette presenti tutt’ attorno, aveva di diverso solo un muro di cinta un po’ più alto. Nessun contatto esterno, meno che mai internet o cellulari. Nessun strumento per registrare video in grado di eccitare la folla: da anni si sentivano solo più messaggi audio.
Eppure di occasioni per esaltare le masse per la sua lotta contro i Crociati e gli Ebrei ve ne sono state, e anche numerose: dagli attentati a Londra e in Spagna sino agli scontri – se non vere e proprie guerre – fra israeliani e palestinesi o gli hezbollah a sud del Libano; per non parlare dei momenti più neri per le truppe americane della guerra in Iraq, dalle torture di Abu Graib alla catena di morti giornaliere fra quei soldati.
Tutte occasioni per mostrarsi e rilanciare la guerra santa contro la barbarie degli odiati occidentali e il loro supporto al disprezzato Stato sionista. Ma bin Laden non si è più mostrato: e sono ridicole le affermazioni di una sua cautela per non essere individuato. L’uso del mezzo video da parte di tanti personaggi che lo hanno affiancato negli anni non ha permesso sino ad ora la loro cattura.
Si tratta di elementi sicuramente meno carismatici ma non per questo meno pericolosi; con le loro saltuarie apparizioni hanno perpetrato il mito di al Qaeda, ma hanno anche alimentato dubbi sull’esistenza ancora del principe del terrore e, fatto ancora più singolare per chi studia l’evoluzione del fenomeno terroristico, anche della vera portata minacciosa di quel movimento.
Con l’uccisione di bin Laden si è solo voluto colpire l’obiettivo principale della guerra al terrore nato nel 2001, ma non si è posto fine alla minaccia che il terrorismo islamico ancora rappresenta attraverso tutte le nuove connotazioni che ha assunto nel frattempo.
Infatti, l’aumentato timore di rappresaglie di quel che è ora al Qaeda, in ogni dove nel mondo, ha fatto innalzare il livello di guardia come nel 2001, tanto da chiedersi se non era meglio non innescare questa miccia con quell’uccisione ed evitare così inesorabili ritorsioni in nome di un martire-simbolo di una lotta che sembra trovare – stando ai dispacci dei vari organi di sicurezza – una nuova linfa vitale.
Non è nemmeno rassicurante sentire affermazioni secondo le quali non vi sono stati né giubilo né dimostrazioni ostili all’Occidente alla notizia di quell’uccisione fra le popolazioni tunisine o egiziane, assurte a principali protagoniste di una svolta politica, interna e internazionale dei loro rispettivi Paesi, a testimonianza, quindi, che al Qaeda non conta più nulla nel mondo musulmano.
Proprio il silenzio testimonierebbe ancor più come l’affare bin Laden fosse solo più una questione quasi “personale” fra Stati Uniti e quanto attiene al loro desiderio di vendetta per quanto accadde nel 2001; è, però, altrettanto ingenuo pensare che l’estremismo islamico, con i suoi agganci regionali e mondiali, possa fermarsi solo perché bin Laden è stato eliminato.
Proprio il delicato passaggio di quei Paesi da decenni di regimi a governi di transizione e in attesa di elezioni popolari, con le relative incognite di una realtà indebolita da lunghe sofferenze e con pochi anticorpi perché non avvezzi alla pratica del confronto libero e democratico, li rende vulnerabili ad attacchi terroristici destabilizzanti se non a pericolose derive estremiste collegate con i peggiori elementi del fanatismo islamico.
Occorre non abbassare la guardia: e ciò vale per noi, in Occidente, ma soprattutto per costoro in balia di venti di ribellione e cambiamento che, in aree strategiche in cui si incrociano interessi mondiali, rischiano di travolgere la loro corsa verso nuove libertà.
L’operazione ad Abbottabad, così come è stata spiegata dai massimi vertici statunitensi, è stata la vittoria dell’intelligence e della tecnologia: strumenti esclusivi dei Paesi ricchi ma non così diffusi ed efficaci nella stragrande maggioranza di quelle realtà dove il fattore umano, con i suoi elementi famigliari-tribali, culturali, religiosi rappresenta una variabile fra le più delicate, meno conosciute se non del tutto incomprese dai think tank mondiali della lotta al terrorismo.
Il terrorismo si combatte efficacemente con l’intelligence e la cooperazione internazionale fra agenzie, civili e militari, che solo in questo modo concretizzano, se condiviso, l’obiettivo politico del suo contrasto e della sua eliminazione definitiva. Non si tratta di creare panico e di alimentare ulteriormente il teatrino delle emergenze nazionali: il problema esiste, occorre prepararsi adeguatamente per arginarlo se non eliminarlo, senza però dare vita a tutta quella manfrina di equivoci che invece si è verificata con l’operazione statunitense per l’uccisione di bin Laden.
