Le coincidenze sono poco credibili quando si stratta di politica internazionale; ancor meno quando avvengono in uno Stato, come il Pakistan, nell’occhio del ciclone degli stravolgimenti delle relazioni interstatali in Asia Centrale in questi ultimi mesi. Il 23 maggio, all’indomani dell’annuncio del ministro della difesa pachistano, Chaudhary Ahmed Mukhtar, di aver chiesto e ottenuto da Pechino il supporto per la costruzione di una base navale a Gwadar - nel sud ovest del Paese, a poche miglia dal confine con l’Iran - con l’intento di garantirsi una presenza cinese costante, un attentato sconquassa la base aerea navale di Karachi, con 10 morti e 15 feriti.
L’affare Osama bin Laden e, prima ancora, la guerra al terrorismo combattuta dagli Stati Uniti sul suo territorio, fra droni, spie e contractor, hanno messo in luce le contraddizioni dei massimi organi politici e di intelligence pachistani, fra inettitudine, colpevole ignoranza di presenze pericolose, doppi giochi e corruzione.
E l’attentato, rivendicato dal gruppo terroristico Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP), è una risposta a questa cattiva e debole gestione politica ma è anche il risultato del turbinio di decisioni e di azioni non dipendenti esclusivamente da Islamabad e che fa parte di un gioco strategico di più ampia portata, gareggiato su quel territorio in cui si confrontano grandi potenze come Stati Uniti e Cina.
E proprio fra Washington e Pechino, Islamabad sta oscillando fra desiderio di maggior stabilità e sicurezza interna, e ambizioni economiche e commerciali mondiali. Il fatto, però, che l’annuncio della collaborazione fra Pakistan e Cina sul porto di Gwadar sia stato fatto da un ministro della Difesa fa presupporre che il suo ruolo non debba essere solo ed esclusivamente economico e commerciale.
Ecco che il Pakistan si risolve ad essere, in questo momento, la chiave di volta decisiva del passaggio dall’impotente unilateralismo americano, lasciato in stand by dall’amministrazione Obama, a un sistema policentrico in cui concorrono tutte le potenze, vecchie, nuove ed emergenti, e che si incunea dal Nord Africa all’Asia centrale.
Una transizione dolorosa che colpisce Paesi o aree a forte valenza strategica ma soprattutto con vulnerabilità servibili all’occorrenza: e le rivolte, le guerre civili e gli attentati di questo primo semestre del 2011 sono solo un primo assaggio di queste manovre.
La posta in gioco è altissima: a nord del Pakistan si lotta contro il terrorismo di al Qaeda, e il Waziristan, al confine con l’Afganistan, sta vivendo una guerra giornaliera da cui dipendono fortemente il conflitto afgano e il relativo impiego di quelle forze militari internazionali di cui si invoca, da tempo, il ritiro. La condivisione dell’obiettivo finale, ossia la sconfitta del pericolo terroristico fra Stati Uniti, Cina, India e Pakistan stesso, permette anche gli omicidi mirati con droni e azioni di commando, come quella che ha portato all’uccisione di Osama bin Laden, con relativa passiva accettazione della violazione di sovranità territoriale.
A sud del Pakistan, invece, si sta delineando una prova del futuro scontro fra potenze, dato che non vi è un obiettivo condiviso, come la lotta al terrorismo: ci si fronteggia, infatti, per il controllo dei mari, da quello Arabico all’oceano Indiano, ossia le grandi vie di transito per il commercio mondiale, di ogni bene e risorsa strategica, soprattutto il greggio. E la nuova base, che si vorrebbe a Gwadar, rappresenta un tassello che, secondo alcuni analisti, confermerebbe le ambizioni cinesi di diventare una potenza militare globale.
Si partirebbe, quindi, da considerazioni che già a fine ‘800, Mahan, il teorico del sea power, aveva evidenziato chiaramente, ossia il controllo di porti e basi navali, intesi come punti di appoggio per una competizione, senza esclusione di colpi, per favorire la proiezione del proprio potere commerciale e militare.
