“Il Libano non può più essere separato a lungo dalla Siria” è una frase che si sente ormai con troppa frequenza in quella parte del Vicino Oriente. Il significato è però duplice: per alcuni riguarda il timore di un sempre più pesante allargamento dell’ eterno conflitto siriano nel territorio libanese mentre, per altri, si tratta dell’auspicio che la fragilità e l’instabilità del Paese dei Cedri tornino presto, in qualche modo, ad essere considerate come conseguenze dirette della guerra in Siria, per cui, una volta risolta, il Libano ritorni alla normalità.
Al momento, ciò che trova concreta realizzazione è solo il primo turbamento.
Il conflitto siriano e la molteplicità dei suoi protagonisti hanno, infatti, superato da parecchi mesi il confine fra i due Paesi: oltre 3000 jihadisti (sia filo Da’ìsh che di al-Qaeda) posizionati sulle montagne di Qalamoun, stanno minacciando città del nord e del centro Libano, mentre vengono confermati i combattimenti ad Arsal, Brital e Ras Balbeek.
Arsal, provincia e città del Libano settentrionale, è ormai in mano a forze islamiste filo-Da’ish, mentre nel centro del Paese e vicino al confine con la Siria attorno alle città di Brital e Ras Baalbek - quest’ultima a nord della valle della Bekaa, regione a maggioranza cristiana ma ora roccaforte degli hezbollah sciiti filo-Assad - si consumano quotidianamente attacchi hit and run e lanci di razzi da parte delle forze jihadiste vicine al Califfato, a cui seguono azioni di rappresaglia delle forze regolari libanesi appoggiate da hezbollah.
Non da meno, forze qaediste di al-Nusra, con l’appoggio dell’Esercito Libero Siriano, per tutto l’inverno hanno colpito gli stessi insediamenti libanesi: se per le forze jihadiste del Califfato, nel delirio del loro progetto, gli attacchi alle comunità libanesi rappresentano l’assoggettamento di nemici, il raggiungimento delle coste mediterranee e soprattutto la garanzia di un rifugio per sfuggire agli attacchi aerei, per quelle qaediste e dei ribelli siriani l’obiettivo è stroncare l’appoggio di hezbollah ad Assad. Innegabile, infatti, che per quest’ultimo e i suoi alleati hezbollah ogni frammento di territorio libanese sicuro rappresenti una profondità strategica necessaria per continuare a combattere.
Insomma, da qualsiasi parte si consideri il problema appare inevitabile il coinvolgimento del Libano nel conflitto siriano.
Il ruolo di hezbollah nella difesa delle città e dei villaggi libanesi cristiani come Zahle, Firzul, Ablah e Drous (tutti nella zona della Bekaa), intesi dalle forze del Califfato come obiettivo prioritario da conquistare, è diventato così importante da far affermare a esponenti politici locali che “se (gli hezbollah) non esistessero, bisognerebbe crearli”: è un dato di fatto, appunto, che al momento le milizie sciite libanesi filoiraniane garantiscano agli sciiti ma anche ai cristiani e addirittura agli stessi sunniti un cordone di sicurezza contro il sanguinario fanatismo e le mire espansionistiche delle sigle salafite jihadiste più disparate presenti nel conflitto siriano e decise a varcare quel confine. Proprio per questo hezbollah ha contribuito a istituire la Saraya al Muqawama al-Lubnaniaya, la Brigata di Resistenza Libanese, composta da sunniti, drusi e cristiani, fra le più attive e preparate a contrastare gli assalti dei gruppi jihadisti salafiti.
Gli hezbollah ne escono, quindi, rafforzati come immagine e, inevitabilmente, anche come influenza, dato che quegli attacchi garantiscono “sia terreno che vittorie morali”: non è un caso, infatti, che quei villaggi siano disposti lungo la strada internazionale, dal nome evocativo al-Sharm, che collega Beirut a Damasco, e che rappresenta un’arteria strategica per i rifornimenti dal Libano proprio alla Siria e vitale per connettere l’intera Bekaa al resto del Paese dei Cedri. Difenderli e controllarli sembrerebbe, quindi, solo un’opportunità strategico-militare.
Ma esiste anche una vittoria morale per gli hezbollah, ed evocata da molti osservatori locali, che va in tutt’altra direzione.