E’ una delle contraddizioni più eclatanti che emerge da tutta la vicenda: gli Stati Uniti, ed in particolare con questa amministrazione baluardo della libertà e della trasparenza nelle informazioni, in questa operazione e attraverso i loro massimi esponenti politici, hanno incautamente adottato un atteggiamento omertoso, cambiando continuamente versione e adottando una prudenza eccessiva, perché timorosi di ritorsione, ma dagli effetti boomerang che presto o tardi colpiranno pesantemente Obama e il suo staff.
L’eccessiva cautela o, peggio, la titubanza, la poca chiarezza soprattutto sui rapporti effettivi con il Pakistan sono fattori di cui Obama dovrà rendere conto, rischiando di vanificare i benefici effetti sul suo innalzamento momentaneo di popolarità dovuta all'operazione per l'uccisione di bin Laden, ossia quella che, alcuni osservatori, hanno già definito come l’unica “uscita onorevole dal pantano afgano”.
Attraverso il Pakistan, infatti, in questo frangente, passa il fattore cruciale della politica estera di questa amministrazione: ossia quel conciliare la pesante eredità dell’11 Settembre, e quindi la guerra in Afganistan, con la dottrina Obama, quella Responsibility to Protect (R2P) che è già in atto in Libia – ma, incoerentemente o forse troppo prudentemente, non in Siria – e che mette totalmente in discussione ruoli, obiettivi e occasioni di intervento delle forze americane.
La R2P tatticamente prevede attacchi aerei con velivoli senza pilota e operazioni di Forze Speciali, in una chiara svolta con quello che è stato, sino al 2010, l’approccio del gen. Petraeus in quel scenario: il Pakistan, più che l’Afghanistan sta da tempo sperimentando questo nuovo modo di contrastare il terrorismo da parte statunitense.
Il Pakistan è ora il punto cruciale: già è stato detto tutto della sua posizione strategica in Asia centrale, con il suo armamento nucleare, le sue regioni santuario dei terroristi talebani o di al Qaeda, della sua rivalità con l’India e dei possibili agganci doppiogiochisti con la Cina.
E’, però, anche il Paese che sta pagando di più nella lotta contro al Qaeda, come ha affermato il suo ministro degli esteri: oltre 30mila civili pachistani – uomini, donne e bambini e non guerriglieri – hanno perso la vita negli ultimi anni per attentati terroristici o per attacchi di contrasto con i droni statunitensi, mentre 5mila fra agenti di sicurezza e militari sono morti per combattere al Qaeda e altre organizzazioni terroristiche affiliate. E’ come se “al Qaeda avesse dichiarato guerra al Pakistan”, ha affermato quel suo ministro.
E’ anche il Paese che sta offrendo di più agli Stati Uniti in termini di “collaborazione”, come dimostra il consenso dei suoi massimi responsabili politici agli attacchi americani con i droni sul Waziristan e nonostante il gioco poco pulito di contractors e spie statunitensi sul suo territorio: il prezzo da pagare è un antiamericanismo diffuso fra la gente che meraviglia Washington che non sa spiegarsi del perché di cotanta ostilità e che obbliga Islamabad a destreggiarsi fra gli alti e bassi del consenso popolare e i cospicui finanziamenti americani in cambio della collaborazione.
In Pakistan si sta giocando la vera guerra contro il terrore iniziata dagli Stati Uniti nel 2001: è impossibile che l’Isi non sapesse della presenza di bin Laden e, di conseguenza, dell’operazione condotta il 1° maggio. Anche perché si è trattato di un’operazione identica a quella che ha portato alla cattura, a fine gennaio scorso, per mano di forze speciali pachistane (SSG o Black Storks, di cui vi è anche una unità della Marina, come i Navy Seals) di Umar Patek, un terrorista della frangia indonesiana di al Qaeda, non certo del calibro di bin Laden ma mente degli attacchi terroristici, fra gli altri, a Bali nel 2002, e ricercato alla stregua dello sceicco del terrore.
Già in quell’occasione vi fu un attrito fra Isi e Cia proprio su chi dovesse prendere in consegna Umar Patek, al momento ancora in mano pachistana e pronto per essere consegnato alle autorità indonesiane, con grande disapprovazione dell’agenzia di intelligence statunitense che ne rivendica la tutela. Un attrito riguardo a competenze e ambiti che è sempre sullo sfondo dei rapporti fra questi due Stati.
