Di fronte alla crisi che sta agitando le acque del Golfo Persico si è portati ad imputare ad un Iran monolitico e compattamente unito contro l’Occidente, tutta la responsabilità di quanto potrà accadere, non considerando per nulla che quella nazione sta subendo al suo interno un cambiamento istituzionale, epocale e generazionale, che vede contrapporsi le due anime del potere politico-finanziario e militare, da un lato, il suo presidente Ahmadinejad e, dall’altro lato, quello della massima autorità religiosa sciita, l’ayatollah Khamenei. Si tratta, quindi, di considerare anche questi elementi in un’analisi che si pretende sia quantomeno accurata, se a rischio vi è l’eventualità di un conflitto.
Si sta, infatti, disputando in Iran una lotta interna molto cruenta che ha dato il via allo scontro elettorale per il rinnovo del Majlis, il Parlamento, il 2 marzo, in cui la partecipazione popolare alle votazioni sarà solo di facciata, essendo il sistema elettorale iraniano pilotato dalle massime autorità religiose e le candidature dei deputati già decise a priori. Tuttavia, ciò che si sta giocando, pesantemente, in quel Paese è anche la futura influenza iraniana sulle enclavi sciite sparse nella regione, dalla irachena Bassora, sino a quel sud del Libano che tanto preoccupa, per ovvi motivi, Tel Aviv, così come quella alawita siriana o, per ampliarsi verso il Centro Asia, all’afgana Herat. Non comprendere quanto sta accadendo all’interno dell’Iran e soffermarsi solo sugli aspetti più evidenti (anche se allarmanti) della sua politica estera è partire con il piede sbagliato per evitare una grave crisi che potrebbe giungere, proprio attraverso la crisi siriana non risolta adeguatamente, sulle sponde del Mediterraneo. A meno che, e mi ripeto, tutto ciò non sia voluto proprio per risolvere con un conflitto, il grattacapo iraniano.
Lo scontro ai massimi vertici politici iraniani è dato da molteplici fattori, in cui Ahmadinejad punta a ottenere la maggioranza nel Parlamento. Per raggiungere questo obiettivo, e contrariamente a quanto appare esteriormente, Ahmadinejad non vuole attriti e scontri in politica estera, propendendo per una stabilità in politica estera in grado di non distogliere l’attenzione popolare dalle prossime elezioni, e soprattutto per non alimentare tensioni che, sull’onda delle rivolte arabe, potrebbero portare a tumulti interni di difficile gestione. E’ in quest’ottica che va letto il suo viaggio in America Latina, ossia la ricerca di un appoggio internazionale che supplisca all’opposizione generalizzata all’Iran, cementata attorno agli Stati Uniti e all’Europa sulla questione del nucleare, ma che sta favorendo l’ala dell’agguerrito e ultraconservatore ayatollah Khamenei.
Quest’ultimo, infatti, come massima guida spirituale delle comunità sciite – e notevolmente sparse nella regione del Golfo e del Medio Oriente – sta da tempo muovendo attivamente pedine per impostare su nuove basi istituzionali l’Iran e su agganci internazionali che lo vedrebbero decisamente a favore della Cina. Infatti, al suo interno Khamenei sta lavorando per una modifica della Costituzione al fine di eleggere il premier attraverso il parlamento e non, come avviene ora, direttamente dal popolo.
Sebbene non si tratti di un programma a breve termine, tuttavia, gli attriti con l’attuale presidente Ahmadinejad darebbero alla massima autorità religiosa iraniana l’occasione storica per questo passo istituzionale, fortemente sostenuto da una parte dei vertici militari, ma soprattutto dai potenti pasdaran e dai basij (Basij-e Mustazafin, o Mobilizzazione degli Oppressi) quella forza paramilitare sorta all’indomani della rivoluzione khomeinista del 1979, con il compito, garantito dalla stessa Costituzione, di difendere la rivoluzione e lo Stato islamico.
I pasdaran e i basij – che l’Occidente definisce genericamente Irgc o Iranian Revolutionary Guard Corps, da distinguere dalle Forze armate tradizionali - sono ormai un’unica entità – che numericamente è superiore alle forze armate di numerosi Paesi del Golfo – posseggono una struttura che si è andata rafforzando con la presidenza di Ahmadinejad, avendo anch’egli militato nelle fila dei pasdaran, e con il comando del gen. Jafari (definito il Petraeus iraniano, da cui la dottina Jafari); l’Ircg è presente capillarmente su tutto il territorio con un sistema di comando decentralizzato che permette di agire indipendentemente per contenere, attraverso le sue brigate Ashura e al Zahara, eventuali tumulti, così come di essere autonomi in caso di attacchi esterni al fine di decapitarne i vertici.
