In attesa di decisioni e risoluzioni da un pressoché immobile Consiglio di sicurezza dell’Onu, la domanda più ricorrente che mi sono sentita rivolgere negli ultimi mesi è perché l’Occidente non ha ancora reagito a quella che è ormai una vera e propria guerra civile in Siria, come a suo tempo fece con la Libia; in pratica, ci si chiede che cosa stia bloccando un intervento armato per scopi umanitari o, se si preferisce, secondo la più raffinata logica, appunto delle Nazioni Unite, della R2P, o responsible to protect, per porre fine a un massacro che in meno di un anno ha già fatto oltre 6500 vittime (più di 5000 civili, e circa 1300 fra militari e agenti), secondo alcune fonti giornalistiche, oltre 7000 secondo quelle della diaspora siriana. Eppure i piani di attacco sono già stati elaborati; anche la mobilitazione, a dicembre, della base area giordana di al Mafraq, a 10 chilometri dal confine con la Siria, fa propendere per la soluzione armata della rivolta siriana.
Certamente, si è più cauti rispetto a qualche anno fa – nel caso dell’Iraq di Saddam Hussein - nell’intervenire militarmente in modo diretto, come ha anche dimostrato la guerra in Libia: i conflitti, appunto, costano, e non solo in termini finanziari ma soprattutto in quelli politici, in un anno, come il 2012, di elezioni presidenziali, dagli Stati Uniti alla Francia, ma anche in Russia, e quelle parlamentari in Iran. E, poi, sinceramente, il loro risultato è alquanto discutibile, viste le conseguenze di generalizzata e sanguinosa instabilità che caratterizza l’Iraq e la Libia al momento. A meno che questa instabilità sia funzionale a interessi specifici; ma si corre il rischio di essere tacciati di complottismo.
Certamente, si è più cauti rispetto a qualche anno fa – nel caso dell’Iraq di Saddam Hussein - nell’intervenire militarmente in modo diretto, come ha anche dimostrato la guerra in Libia: i conflitti, appunto, costano, e non solo in termini finanziari ma soprattutto in quelli politici, in un anno, come il 2012, di elezioni presidenziali, dagli Stati Uniti alla Francia, ma anche in Russia, e quelle parlamentari in Iran. E, poi, sinceramente, il loro risultato è alquanto discutibile, viste le conseguenze di generalizzata e sanguinosa instabilità che caratterizza l’Iraq e la Libia al momento. A meno che questa instabilità sia funzionale a interessi specifici; ma si corre il rischio di essere tacciati di complottismo.
Alla domanda sulla Siria si è aggiunta anche quella circa eventuali previsioni di una guerra dell’Occidente contro l’Iran. Infatti, nelle ultime settimane, l’inquietudine per le intemperanze iraniane - dalla continuazione del programma nucleare nonostante la diffida dell’Occidente, da cui le sanzioni dapprima e l’embargo petrolifero dopo, alle successive minacce di chiusura di Hormuz, e tutto quanto già detto e scritto al riguardo come conseguenze negative - per alcuni osservatori, farebbe del 2012 e attraverso un conflitto risolutivo, l’anno della soluzione alla seccatura dell’Iran e dei suoi eccessi non in linea con gli interessi dell’Occidente nella regione del Golfo Persico.
In pratica, la parola “guerra” sembra essere l’unica considerata e persino abusata per approcciare qualsiasi questione in Medio Oriente e nell’area del Golfo Persico. Ciò che non viene mai adeguatamente vagliato, tuttavia, dai commentatori, soprattutto se giornalisti improvvisatisi analisti, è la valenza geostrategica di queste due nazioni non solo per la sicurezza immediata degli altri Paesi del Medio Oriente e del Golfo Persico, ma per cosa potrebbe accadere sia nel Mediterraneo che nell’Asia centrale con la fine del regime degli Assad in Siria e con un Iran indebolito e destabilizzato.