Tuttavia, il commando di Navy Seals che hanno ucciso bin Laden è partito dalla base di Tarbella Ghazi, a 20 chilometri da Islamabad e quartier generale proprio di quella SSG o unità di élite dell’esercito pachistano coinvolta, come nel caso di Patek, proprio nella cattura di terroristi. La collaborazione fra Stati Uniti e Pakistan e la messa a disposizione di questa base sono sancite da accordi del 2008 proprio per operazioni di alto profilo, come quella del 1° maggio.
Impossibile che l’Isi non sapesse; la cautela nel non coinvolgere le autorità pachistane sta solo nel tentare di non far precipitare il Paese nella catastrofe della rappresaglia terroristica delle bande di al qaedisti, come ha già annunciato il gruppo Tehrik-e-Taleban Pakistan (TTP, o Pakistan Talebano), e responsabile, la sera stessa del 2 maggio, di un attacco terroristico nella provincia di Khyber Pakhtoonkhwa dove è situata Abbottabad.
Certo rimangono oscuri tanti elementi, operativi e tattici: ma fa parte di questo tipo di operazioni ed è inutile invocare trasparenza in nome della libertà di informazione e del diritto di un popolo democratico di sapere come funziona quella frangia di lotta al terrorismo.
Ciò che tuttavia alimenta ancora di più i dubbi non solo sull’operazione in sé, ma sui suoi protagonisti, statunitensi e pachistani, è la ridda di affermazioni diverse e smentite affannate provenienti dalle differenti componenti anche appartenenti allo stesso Stato, come Cia e Dipartimento di Stato, o autorità politiche pachistane che sconfessano quelle militari del loro paese e che finiscono per supportare l’ipotesi del complotto e far sì che la vittoria sul ricercato numero uno del terrorismo mondiale si ripercuota come una sonora sconfitta del candidato Obama alle elezioni del 2012.
Anche il Pakistan non è messo meglio: le accuse agli Stati Uniti di violazione del proprio territorio nazionale e di coinvolgimento suo malgrado nella guerra al terrorismo cozzano con accordi e collaborazioni già attivi da tempo fra Washington e Islamabad. Sembra quasi che l’antico alleato pachistano cerchi in questo modo solo di placare gli animi di chi, al suo interno, condanna apertamente metodi e sistemi di contrasto e guerra al terrorismo imposto da alleati, come gli Stati Uniti, troppo scomodi e poco inclini a tentare diplomaticamente alternative al Grande Gioco che si sta svolgendo da troppi anni in Asia Centrale.
Inutile, tuttavia, ricorrere ad ipotesi e connessioni con quanto fino ad ora si sa e con quanto si saprà dell’intera vicenda dell’uccisione di bin Laden.
Sono altri gli elementi di cui è necessario indagare e discutere: si tratta, infatti, di comprendere meglio comportamenti ed inclinazioni dei tanti soggetti coinvolti nella guerra contro il terrore che si sta combattendo da anni in quella parte di Asia. Occorre partire dal basso (tribù, sette religiose) e raggiungere il massimo livello (rapporti fra Stati e potenze regionali e mondiali), passando attraverso interessi economici (dal gas al petrolio), ma soprattutto da quelle piantagioni di oppio che sono la vera fonte di finanziamento di quel terrorismo, e il cui commercio sempre più fiorente rende per nulla credibili le dichiarazioni di volerlo contrastare.
Altro fattore cruciale che non deve essere trascurato è quello umano, come il carisma di un capo, la trasparenza del suo comportamento e la coerenza con le sue affermazioni, e come le sue relazioni interpersonali possano determinare o meno la vittoria in quella guerra al terrore.
E questo vale sia nelle valli afgane o nei centri di villeggiatura pachistani come nei meandri delle stanze del potere a Washington o Ryadh - dove tutto ebbe origine con lo sceicco Osama bin Laden e i suoi rapporti d’affari con la famiglia Bush - così come in qualsiasi altra parte del mondo.
Solo indebolendo le “relazioni pericolose” che possono essersi stabilite a tutti quei livelli e minando finanziariamente la struttura terroristica di qualsiasi sigla, nome o colore, allora si potrà dire di aver vinto la battaglia contro il sovversivismo. Altrimenti, unica alternativa, rimarrà il ricorso alle armi, o in guerre infinite o in assalti di commando, di cui non si avranno testimonianze, se non sgranati e freddi fotogrammi con visori notturni e traballanti immagini di un’azione degna di un videogame.
6/5/2011
6/5/2011