La strategicità di quelle acque è cosa ormai più che nota; meno le ambizioni cinesi circa il loro controllo, anche se fonti del Pentagono confermano che dietro alla decisione sino-pachistana circa la nuova base di Gwadar, vi sarebbero proprio le mire egemoniche militari cinesi di lungo termine, da tempo in via di realizzazione attraverso la c.d. strategia del “filo di perle”.
In realtà, il porto di Gwadar era già stato costruito dai cinesi e dato in gestione per 40 anni alla Singapore Port Authority; ma una base navale militare ha un’altra valenza e, inutile dirlo, una fonte di preoccupazione notevole per Stati Uniti e India.
L’ inquietudine americana riguarda soprattutto la possibilità concreta che in questa base stazionino navi o sottomarini cinesi pronti al pattugliamento del mar Arabico o comunque delle acque del Golfo Persico, oltre a quelle antistanti al Golfo di Aden e l’Africa orientale. Un controllo militare strategico dalle implicazioni economiche evidenti.
L’India non può che mostrarsi preoccupata di doversi confrontare, e di controbilanciare il proprio potere marittimo con un’ingombrante presenza navale cinese in quelle acque antistanti alle sue coste.
Le mire cinesi sul Pakistan sono, al momento, per lo più economiche e commerciali: il porto di Gwadar permetterebbe il transito delle importazioni petrolifere cinesi che, attualmente, passano dallo stretto di Malacca, troppo vulnerabile agli attacchi pirateschi. Non è un caso, infatti, che accanto ai piani di potenziamento del porto si siano aggiunti anche quelli per un oleodotto che da Gwadar , attraverso tutto il territorio pachistano e affiancato da una nuova rete ferroviaria, raggiungerebbe la Cina.
Un potenziamento di infrastrutture così necessarie per il Pakistan e così collaudato da Pechino in molti altri Paesi, soprattutto africani, da risultare strategico e più che mai fattibile. Si tratterebbe di un nuovo tassello a quella strategia del “filo di perle” e un completamento della far sea defense strategy che ha visto i cinesi attivi anche nella costruzione o nel rimodernamento di porti nello Sri Lanka, nel Bangladesh e a Myanmar. E la presenza di migliaia di tecnici, consulenti e lavoratori cinesi impegnati nella realizzazione di strade, centrali elettriche e servizi per le telecomunicazioni sono già la prova fondata della penetrazione commerciale cinese in Pakistan, un Paese strategico ma anche bisognoso di assistenza economica e industriale.
Di fronte a tanto attivismo, stonano e suonano presuntuose le promesse occidentali, e soprattutto europee, di impossibili piani Marshall – peraltro mai attuati – per aiutare le popolazioni, come quelle del Nord Africa, ad uscire da povertà e degrado, cause principali di rivolte e fonti di crescente fanatismo religioso. Un ricorrere ai ripari tardivo, che pesa come un macigno nei rapporti internazionali, in particolare dell’ Unione Europea. La logica di Pechino è quella di anticipare e non di accomodare i disastri di anni di dannose politiche relazionali.
L’attentato a Karachi ha, tuttavia, sortito immediatamente il suo effetto: sebbene Pechino si sia dimostrata interessata a collaborare per il porto di Gwadar, ha comunque avanzato dubbi sulla stabilità del governo di Islamabad, anche perché la regione in cui si trova quella località, il Baluchistan, è da tempo campo d’azione di forze separatiste, molto attive e da oltre sessant’anni in lotta contro il governo centrale sia pachistano che iraniano.
Una storia tormentata e sanguinaria con velenose accuse di sostegno ai terroristi beluci da parte della Cia e dell’India, chiaramente in funzione rispettivamente antiraniana e antipachistana. Una regione per lo più arida e desertica, ma con ricchezze minerarie sfruttate fin dagli anni ’80 e con una riserva di gas naturale, nel distretto di Sui, fra le più importanti della regione. Nella sua città di Qetta, inoltre, vi è la base operativa di quei “studenti coranici” che, facendo riferimento al mullah Omar, hanno operato per anni nell’Afganistan meridionale contro le forze internazionali.
