Un anno fa, di fronte al rischio di una imitazione delle rivolte del Nord Africa, il governo cinese decise di aumentare, e anche di molto, le spese per la sicurezza interna: dai 50 miliardi di dollari del 2010 ai circa 95 del 2011. Dal 2007, infatti, il governo cinese ha dovuto fronteggiare oltre 90000 proteste all’anno, soprattutto nelle province di Liaoning e di Xianjiang, oltre al più famoso Tibet. I motivi sono totalmente differenti: nella prima si protesta per migliori condizioni di vita, nella seconda sono gli islamici Uiguri a confrontarsi con il resto della popolazione a maggioranza Han, che ha il pieno appoggio del governo centrale, per rivendicare la loro indipendenza, e per il terzo è in gioco l’autonomia da Pechino.
E’ di poco più di qualche settimana fa, inoltre, la notizia dell’aumento delle spese militari complessive previste da Pechino per il 2012, ossia 110 miliardi (con una previsione dell’ IHS Jane’s di 238 miliardi di dollari entro il 2015) seconde solo, nella regione – ma il paragone, sebbene tanto esaltato dai media, non ha alcun valore né politico né militare – a quelle del Giappone (64 miliardi di dollari) e pari all’insieme delle spese militari di 12 fra le più importanti nazioni del Sud-Est asiatico.
Le preoccupazioni cinesi si muovono su tre direttrici: Taiwan, la sicurezza del mar cinese meridionale (in particolare per le isole Spratly e Paracel, contese con Vietnam e altre nazioni del sud-est asiatico, e le Senkaku-Diaoyutai, con il Giappone) e, in ultimo, ma non meno importante, la conquista degli spazi, dal cosmo a quello cibernetico (ossia, dal prossimo lancio del Shenzhou-9 al viaggio sulla Luna, e il contrasto dell’azione di hackeraggio da parte dell’Occidente).
In pratica, Pechino ha deciso per un forte investimento non per muovere guerra ma per difendere il proprio territorio o quel che considera tale, soprattutto se dispone di ricchi giacimenti di gas come gli arcipelaghi sopracitati. Ciò è quanto sostengono i vertici militari, ma è anche l’ interpretazione data da Henry Kissinger che, da conoscitore di quella realtà e da buon stratega politico e militare, conferma che i timori cinesi sono legati all’accerchiamento dei propri confini da parte di potenze straniere e il rischio di intralcio nell’accedere alle vie commerciali, soprattutto marittime.
Pechino non ha nemmeno ambizioni di competizione spaziale con Stati Uniti o Russia; si tratta semplicemente di applicare e di dimostrare a livello mondiale le proprie capacità tecnologiche, a cui sono strettamente connessi abbondante ricchezza finanziaria e riscatto nazionale.
Insomma, tutto quanto è logico aspettarsi da una potenza in continua crescita, con problemi interni inevitabili per una così vasta ed eterogenea realtà nazionale e, soprattutto, a forte rischio di destabilizzazione, in particolare tramite mezzi di comunicazione come internet e social network, prodotti occidentali che mal si adattano alle esigenze di sicurezza interna di quel mondo in forte crescita e in transizione politica ed economica. Ecco perché i vertici politici e militari cinesi danno rilevanza, nel piano di aumento delle spese per la difesa, al rischio di un cyber confronto, anche se non proprio una cyber guerra, con potenze straniere.
La novità che, però, interessa gli analisti riguarda la decisione del governo centrale cinese di dare l’ opportunità alle proprie imprese, impiegate al di fuori dei confini (haiwai gongmin baohu, o protezione di cinesi oltremare), di garantire al personale e agli impianti una maggiore sicurezza tramite società private; questa necessità è diventata, nell’ultimo anno, una priorità condivisa dai massimi livelli politici, economici e imprenditoriali cinesi.
Effettivamente, com’è accaduto per numerose altre imprese straniere impiegate in aree a rischio, anche il personale di quelle cinesi è stato oggetto di violenze e rapimenti. Dal 2006 al 2010, Pechino aveva evacuato 6000 suoi cittadini da aree a rischio, come le isole Salomone, Timor Est, Libano, Ciad, Tailandia, Haiti e Kyrzigystan.