Questa struttura è diventata famosa, infatti, a livello internazionale, nel 2009 per la dura repressione delle manifestazioni del Movimento verde. Sempre costoro sarebbero, inoltre, i responsabili dell’assalto all’ambasciata italiana, nel 2009, e a quella inglese nel 2011. Ai pasdaran e ai basij è delegato, inoltre, il controllo e lo sviluppo del programma balistico iraniano e sono quelli che, ora, maggiormente sostengono le azioni di attrito con l’Occidente, dal proseguimento del programma nucleare alla minaccia della chiusura dello stretto di Hormuz.
Il ruolo dell’Irgc è aumentato in maniera considerevole con la presidenza di Ahmadinejad. Dai 300mila effettivi del dopo rivoluzione del 1978, alla fine della guerra contro l’Iraq, i suoi veterani nel 1988, erano già 2 milioni; se a questi si sommano i basij, effettivi e veterani, con quei cittadini comuni addestrati per la sicurezza interna e considerati la loro forza di riserva, l’Irgc raggiunge ora la considerevole cifra di circa 11milioni di elementi, su una popolazione di 70milioni di abitanti. Un insieme così vasto di appartenenti attuali ed ex, tuttavia, che non deve essere considerata come un complesso monolitico; infatti, al suo interno vi sono divisioni e correnti che stanno facendo la differenza nella competizione politica interna iraniana, soprattutto quanto ex appartenenti vengono nominati in posti chiave, come alla guida del Consiglio supremo di sicurezza nazionale o di quello dell’intelligence.
Sebbene Ahmadinejad sia stato l’artefice dell’aumento del loro potere, tuttavia, la nomina dei vertici di questa struttura militare spetta alla massima guida religiosa, che dovrebbe attenersi a una posizione neutrale; ma con Khamenei non è stato così, tanto che può contare sull’appoggio di costoro nel duello con Ahmadinejad. In pratica, Khamenei ha forzato – in contrasto con altri fra i più alti esponenti religiosi iraniani - per una potente militarizzazione a supporto di quell’azione di islamizzazione che dovrebbe essere il suo unico compito come massima guida religiosa iraniana ma anche sciita. Ecco perché il ruolo e l’influenza di Khamenei è decisamente più preoccupante se a gestire l’Irgc fosse soltanto un organo politico istituzionale, come il presidente Ahmadinejad. La sua influenza, infatti, va oltre i confini nazionali e si spinge con un’ autorevolezza senza eguali verso le enclavi sciite citate più sopra.
L’intensità di questo scontro ai massimi vertici politici, religiosi e militari iraniani è data dalla potenza degli interessi economici che sono stati messi in gioco, sia internamente che esternamente nel braccio di ferro fra Iran e Occidente.
I pasdaran e i basij sono, infatti, detentori di interessi economici notevoli e molto potenti in Iran, tanto che rappresentano un vero e proprio Stato nello Stato. Costoro, infatti, controllano un numero molto elevato di bonyads, ossia fondazioni - simili a organizzazioni non profit - nate già sotto la dinastia Pahlevi a sostegno dei ceti più poveri e diventate ora un potente mezzo di controllo sociale e di amministrazione economica e finanziaria – soprattutto dopo la politica di privatizzazioni iniziata a fine 2009 - gestendo, ora, il 30% della ricchezza nazionale prodotta dal Paese.
Queste fondazioni, frammentate in numerose entità simili più piccole e molto attive, sono pubbliche ma esenti da tasse, e non sono sottoposte ad alcun controllo statale, sebbene rispondano politicamente all’ayatollah Khamenei. La loro potenza economica sta nelle molteplici transazioni finanziarie fra fondazioni più grandi con quelle più piccole, che non sono controllate e nemmeno tassate. In quest’ampia zona grigia per nulla conosciuta all’Occidente - persino ai tecnici del Fondo monetario internazionale che le hanno definite complex and deceptive, e da cui si sono drasticamente tenuti fuori - che risiede la potenza di Teheran contro qualsiasi forma di embargo e sanzioni finanziarie decise dalle Cancellerie occidentali.