Il progetto dell'oleodotto sino-pachistano si insinuerebbe, inoltre, fra quelli di altri due grandi progetti per il gas, l’IPI (Iran, Pakistan, India) e il TAPI (Turkmenistan, Afganistan, Pakistan, India), facendo svanire, per il primo, le illusioni di pace e di distensione fra Delhi e Islamabad con la condivisione del gas iraniano, mentre per il secondo tutte le ambizioni statunitensi e dei suoi alleati in quella regione e alla base del conflitto in Afganistan.
Un gioco per il Pakistan che si sta rivelando troppo pericoloso perché disputato su troppi fronti contrastanti.
Non è un caso, infatti, che a marzo, l’Iran sospendeva la realizzazione dell’IPI, proprio per la crescente instabilità interna pachistana e con il benestare della stessa Islamabad, ricredutasi sul progetto del gasdotto nel timore di un aumento del ruolo egemone nella regione da parte di un’India più indipendente energeticamente.
E tutto ciò, unitamente all’affare Osama e alla guerra contro il terrorismo con i droni nel Waziristan, fa sì che il Pakistan abbia preso coscienza del suo ruolo chiave nei difficili e contrastati rapporti del nuovo sistema multipolare che si è creato, e stia cercando di muoversi autonomamente verso nuove alleanze strategiche.
Perché dagli incontri fra Pechino e Islamabad è anche nato l’accordo per forniture di armi: da quelle convenzionali a sistemi come i caccia Chengdu J-10 e JF17 Thunder (FC-1 Fierce Dragon) e le fregate F-22P classe Zulfiquar, oltre ad accordi per l’addestramento di personale pachistano, manovre congiunte militari e antiterroristiche e soprattutto la condivisione di informazione di intelligence militare.
Proprio l’Aereonautica e la Marina cinese hanno maggiormente goduto di forti investimenti, per la ricerca di aerei di quinta generazione e per lo sviluppo di una capacità avanzata di difesa di area; lo stesso è accaduto per la tecnologia gps e il programma di lancio in orbita di 35 satelliti, in una sfida per il dominio dello spazio che, seppur cautamente, procede e conferma l’intenzione di Pechino di espandere le proprie capacità militari, di controllo e di sorveglianza, ma che sta trascinando altri Paesi, nuovi rivali come l’India, o nemici storici come il Giappone, in una competizione costosa, e non sempre affine, come in quest’ultimo caso alle proprie norme costituzionali o allo spirito nazionale decisamente pacifista.
Ma gli accordi della Cina con il Pakistan non debbono meravigliare, se dal 2008, anno della sua elezione, il presidente Asif Ali Zaradari si è recato ogni tre mesi a Pechino per contatti ai massimi livelli.
Non si tratta di una novità: già negli anni ’80 e ’90, la Cina aveva dato supporto tecnologico al Pakistan per il nucleare e, attualmente, è l’unico Paese che desidera sostenere Islamabad in quella sua rincorsa sia a fini energetici che militari. E in questo contesto, proprio nel mese di maggio, è ripartita la collaborazione tecnica con Pechino per l'impianto nucleare di Chasma, nel Punjub, a nord del Paese.
L’aiuto cinese è giustificato anche dal tentativo di aiutare il Pakistan a contenere quella minaccia di instabilità per Pechino che proviene dai militanti islamici che appoggiano la lotta degli Uiguri nello Xinjiang e a quel Movimento Islamico del Turkestan che, posizionato con basi di addestramento anch’esso in Waziristan, conduce il suo jihad contro Pechino, per l’indipendenza del Turkestan e per l’islamizzazione di quella parte di popolazione cinese.