Con la stessa logica di protezione dei propri affari, Pechino aveva avviato, nel 2008, anche la protezione navale ai propri convogli marittimi commerciali contro il rischio di attacchi pirateschi nelle acque al largo della Somalia. La situazione era, infatti, diventata così pericolosa nella primavera del 2011 da far invocare, ad alcuni massimi esponenti cinesi persino un intervento armato in Somalia, pur di fermare questo fenomeno. Decisamente un fatto eccezionale, se si pensa all’opposizione cinese a qualsiasi tipo di intervento armato come risolutore di conflitti al di fuori dei propri confini.
La gravità e, di conseguenza, l’emergenza sicurezza nel caso cinese sono dovute, come sempre, ai grandi numeri dei suoi affari: a inizio 2012, circa 16 mila aziende e 850.000 lavoratori cinesi (di cui circa 230.000 unità nella sola Africa) erano impiegati all’estero, con assets per mille miliardi di dollari.
Inoltre, si sa, Pechino opera al di fuori dei propri confini per lo più per garantirsi materie strategiche (dal petrolio a metalli, più o meno rari) in cambio di un ampliamento del mercato dei propri prodotti o, appunto, di appalti per grandi infrastrutture, dalle dighe, alle ferrovie o impianti per l’ estrazione di greggio o minerari. E qui sta il punto centrale dell’emergenza sicurezza: i paesi in cui le imprese cinesi stanno operando attivamente sono per lo più africani come, fra gli altri, Sudan, Nigeria e Egitto, così come, sino ad un anno fa, anche la Libia. Ma la grande espansione cinese si sta registrando da un paio d’anni anche in Afghanistan, Iraq e Golfo Persico, con obiettivi e numeri da non sottovalutare per le eventuali ma anche inevitabili ripercussioni politiche e diplomatiche future. Di conseguenza, data l’ampiezza dell’impegno cinese in aree non certo pacifiche o decisamente instabili, l’urgenza di garantire una maggior sicurezza è diventata imperativa dopo tutta una serie di incidenti la cui gravità mette a rischio i grandi investimenti delle imprese cinesi.
In Libia, alla vigilia dell’intervento armato contro Gheddafi, vi erano 35 mila lavoratori cinesi che Pechino mise in salvo con l’intervento di una propria fregata operante nel Golfo di Aden e di forze aeree, così come aveva fatto in precedenza con 10 mila connazionali presenti in Egitto allo scoppio della rivolta. Si trattò del primo caso di partecipazione della marina e dell’aviazione militare cinesi in un’operazione di evacuazione di propri civili. Tuttavia, in Libia, si trattò del caso più eclatante di emergenza internazionale, a cui la Cina rispose come la maggior parte delle nazioni coinvolte in quel Paese.
Il rischio quotidiano, in varie altre nazioni, è però meno conosciuto ma ben più deleterio per gli interessi cinesi. In Sudan e Egitto, infatti, dall’inizio dell’anno, 54 cittadini cinesi sono stati rapiti, con una vittima nel tentativo di liberarli; i rapitori appartengono per lo più a gruppi armati, come il Sudan People’s Liberation Movement e un non specificato gruppo egiziano legato ad al Qaeda, anche se fonti cinesi parlavano di beduini la cui richiesta era la liberazione di alcuni detenuti delle carceri egiziane. Tutti quei rapiti sono già stati liberati dopo trattative fra i massimi vertici politici dei tre paesi e la mediazione della Croce Rossa Internazionale, mentre in Sudan è stato necessario l’intervento armato di un team cinese che ha affiancato le truppe regolari sudanesi nell’attacco per la liberazione dei rapiti.
L’emergenza sicurezza si sta facendo, quindi, sempre più evidente, tanto che Pechino ha imposto alle proprie aziende statali e a quelle private di dotarsi di personale di sicurezza privato. La più famosa, o per lo meno la più conosciuta al momento, è la Shandong Huawei Security Group che opera da anni nella sicurezza interna, ma dal 2010 ha anche un ufficio in Pechino dall’insegna che non lascia alcun dubbio circa le sue funzioni, ossia Overseas Service Center; ancora più esplicita è la spiegazione della mission nel suo statuto, ossia “garantire sicurezza con il ritiro delle truppe statunitensi dall’Iraq”.