Inoltre, ciò che temono gli altri Paesi del Golfo, nell’immediato, è quello di essere posti al centro di una crisi che dalla Siria si allarghi all’intera regione, difficile da contenere – al contrario di quella tunisina ad esempio, - o dal prosieguo incerto, come quella egiziana, e che potrebbe degenerare, portando non solo alla caduta delle loro dinastie “famigliari” e di cui abbonda la penisola arabica (dall’Arabia Saudita agli Emirati Arabi, al Bahrein etc.), ma fare del ricchissimo Golfo Persico un bottino così appetibile da essere giocato in un grande risiko fra potenze mondiali, da Stati Uniti, Cina e Russia.
Circa un anno fa, scrissi una breve analisi al riguardo, fra le più lette di questo sito; e questo breve articolo, senza la pretesa di voler essere esaustivo, è la continuazione di quelle osservazioni.
Sembra, infatti, che ciò che allora denunciavo come limitatezza dell’approccio occidentale alle questioni del mondo arabo, musulmano e, in particolare di conoscenza di quell’area arabica e del Golfo Persico, non sia stata per niente superata, anzi, se possibile si sia radicata nella sua mediocrità, tanto da risultare pericolosa per la sicurezza dell’Occidente. La grettezza propria della scarsa preparazione dei massimi vertici politici occidentali – a cui corrispondono i mass media e numerose analisi superficiali di giornalisti - nonostante studi, convegni e dibattiti, non può che essere funzionale a progetti di destabilizzazione che appartengono a frange estreme, occidentali e non, il cui scopo è giungere al conflitto armato, ossia a quello scontro diretto, a loro avviso, risolutore della seccatura iraniana.
Questo è ciò che viene immediatamente in mente di fronte a tanto ardore antiraniano e antisiriano; tuttavia, le spinose e irrisolte vicende di quei due Paesi sono lo specchietto per allodole o, meglio ancora, una cortina fumogena dietro alla quale si nascondono anche faccende e contrasti interni al mondo arabo e a quello musulmano decisamente troppo complessi per l’approccio mentale occidentale, portato ad affrontare le questioni con una logica binaria, “buono” contro “cattivo”, “con noi o contro di noi”, “regime” contro “democrazia” e così via, in una banalizzazione di analisi e una generalizzazione dei fenomeni che sono già costati molto, in termini di guerre lunghe, gravose, inconcludenti, da cui, pare, non si è appreso nulla.
Non è un caso, infatti, che secondo i commentatori occidentali, anche per la Siria (e per l’Iran) si stia profilando all’orizzonte un duello fra due contendenti, ossia “l’asse sunnita” contro “l’asse del male” in generale, ma in questo caso, sciita. Da un lato, quindi, vi sarebbe l’opposizione siriana sunnita, sostenuta per lo più dai Paesi del Golfo, e dall’altro lato il regime che risponde alla famiglia Assad, alawita (setta sciita) con i suoi stretti legami decennali con la culla dello sciismo, ossia l’ Iran. A fare da sfondo a questa interpretazione religiosa dell’attuale scontro in quell’area, vi sarebbero i drammatici ricordi della strage di Hama del 1982, in cui le forze regolari siriane, guidate da Rifa’at al Assad, fratello di Bashir, e su ordine del padre Hafiz al Assad, sterminarono la popolazione sunnita di quella città, facendo migliaia di vittime (il cui numero non è mai stato precisato, ma si ipotizza dai 25mila ai 55mila) essendo colpevole, secondo il regime, di sostenere azioni terroristiche dei Fratelli Musulmani contro il regime ba’thista a Damasco. In pratica, il regime non sarebbe del tutto inesperto nella repressione, e ciò che sta avvenendo non sarebbe altro che un riemergere di quegli antichi rancori con un richiamo religioso ben preciso.
Tuttavia, proprio per non cadere nella trappola dell’approccio generico e superficiale, con forzature interpretative di una storia complessa come quella mediorientale, è necessario evidenziare alcune questioni non adeguatamente considerate dai media, e partire da un momento storico cruciale di quella regione, ben più vicino della strage di Hama (e con un’eventuale sua rappresaglia) ossia il ritiro delle truppe statunitensi dall’Iraq nel dicembre 2011.