Eppure, e per quanto se ne sia a conoscenza, vi è anche un’attiva partecipazione internazionale alle bonyads iraniane da parte di alcuni Stati, come quelli sudamericani, dal Venezuela, il Brasile e l’Argentina, anche se l’accusa più comune che viene fatta è che internazionalmente esse agiscano a supporto alla propaganda e alle azioni terroristiche. Tuttavia, per quel che è dato di sapere, il movimento di denaro all’interno dell’Iran così come nelle transazioni finanziarie esterne al paese con le bonyads, funziona con i sistemi della zakật (“elemosina”, ma anche “purificazione”, che permette al musulmano di contribuire al processo di solidarietà sociale) e dell’ hawala ( trasferimento di valori, da cui anche l’avallo nel codice italiano), propri della finanza islamica; i suoi meccanismi non sono ancora adeguatamente conosciuti dall’Occidente – che li relega esclusivamente a strumenti di finanziamento del terrorismo - ma che stanno subendo un incremento del 20% annuale solo nella regione del Medio Oriente e del Nord Africa, per via di principi etici che mancano al sistema finanziario occidentale, ormai troppo speculativo e decisamente in crisi.
L’appoggio delle massime autorità religiose iraniane ai pasdaran e alle loro bonyads è strumentale per via del ruolo, per i primi, di controllori politici e, per le seconde, di promotrici di servizi sociali, su cui poggia il consenso popolare e, di conseguenza, la legittimità del sistema teocratico. Da sempre la teocrazia iraniana ha sostenuto una politica di sussidi con i ricchi proventi di gas e di petrolio, che si è concretizzata, grazie alla bonyads, in una forte presenza dello Stato e del governo nelle attività economiche e produttive nazionali.
Per questi motivi, il ruolo dominante delle bonyads rappresenta anche una fonte di tensione, avendo diviso in due sia l’economia che la società iraniana, in quanto con i loro privilegi garantiti dalle massime autorità militari e religiose del Paese, esse penalizzano il resto del settore economico e produttivo privato, dei piccoli imprenditori e dei commercianti. E sono costoro, che rappresentano un parte del ceto medio iraniano, a creare l’alternativa moderata che si vuole contrapporre all’ ultraconservatorismo di Khamenei.
Per quanto contrastate, tuttavia, le bonyads permettono alle autorità religiose – come è accaduto per gli Hezbollah nei dahiya, o sobborghi più poveri di Beirut, o di Hamas in Cisgiordania e Gaza –una politica sociale di sussidi e di assistenza che crea un vasto consenso popolare. A tutto ciò, per ora, non vi è ancora un’alternativa, né economica né sociale, in grado di scalfire il loro potere e quello di chi le controlla.
Le bonyads e l’élite dei massimi vertici dei pasdaran gestiscono, infatti, oltre un centinaio di imprese in vari settori, dalle telecomunicazioni alle costruzioni di infrastrutture, ma anche banche e istituto di credito, con un ruolo dominante, tuttavia, nell’attività estrattiva di gas e di petrolio, in particolare nella ricchissima area iraniana di South Pars.
Proprio dai ricchissimi introiti delle vendite degli idrocarburi del South Pars provengono i fondi che servono a finanziare la politica di sussidi statali così importanti per vaste aree dell’Iran e per il consenso ai suoi massimi vertici religiosi.
In quelle acque antistanti l’Iran, si estende infatti il più grande deposito di gas naturale al mondo, dopo quello russo, che Teheran divide con un altro protagonista nel Golfo Persico, ossia il Qatar. Infatti, l’Iran è il secondo produttore al mondo di gas naturale e il piccolo emirato qatarino il terzo produttore, godendo delle ricchezze di quel che è il South Pars (iraniano)/North Dome Field (qatarino), ossia un’area di circa 10mila km (di cui 3700 iraniani e i restanti 6000 qatarini) con i suoi circa 51 trilioni di metri cubi di gas e 7,9 miliardi di metri cubi di gas liquefatto naturale. E’ una tale abbondanza che per il Qatar, un’area poco più grande dell’Abruzzo e con 1,5 milioni di abitanti, significa un approvvigionamento per soddisfare la domanda mondiale per almeno 300 anni.
Forte di questa ricchezza e di indipendenza economica, il Qatar da alcuni anni si sta muovendo a livello politico e diplomatico ben conscio anche della sua posizione strategica, ossia al centro del Golfo Persico, a metà strada verso lo stretto di Hormuz e il Golfo dell’Oman, ma soprattutto a poca distanza dall’Iran, dal paese ora coinvolto nel grande gioco fra potenze regionali e mondiali.
Dall’inizio delle rivolte nell’area arabica, il Qatar ha agito per muovere l’asse dei dialogo e dei rapporti proprio fra potenze, quelle occidentali, Stati Uniti in testa, e il resto della comunità del Medio Oriente e persino del Centro Asia. Ha sostenuto, anche grazie alla sua rete al Jazeera, le rivolte nel Maghreb per poi censurarle nel momento in cui rischiavano di esplodere nella penisola arabica, con il rischio di sovvertire quelle monarchie e quello status quo che non giova ai grandi interessi economici e finanziari che ne verrebbero stravolti. Ora sta pesantemente sostenendo i Fratelli Musulmani, le forze salafite e quelle sunnite, da Tunisi all'Egitto.