I massimi dirigenti cinesi, infatti, non sono stati sordi all’invito del presidente iracheno Maliki che, a inizio 2011, in un viaggio ufficiale a Pechino, li invitava a investire con le loro aziende nella ricostruzione postbellica irachena, in tutti quei settori dall’energia, alle comunicazioni, ma anche abitazioni, colture e trasporti di cui necessita quel Paese, apprezzando anche, se il caso, l’aiuto militare per fronteggiare la minaccia terroristica.
Il personale della Shandong Huawei proviene dalle fila di corpi speciali, sia militari che di polizia, come quello dell’ antiterrorismo (nella dizione inglese Snow Leopard Counterterrorism Unit, SLCU), ed è molto ben addestrato, anche se non ai livelli di quello della statunitense Academi (ex Blackwater/Xe) più preparato per azioni offensive-oriented. Sebbene l’ingaggio dei contractors cinesi oscilli dai circa 500$ ai 950 $ mensili, come per il personale di sicurezza afghano o iracheno, quello cinese è preferito dalle proprie imprese soprattutto, fra gli altri ovvi motivi, per la miglior preparazione e l’affidabilità.
Il personale della Shandong Huawei Security Group, è impegnato, attualmente, a proteggere impianti e manovalanza di aziende come la China National Petroleum Corporation, che dal 2008 è operativa anche in Iraq nell’area petrolifera di Al-Ahdab (Iraq centrale) con un progetto di estrazione fra i più importanti firmati dal governo iracheno con aziende straniere negli ultimi 20 anni, e con alcune sue consociate, come la PetroChina, nelle aree petrolifere di Rumaila (in accordo con la BP) e Halfaya. Questi contratti hanno una valenza economica decisamente superiore a quelli di Pechino con il Sudan, fino ad ora considerato il Paese con i più importanti investimenti cinesi al mondo.
Lo stesso sta accadendo in Afghanistan. La Shandong Huawei e altre società cinesi di sicurezza minori stanno operando nell’area mineraria del più ricco giacimento di rame, quello di Aynak, a sud di Kabul, nella provincia di Logan: con un investimento di 4 miliardi di dollari da parte della China Metallurgical Group Co. (MCC) e della Jiangxi Copper Co. (JCC), è stato avviato il “più importante progetto economico della storia afghana”, come lo definì nel 2010 il presidente Karzai e, al momento, il più grande investimento estero in quel paese. Un progetto che, tuttavia, ha beneficiato, sino ad ora, della presenza militare delle truppe ISAF, con l’inevitabile preoccupazione di Pechino per la sicurezza delle sue imprese quando, nel 2014, è previsto il loro ritiro.
Infatti, imprese cinesi sono coinvolte anche in numerose altre attività di ricostruzione dell’Afghanistan, dalle telecomunicazioni (con la ZTE e la Huawei), alle strade, acquedotti e ospedali. In cambio, Pechino ottiene l’accesso alle grandi riserve minerarie che, fonti statunitensi (grazie anche a carte redatte dai geologi sovietici durante l’occupazione di Mosca, e l’utilizzo di sofisticati strumenti di rilevazione magnetica) avevano stimato, già nel 2010, in mille miliardi di dollari in materie strategiche come ferro, rame, appunto, ma anche litio (proprio per le sue grandi riserve, l’Afghanistan è stato definito “l’Arabia Saudita del litio”), fondamentale per la produzione di prodotti informatici. La disponibilità di rame e del ferro, inoltre, sempre secondo queste stime statunitensi, una volta estratti farebbero di quel Paese il maggior produttore al mondo. A ciò si aggiungono depositi di niobio, terre rare e oro, soprattutto nella regione meridionale dei Pashtun. Anche il petrolio ha un ruolo importante per il futuro dell’Afghanistan; proprio la CNPC ha ottenuto i diritti di esplorazione e di estrazione dell’area petrolifera di Amu Darya.