Otto anni di guerra hanno raggiunto un unico obiettivo fra quelli per i quali era iniziata, ossia la sola caduta del regime di Saddam Hussein. L’incapacità del governo centrale iracheno di garantire la sicurezza e di controllare il territorio, soprattutto nella enclave sciita di Bassora, e dopo il ritiro di forze regolari statunitensi, ha permesso che il paese diventasse, in quella parte del suo territorio, il corridoio preferito dall’ Iran per inviare armi verso i suoi alleati in Siria e in Libano, con inevitabili preoccupazioni di Israele. La mancanza di controlli sulle armi e quant’altro ancora presenti su quel territorio sta facendo dell’Iraq un’area di smercio di materiale bellico e di una buona offerta di uomini addestrati (dato l’alto numero di contractor privati ancora presenti e “licenziati” con la fine della presenza statunitense) che parrebbero aver preso la via verso Damasco. A ciò si affiancano insofferenze e contrasti mai sopiti che vanno ad alimentare gli scontri in Iraq e che vedono coinvolta per lo più la popolazione sciita, vittima quotidiana di attentati.
Ma non si tratta dell’unica realtà sciita ad essere bersaglio di attentati o repressione violenta.
In tutt’altra nazione, ossia in Bahrain – sul quale l’Iran ha rivendicato la sovranità dal 1971 al 1987 - la repressione della rivolta popolare sciita, scoppiata ad inizio del 2011, contro il governo centrale della dinastia sunnita al Khalifa è stata cruenta - e continua ancora oggi nella pressoché ignoranza della stampa mondiale - con la morte, per quanto è faticosamente trapelato, di 35 persone e l’ arresto di oltre 500 manifestanti su un totale di 525mila abitanti. A venire in aiuto al governo centrale, fin dalle origini delle rivolte, è stata la forza interaraba – saudita ed emiratina – con l’operazione “Scudo della Penisola”, sotto le insegne del Consiglio di Cooperazione del Golfo, per fermare gli scontri allo scopo di riportare “stabilità e sicurezza” nell’area più strategica delle acque del Golfo, dopo lo stretto di Hormuz – essendo il Bahrain la base nella regione della V flotta statunitense – ma soprattutto per porsi come “scudo” ad una minaccia proveniente dall’Iran.
Stessa sorte, da circa un anno, sta colpendo un’altra regione a maggioranza sciita, nella parte orientale dell’Arabia Saudita – a ridosso delle acque che la dividono dal Bahrain - ricca di pozzi petroliferi, in cui è in corso una rivolta che ha assunto toni più acuti a ottobre-novembre 2011: viene chiesta la liberazione di attivisti per i diritti umani incarcerati dal governo centrale di Ryihad, che accusa apertamente Teheran di fomentare queste rivolte. Alle vittime di queste repressioni, in Bahrain, Arabia Saudita e Yemen, vanno ad aggiungersi quelle dei lunghi elenchi di attentati contro sciiti anche in Afghanistan e Pakistan che vengono genericamente giustificati per via dello stato di guerra permanente di quella regione.
La stessa rivolta in Yemen - banalmente accomunata dai mass media alle altre della “primavera araba” trascurando il fatto che da oltre cinquant’anni quel Paese ha a che fare con i movimenti separatisti del Sud e lotte tribali dietro cui si celano lotte per il potere - ha deviato dalla rivolta dell’anno scorso contro il governo di Abdullah Saleh, a scontro cruento fra la comunità sciita Zaydi con gruppi sunniti estremisti, inclusi appartenenti ad al Qaeda, dando il via a uno conflitto in cui l’elemento estremista confessionale sembra ora prevalere sulle richieste di maggior democrazia e di libertà civili.
Alcuni colleghi analisti, già da tempo, non sono d’accordo per una lettura solo confessionale di queste rivolte; la considerano come un modo per limitare e addirittura ostacolare il dibattito sui veri problemi che affliggono le nazioni coinvolte e che si sono manifestati nelle rivendicazioni di maggior libertà, democrazia, diritti civili e la fine di regimi oppressori, di cui abbonda l’intera penisola arabica.