Ed è sempre dell’emiro del Qatar - che dispone di un esercito di mercenari provenienti dal Pakistan e dal Bangladesh - la richiesta presso le Nazioni Unite di un intervento armato che sovverta il regime di Assad e ponga fine alla guerra civile in Siria, così com’era stato un forte sostenitore dell’intervento armato in Libia. Inoltre, sempre dal Qatar, è arrivata l’offerta di accogliere la sede di rappresentanza dei talebani afghani, che dal Pakistan si trasferirebbero a Doha (spostando così l’asse del dialogo e dei rapporti fra costoro e gli Stati Uniti dall’Asia centrale al Golfo Persico), come pure l’ufficio politico di Hamas, obbligato a lasciare Damasco per via di quella guerra e soprattutto per svincolarsi da un alleato scomodo della Siria, ossia l’ ingombrante Iran.
Impossibile non vedere in quanto sta accadendo nel Golfo Persico e per l’Iran in particolare, e in tutti i suoi aspetti politici ed economici e di influenza regionale, il ruolo predominante dell’ immensa ricchezza South Pars/North Dome Field, e del valore aggiunto che essa apporta alle manovre politiche di chi ne detiene il controllo.
E ciò non vale solo per il regime teocratico iraniano ma anche per le ambizioni di altri protagonisti dell’area, come il piccolo ma potente emirato del Qatar. Un giacimento di gas da cui dipenderà, come da quello russo, il futuro delle economie più industrializzate, come quelle occidentali, o comunque con maggior crescita economica, come quella cinese. Una consapevolezza di potenza e di influenza che è ben giocata dal piccolo emirato. Eppure sebbene rappresenti una pedina strategica, cruciale per tutti i principali protagonisti del risiko nel Golfo Persico e per il futuro del Grande Medio Oriente, non è totalmente considerata dall’Occidente troppo distratto da modelli interpretativi limitati, costretti in parametri e in logiche binarie ormai morte e sepolte, ma di cui, a quanto pare, non riesce a farne a meno o, semplicemente, sono funzionali a progetti di destabilizzazione, la cui realizzazione non passa solo attraverso le minacce di guerra con l’Iran ma anche con l’agonia della Siria e della sua gente.
Ciò che sta avvenendo in Siria non è né simile ma nemmeno la continuazione delle rivolte maghrebine iniziate un anno fa; è un qualcosa di totalmente nuovo, per protagonisti e per alleanze, regionali e internazionali, come l’Iran e tutto quanto ruota attorno ad esso come potenza dalle ambizioni nucleari e dai pericolosi estremismi religiosi.
Ciò che è avvenuto nella Penisola Arabica e ciò che sta avvenendo in Siria, sicuramente, sono solo l’inizio di un forte cambiamento che è previsto nella regione, in cui sono chiamati a partecipare, con il ruolo di protagonisti, potenze come Turchia, che sta ospitando i profughi e i combattenti liberi siriani, oppure Israele - che con Damasco ha ancora in sospeso la questione del Golan e teme la dotazione di nucleare da parte dell’Iran - o realtà meno evidenti ma decisamente importanti, come la Giordania, per vicinanza fisica e perché da essa stanno arrivando forniture militari per i rivoltosi siriani, così come si stanno preparando le basi aeree nell’eventualità di un intervento armato in Siria.
Quell’area da sempre rappresenta uno scacchiere strategico con protagonisti e ruoli difficili da gestire con equilibrismi diplomatici complessi ma necessari perché anche l’Occidente non ne venga travolto da isterismi, come lo è stata l’inconcludente guerra in Iraq e i suoi otto lunghi anni. E’ anche l’area con ricchezze da cui dipendono i destini economici di gran parte del mondo industrializzato. Ridurre il tutto a una contrapposizione fra “buoni” e “cattivi”, “asse del bene” e “asse del male” rischia soltanto di atrofizzare le menti e di non pensare ad alternative valide, come aiutarli a costruire dapprima e a sostenere in seguito adeguate forze di opposizione che possano veramente dare un futuro a quelle richieste di democrazia e di maggiori diritti, che sono urlate a gran voce in Siria o in Yemen ma che, in altre realtà, e in condizioni ancora peggiori, come in Arabia Saudita o Bahrain, complice un Occidente opportunista, incoerente ed ottuso, non hanno avuto voce quanto basta per poter cambiare le cose.
2/2/2012
Foto: M. Farajabadi, ISNA