Tuttavia, a fronte di così tanta ricchezza, l’Afghanistan non possiede capacità estrattive adeguate e nemmeno una normativa nazionale in grado di disciplinarle. Inoltre, le aree minerarie più ricche si trovano nelle regioni meridionali e orientali, ossia quelle al confine con il Pakistan, tra le più turbolente nei rapporti fra i due Paesi.
Inoltre, la Cina, nell’accedere a quelle ricchezze, non può sottrarsi al confronto con un altro grande antagonista in Asia centrale, ossia l’India, anch’essa in cerca di materie prime strategiche e di indipendenza energetica, con un occhio vigile a quanto sta accadendo in Afghanistan e alle sue immense risorse minerarie.
Si tratta, quindi, di un settore dalle grandi potenzialità economiche e diplomatiche per il futuro dell’Afghanistan, ma anche di difficile gestione interna, data la competizione fra il governo centrale, le province e i capi tribù (non certo facili ai compromessi) per la gestione di quelle miniere, a cui si sommano i rischi di corruzione dei funzionari centrali. Insomma, vi sono tutti gli elementi che non aiutano a rendere sicuro il lavoro delle imprese straniere impegnate in quelle attività, qualsiasi sia il loro paese d’origine. Più alto è l’investimento, tuttavia, più onerosi saranno gli impegni per la sicurezza di impianti e personale una volta che non vi sarà più lo scudo protettivo di forze come quelle dell’ISAF.
Ma un’altra area, quella dei paesi del Golfo Persico sebbene al momento pacifica, è oggetto di interessi cinesi; il 58% del petrolio importato da Pechino arriva, appunto, da quella regione, con una previsione di crescita al 70% entro il 2015 (un fatto rilevante se si pensa che gli Stati Uniti vi accedono solo per poco più dell’8%). La sola Arabia Saudita esporta in Cina il 20% del suo petrolio, e il valore dei traffici commerciali fra i due paesi si aggira sui 60 miliardi di dollari l’anno. Anche il Qatar è molto attivo con Pechino: dal maggio 2010 la CNCP opera nell’emirato in base ad un contratto trentennale per l’esplorazione e la produzione del gas, così come la Shell, aziende qatarine e la CNPC hanno siglato una joint venture per un complesso petrolchimico, del valore di 10 miliardi di dollari, da avviare nella Cina orientale. Le previsioni, inoltre, per l’ammontare del commercio annuo fra Cina e i soli Paesi del Golfo Persico è per il 2020 di 350 miliardi di dollari.
Si tratta, infatti, di cifre importanti che vanno ad influenzare grandemente quella che possiamo definire la “diplomazia dello sviluppo” cinese, sia proprio che dei paesi in cui opera.
In pratica, ciò che sta avvenendo in molte aree del mondo, dalla Penisola Arabica, all’Afghanistan o all’Africa, è una silente ma continua avanzata cinese che toglie terreno a un Occidente che, preso da proprie emergenze economiche e finanziarie ma soprattutto impegnato in conflitti per esportare la democrazia, non ha ancora compreso che sta rischiando pesantemente lo spostamento dell’asse dell’interesse di quelle realtà verso l’ Estremo Oriente.
A differenza di quanto fatto sino ad ora dall’Occidente, Pechino non fa distinzioni o non impone interventi correttivi nella gestione interna della politica dei Paesi in cui va a operare: non importa, come invece accade per l’Occidente, di che colore sia il governo al potere, quali siano altri partner stranieri o quanto rispetti i diritti umani. Non ha bisogno di inventarsi mission per allungare le mani in aree e settori strategici. E così, mentre l’Occidente era impegnato a combattere guerre come quelle in Iraq o Afghanistan, Pechino si è mossa agilmente con la sua “diplomazia dello sviluppo” per proporre partnership economiche che l’Occidente tarda a assicurarsi perché ancora troppo coinvolto nel combattere guerre o per ritirarsi con il minor danno possibile. Pechino ha, infatti, evitato qualsiasi coinvolgimento nella corsa ad ostacoli con l’Occidente, superando la fase di “conquista” territoriale voluta da quest’ultimo per il passaggio di oleodotti e gasdotti, andando direttamente al sodo della questione, ossia garantendosi contratti per esplorazioni ed estrazioni di materie strategiche.