Ipotizzare che si tratti solo di una forzata similitudine fra i vari eventi, e quindi, sminuirne la portata è, però, anche fazioso e pericoloso, perché non si considera l’eventualità che le rivolte o i contrasti nati in maniera spontanea siano poi diventati oggetto di manovre da parte di potenze esterne che le hanno trasformate, nel 2011, in scontri fra fazioni, o sette religiose, all’interno del mondo musulmano e per fini che vanno bel oltre le rivendicazioni di quei popoli per maggiori libertà e più democrazia.
E l’utilizzo opportunistico dell’antagonismo religioso in contesti a rischio (come nell’Egitto post Mubarak con gli attacchi ai copti, o già prima in Sudan e ora in Nigeria fra cristiani e musulmani) non è certo una novità; anzi sta diventando per lo meno un’ abusata consuetudine che solo osservatori superficiali e disattenti non colgono come strumento di destabilizzazione. Non è un caso che le aree di maggior crisi al mondo, dal Medio Oriente, Nord Africa, Africa sub sahariana e Centro Asia, siano testimoni di una spaccatura violenta fra componenti religiose, a cui vengono corrisposte anche aree geografiche distinte e separate.
Se poi non vi è l’elemento religioso, allora, ad acuire le tensioni a fini separatisti intervengono fattori tribali, come in Yemen, appunto, o nella Libia del dopoguerra con tutti i presupposti per trasformare quel Paese in un altro caos tipo “iracheno”.
In pratica, si stanno esasperando, dal Nord Africa al resto del Medio Oriente, gli elementi di diversità e di contrasto, etnico, tribale e soprattutto religioso, che sino ad ora avevano retto nel Medio Oriente o per merito di una sapiente e calibrata Costituzione, come quella libanese, o per l’azione repressiva e poliziesca di alcuni regimi, come quello siriano e iracheno, o accentratori come quelli abbondantemente presenti nella penisola arabica.
Convivenza, appunto, che non significa, quel che ora si sta cercando di imporre, ossia una divisione forzata e un isolamento di minoranze, religiose o tribali.
Non è nemmeno una novità che da anni vi siano piani per creare enclavi politiche e religiose separate all’interno dei vari stati mediorientali, come il Biden-Cheney Plan del 2006 e la divisione dell’Iraq in 3 regioni distinte, ognuna con la sua componente religiosa (sciita, sunnita) ed etnica (curda), come se la stabilità di intere regioni dipendesse solo dalla ghettizzazione delle sue genti, dei loro problemi ma soprattutto della loro identità e delle loro rivendicazioni, quando a fare da sfondo vi è la divisione territoriale su base etnica e religiosa per la spartizione delle sue ricche riserve petrolifere.
Questo errore di valutazione dipende dalla profonda ignoranza di quelle realtà sociali molto complesse e interconnesse e quanto detto più sopra della chiara (almeno per alcuni) distinzione fra il “bene” e il “male”. A meno che tutto ciò non faccia parte di un vero e proprio progetto di divide et impera che risponde appunto a interessi esterni a quei Paesi e a quella regione. Ma, appunto, il rischio è sempre quello di venir tacciati di complottismo, anche se parrebbe l’unica spiegazione logica, dato che qualsiasi azione intrapresa dall’Occidente dalla prima guerra del Golfo del ’91 fino ad oggi con le reazioni alle rivolte della primavera araba - vista l’attuale situazione in Libia dopo il conflitto o al caos in Egitto - e all’immobilismo occidentale con quanto sta accadendo in Siria, sembrano andare solo in quella direzione.
Tuttavia, per non cadere in questa trappola del complotto come lettura di quei fatti, e che tutto spiega e nulla risolve, è necessario vedere l’intera questione dell’instabilità nella regione mediorientale e nel Golfo Persico considerando altri scenari e altre valutazioni.