L’aiuto cinese è giustificato anche dal tentativo di aiutare il Pakistan a contenere quella minaccia di instabilità per Pechino che proviene dai militanti islamici che appoggiano la lotta degli Uiguri nello Xinjiang e a quel Movimento Islamico del Turkestan che, posizionato con basi di addestramento anch’esso in Waziristan, conduce il suo jihad contro Pechino, per l’indipendenza del Turkestan e per l’islamizzazione di quella parte di popolazione cinese.
Se all’accordo fra questi due Paesi, siglato per commemorare i 60 anni di relazioni diplomatiche, non è stato data enfasi mediatica da parte di Pechino, è per via delle cautele cinesi di non turbare Washington e Delhi. Ma le cautele sembrano non siano state sufficienti e gli analisti del Pentagono hanno già iniziato ad allertare i propri vertici.
Inevitabile che le manovre pachistane con Pechino avranno influenza sulla decisione circa il ritiro delle truppe americane e della Nato dall’Afganistan. Lasciare scoperto quel fronte e permettere il rafforzamento della presenza cinese in una nazione, come il Pakistan, che – non dimentichiamolo – detiene armi nucleari, significa rafforzare un asse antioccidentale a scapito dell’unico pilastro della politica statunitense nell’area, ossia l’India. Difficile immaginare le conseguenze di un tale rafforzamento antiamericano e il possibile effetto domino sul resto dell’Asia, soprattutto quella meridionale, dove Pechino ha già cautamente e sistematicamente posizionato le sue “perle”.
Quanto sta accadendo in Asia centrale, ed in particolare nei Paesi che si affacciano sulle acque dell’oceano Indiano, è l’inevitabile risultato della diminuzione del ruolo degli Stati Uniti di bilanciamento nel Pacifico, non più garantito appieno dalla sola presenza della VII Flotta. Di certo il divario fra potenza navale cinese e quella statunitense è abissale: ma non si tratta di una conquista di sea power attraverso un confronto diretto, come sperato dagli strateghi occidentali.
Il ricorso al conflitto è, infatti, proprio della cultura clausewitziana e non è in grado di soddisfare, da tempo, le ambizioni di lungo periodo di una Cina che, decisa a rafforzare e soddisfare il suo apparato militare, non intende logorarlo e smembrarlo in lunghi e inconcludenti confronti bellici.
L’avanzata cinese procede su altri fronti, meno appariscenti del dislocamento di forze militari navali a scopo deterrente, come fatto sino ad ora dagli Stati Uniti in ogni dove al di fuori dei propri confini.
Pechino sa di non poter competere militarmente, al momento, con gli Stati Uniti e le sue ambizioni economiche, commerciali e fors’anche egemoniche poggiano su altri fattori, primo fra tutti l’erosione della supremazia statunitense.
Sta ai politici americani comprendere questa sfida: Pechino sta lanciando attraverso il Pakistan, un messaggio molto chiaro a Washington, ossia che l’egemonia in Asia centrale non passa attraverso il ricorso continuo, logorante e straziante alle armi, ma nel rafforzamento di un consenso popolare che deve innanzitutto abbattere quel forte sentimento antiamericano che, azioni violente quotidiane in spregio alla sovranità di quel Paese e per colpa di una élite politica debole e corrotta, hanno alimentato pericolosamente a favore di derive religiose estremiste e di alleanze pericolose con potenze straniere, dalla Cina all'Iran.
La base di Gwadar è un tassello pericoloso: gasdotti e lotta al terrorismo sono i fattori più evidenti. Ma è anche il possibile punto di lancio di una proiezione di potenza della Cina verso acque, come quelle dell’oceano Indiano e il mar Arabico, strategiche per il commercio, ma soprattutto verso quelle più agitate del Golfo Persico, via di accesso indispensabile alle fonti petrolifere e all'origine di tutti i conflitti combattuti dagli Stati Uniti in questi decenni post guerra fredda.
26/5/2011
Foto: fonte www.china-defense-mashup.com