L’obiettivo cinese è assicurarsi, infatti, quelle materie e, soprattutto in Africa e nella Penisola arabica, un mercato per i propri prodotti, anche se si tratta di armi: sono anch’esse un prodotto da commercializzare e non un mezzo per ampliare la propria influenza o per sostenere una fazione più congeniale ai propri vertici politici a Pechino. L’ unica urgenza per costoro è, infatti, difendere nient’altro che quelli che sono i mercati e le aree economiche fondamentali su cui poggia la propria strategia di sviluppo futuro.
L’impegno economico e finanziario di Pechino fuori dai suoi estesi confini nazionali e in aree di sviluppo o addirittura di ricostruzione postbellica gli impone, quindi, un’attenzione particolare alla sicurezza immediata e al futuro di quegli investimenti. Ecco che l’emergenza scatta nel momento in cui, come in Iraq, e presto in Afghanistan, si sono ritirate o si ritireranno le forze armate occidentali; mentre in Paesi come quelli del Golfo Persico o l’Arabia saudita l’emergenza scatta per i loro rispettivi governi nel garantire il mantenimento di uno status quo senza turbamenti o rivolte che possano disturbare gli investitori stranieri, in cui la Cina sta emergendo come protagonista.
Il pericolo è, tuttavia, una diffusa presenza di soggetti armati in territori o acque straniere, e le minacce a cui, purtroppo, si può incorrere in aree ad elevata pericolosità. Nell’azione della liberazione degli ostaggi cinesi in Sudan, di cui si è accennato più sopra, il personale paramilitare che ha appoggiato le forse sudanesi, sarebbe stato composto da contractors privati cinesi. Si tratta, quindi, in generale, di una rischiosa quanto sempre più diffusa tendenza alla presenza di forze militari o paramilitari a supporto delle attività economiche, produttive e commerciali, come già sta avvenendo per la difesa dalla pirateria marittima di convogli civili, e come ha dimostrato l’incidente nelle acque dell’oceano Indiano con protagonisti due militari italiani e pescatori indiani.
Il rischio, tuttavia, è la generalizzazione del fenomeno, dato l’ampliamento delle aree di crisi locali, molto pericolose ma non di conflitto vero e proprio, che potrebbe portare alla militarizzazione delle attività produttive e commerciali; ogni nazione può decidere, infatti, di proteggere i propri interessi e le proprie aziende all'estero con personale militare, a volte privato. Non sempre, tuttavia, questo personale agisce in un ambito ristretto, come è accaduto - sebbene con tutti i dubbi sulla versione di quei fatti e con i numerosi interrogativi ancora aperti - per i due marò italiani, ossia nella protezione in acque internazionali di una nave mercantile battente bandiera italiana e, quindi, a difesa del proprio territorio nazionale. Figuriamoci, poi, quando queste forze, per lo più private, operano in territori stranieri, come accadde, a suo tempo, ad appartenenti alla Blackwaters in Iraq.
La proliferazione di questo fenomeno, soprattutto in aree ad alto rischio sicurezza e con numerose componenti in attrito fra loro, può dare il via, nel migliore dei casi, a innumerevoli incidenti diplomatici ma anche autorizzare una diffusa presenza di personale armato di diversa provenienza, non sempre disciplinato da norme internazionali accettate e condivise. E’come permettere la presenza e la diffusione di manovalanza armata e molto ben addestrata che, in aree poco controllate, può comunque mettersi a disposizione del miglior offerente. Infatti, non tutte le aree in cui operano queste forze di sicurezza private, sono coinvolte in un conflitto armato, come previsto dal documento di Montreux che regola appunto i loro interventi (e comunque, al momento è stato firmato da sole 17 nazioni, fra cui la Cina, ma non è legalmente vincolante).