L’Occidente, Europa in testa, di fronte alle intemperanze iraniane, impone l’embargo del suo petrolio e discute circa la fattibilità tecnica della minaccia della chiusura di Hormuz – avendo fiducia, soprattutto, nell’azione deterrente della V flotta statunitense dislocata nell’area – ma ignora che solo il 10% del greggio iraniano è destinato all’Europa (tra l’altro quasi esclusivamente per l’ Italia e la Grecia), mentre India e Cina sono disposte a pagare in oro le forniture di Teheran, rispettivamente il 23 e il 13 % dell’intera produzione nazionale. Non si tratterebbe, quindi, di un provvedimento con ripercussioni così gravi per le casse statali iraniane. Teheran, infatti, non è stata smossa da alcuna minaccia al riguardo, come dimostra persino l’intenzione di approvare la legge per impedire alle proprie società petrolifere di esportare greggio verso i Paesi europei. Una contromossa che dimostra come ci sia qualcosa che non funzioni né nelle analisi e nelle previsioni di evoluzione della crisi né nei metodi di intervento di un Occidente che, a questo punto, dovrebbe inventarsi qualcosa di più fattibile.
Ciò che più preoccupa, infatti, è che, negli attuali scenari di crisi, non ci si sforza di intervenire neppure con altri mezzi se non quelli, appunto, o della minaccia della guerra o delle sanzioni e degli embarghi, da decenni infruttuosi se non controproducenti perché, come ha dimostrato la storia dell’Iran da Mossadeq alla rivoluzione khomeinista – e negli anni seguenti anche dell’Iraq di Saddam Hussein - queste misure non hanno fatto che alimentare maggiormente un nazionalismo interno xenofobo e ad unire ancor più il popolo con i propri governanti, anche se dispotici, contro i nemici occidentali.
Non diversamente accadrebbe nel caso di un conflitto con l’attuale regime iraniano, anche solo con operazioni shock and awe – come ipotizzato dall’Amm. Mike Mullen del Joint Chiefs of Staff - qualora fossero fattibili tatticamente ma soprattutto si dimostrassero risolutive. Un impiego più massiccio di forze avrebbe sviluppi e conseguenze inimmaginabili per la stabilità dell’intera area mediorientale così come quella mediterranea: e sarebbe anche troppo rischioso limitarsi a “show the muscles” o, se si preferisce, “the flags”, come fatto sino ad ora in quelle acque, senza andare fino in fondo. Non bisogna cadere nella trappola della logica binaria: quella appartiene all’Occidente e a un passato di guerra fredda che non esiste più. Da almeno un decennio i protagonisti e le regole della competizione internazionale sono cambiati, si sono moltiplicati e interconnessi, con logiche ben più complesse: e se non si prende coscienza di questo, non si otterrà nulla di buono né dalle rivolte né dalle crisi da esse innescate.
In pratica, con quel che sta succedendo in Iran, ma anche in Siria, così come in Libia o in Egitto, viene il dubbio che la cura sia stata sbagliata, dato che i sintomi della malattia si sono acuiti. Allora c’è da chiedersi se la diagnosi sia stata errata fin dall’origine oppure l’intenzione sia stata, invece, quella di prolungare il malessere perché funzionale a interessi particolari. Per quanto riguarda ciò che sta accadendo in Siria e, per via dell’Iran, nel Golfo Persico, propendo per un bel mix di entrambe le cose: un’ignoranza generalizzata voluta appositamente perché funzionale a interessi esclusivi. E questa considerazione deriva proprio dalle esperienze belliche in Iraq e in Libia, e quanto ad esse ne è seguito, a cui vanno ad aggiungersi fenomeni non adeguatamente pubblicizzati dai media, a conferma di quanto detto circa superficialità di metodo, ignoranza diffusa di fatti e cattiva volontà di informare per trovare soluzioni adeguate e definitive a certe questioni.
(segue...)
Siria, Iran e Golfo Persico. Parte II
Siria, Iran e Golfo Persico. Parte II
La crisi iraniana, fra pasdaran e nuovi protagonisti nel Golfo.
2/2/2012
foto: L. Beshara, AFP/Getty Images
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foto: L. Beshara, AFP/Getty Images