Regolamentare l’attività di queste forze di sicurezza private è diventato, quindi, un imperativo per una potenza come la Cina con attività commerciali così diffuse nelle aree di crisi o di post conflitto, se non di guerra ancora combattuta, come nel caso dell’Afghanistan. Per Pechino significa, infatti, proteggere i suoi interessi ma anche modificare il proprio approccio diplomatico che non è solo e sempre di non ingerenza negli affari interni dei paesi in cui va ad operare. Permettere l’azione di proprie forze armate, sebbene o proprio perché private, in aree a rischio significa aumentare il livello di pericolosità di zone instabili e insicure, e dare l’avvio ad un circolo vizioso da cui si può uscirne solo con un estenuante lavoro diplomatico.
Questa è la vera urgenza di cui sembrano consapevoli i vertici cinesi e, si spera, anche di altre nazioni. In ogni caso, Pechino si sta adeguando e attrezzando, dando anche l’opportunità alle società di sicurezza cinesi di operare all’estero, disponendo di abbondante offerta di personale e dato che quel mercato interno è ormai saturo. Dall’altro lato, le stesse aziende cinesi, siano pubbliche o private, si stanno adeguando per lo studio del risk assessment delle aree in cui prevedono di operare.
Pechino sta, inoltre, attivando un coordinamento fra il proprio ministero degli esteri, quello della difesa e della sicurezza interna con i vertici delle grandi aziende statali e di quelle private proprio per superare gli ostacoli finora incontrati per la sicurezza dei propri cittadini e lavoratori all’estero e che ha mostrato notevoli carenze, data la tendenza ad agire separatamente e per proprio conto nel definire le procedure di gestione delle crisi.
Ci si chiede, tuttavia, se tutto ciò non comporterà anche per Pechino un cambiamento nella gestione della sua politica estera, se non sarà costretta a cambiare approccio verso concetti fino ad ora immutati, come rispetto della sovranità nazionale, intesa come non ingerenza negli affari interni di una nazione, o quello di non-intervento quando sarà chiamata ancora una volta, nella logica vista sopra della haiwai gongmin baohu, o protezione di cinesi oltremare, ad intervenire con forze paramilitari per la salvaguardia dei propri cittadini.
Al momento, Pechino agisce con accordi bilaterali, come è avvenuto nel caso più grave della guerra libica. Si trattò, allora, di un’emergenza eccezionale e con la partecipazione di una pluralità di soggetti, con possibilità di azione nel rispetto delle norme internazionali.
I rischi, invece, che quotidianamente e maggiormente preoccupano le aziende - e non solo cinesi – impiegate nelle grandi opere in aree di post-conflitto o di crisi, dipendono da soggetti non sempre chiaramente identificabili e da minacce indefinite, come la pirateria nelle acque dell’oceano Indiano, o i gruppi al qaedisti sparsi in ogni angolo del Medio Oriente, Asia centrale o Africa, che agiscono o per denaro o per la liberazione di terroristi incarcerati. Pensare di affrontare tutto ciò con l’impiego di contractors è quantomeno paradossale perché significa disporre di forze private pronte ad evenienze pericolose per la sicurezza, quasi come si fosse in uno stato di allerta e di conflitto perenne.
Si tratta, insomma, soprattutto per la Cina, di una delle principali sfide che la globalizzazione sta imponendo al suo tradizionale modo di condurre affari con paesi stranieri: è la presa di coscienza di come, probabilmente, anche Pechino debba adeguarsi alle conflittualità che stanno imperversando in molte parti del mondo, soprattutto in quelle di cui anche la Cina necessita per il suo enorme sviluppo economico e produttivo.
Si tratta, forse, anche dell’inizio di un mutamento nella gestione della propria diplomazia e di una svolta epocale nella sua politica di difesa, non più incentrata lungo i propri confini terrestri e marittimi, ma là dove sono presenti le sue imprese, i suoi cittadini e soprattutto quelle risorse fondamentali per il suo futuro.
Pechino si dovrà, quindi, adeguare all’approccio occidentale di difesa armata dei propri interessi al di fuori del proprio territorio, stravolgendo le sue consuetudini, oppure, ancora una volta, la capacità di agire con quella visione strategica che l’ha portata a raggiungere e mantenere tassi di crescita così elevati le permetterà di trovare soluzioni che il pragmatico ma indebolito Occidente non ha mai neppure considerato?
5/3/2012