Se per gli sciiti libanesi è ovvio l’appoggio di hezbollah, e per i cristiani e i drusi è un naturale supporto a salvaguardia dell’integrità nazionale del Libano, tutta un’altra piega assume invece il sostegno armato sciita hezbollah ai sunniti libanesi, ossia l’altra parte, quella antagonista, allineata impunemente con l’Arabia Saudita e che non ha mai fatto mistero di considerare gli hezbollah e il loro supporto ad Assad il male per eccellenza da combattere con tutte le proprie forze, anche nel Libano stesso. In pratica, in questo Paese si sta riproponendo la rivalità fra le due potenze regionali, Arabia Saudita e Iran, in cui però emerge la grave crisi del sunnismo moderato libanese a favore di espressioni estreme come il salafismo, la cui origine nel Paese data ormai trent’anni, ma che trova ora nei gruppi jihadisti un’espressione concreta e crudele. La presenza del salafismo in Libano, quindi, non è una novità ma, come ci ha ormai abituato l’instabilità del Vicino Oriente, è emersa solo ora dal limbo in cui sopravviveva e per via della guerra irachena e siriana.
Posizioni estreme proprie del salafismo si erano già diffuse nel campo profughi palestinese libanese di Ain al-Hilwen, tanto da essere presenti nella carta costitutiva del gruppo al-Harakata al-Islamiya al Mujahida (il Movimento per il jihad islamico, gruppo terroristico palestinese non più attivo) all’indomani della guerra civile in Libano, e rafforzatesi durante la guerra contro Israele nel 1982. Fra il 1983 e il 1985, era sorto, inoltre, un Emirato Islamico salafita libanese, nella città settentrionale di Tripoli, dove il salafismo è presente e attivo dagli anni ’40 del secolo scorso.
L’Emirato Islamico libanese fu, tuttavia, un’esperienza breve e scarsa di conseguenze mentre, invece, dai campi palestinesi del Paese il salafismo ne usciva rafforzato, tanto da indurre numerosi fra quei giovani a lasciare il Libano e raggiungere l’Iraq per combattere contro le forze statunitensi già nel 2003, all’indomani della caduta di Saddam Hussein. Ciò era anche la diretta conseguenza dei legami che nel frattempo erano nati fra questi elementi dei campi palestinesi libanesi e forze di al-Qaeda dapprima sparse nella regione e poi unite sotto la sigla di al-Qaeda in Iraq, la stessa da cui è nato Da’ish e che ora, per una beffa del destino, assedia nella più feroce brutalità il campo palestinese siriano di Yarmuk.
Ciò che sta avvenendo, quindi, in Libano è una chiara espressione della crisi di identità del vero sunnismo che in quel Paese era esplicita manifestazione del nazionalismo arabo e ora invece è dibattuto fra il suo estremismo intestino, ossia il salafismo, e le alleanze nei conflitti per il dominio della regione, in cui la fazione sciita hezbollah, che sembra essere l’ unica forza militare garante e di successo per la sopravvivenza del Paese dei Cedri, è però il nemico (di sempre) contro cui combattere.
Tutto ciò esprime il vero problema del sunnismo libanese, ossia quello di leadership interna dalla forte valenza sul delicato equilibrio di un contesto multietnico e multireligioso come quello del Libano dove, per Costituzione, a ciascuna identità viene riconosciuto un ruolo istituzionale importante e che, a suo tempo e per tradizione, veniva anche riconosciuto il diritto a possedere proprie milizie armate, come chiaramente evidenziato nel corso della lunga ed estenuante guerra civile degli anni ’70 e ’80.
La debolezza di guida del sunnismo libanese è frutto anche del lungo controllo politico siriano su quel Paese, terminato solo con l’omicidio del premier sunnita Rafiq Hariri esattamente dieci anni fa, e del contemporaneo supporto alle frange salafite in fermento nel Paese da parte dell’Arabia Saudita, della Turchia e delle nazioni del Golfo. Queste ultime, in particolare, hanno agito attraverso le ormai note organizzazioni caritatevoli come la Fondazione qatarina Sheik Eid e la kuwaitiana Società per la Rinascita Islamica, al solo scopo di prendere il controllo della componente sunnita libanese (22% della locale comunità musulmana) in funzione anti- hezbollah e Iran: un supporto anche alle frange estreme sunnite mai negato e, al contrario, sfruttato dagli eredi di Hariri, che hanno utilizzato così il salafismo sunnita in maniera ambivalente e solo ad hoc, ossia per ottenerne l’appoggio nel corso delle elezioni ma tenuto, invece, a distanza nella gestione del potere locale. Una duplicità che ha finito per dividere la comunità sunnita libanese e a farla propendere, in parte, proprio verso le posizioni più estreme salafite, e le immaginabili conseguenze al deteriorarsi dei fatti siriani e iracheni, e il conseguente rafforzamento di gruppi jihadisti salafiti.
I legami fra salafiti libanesi e quelli siriani si sarebbero infatti rafforzati: elementi jihadisti del campo palestinese di Ain-al-Hilweh, fra gli altri e di ritorno dall’Iraq, avrebbero garantito l’addestramento a soggetti qaedisti affiliati alla siriana Jabhat al-Nusra, in un mix di difficile comprensione circa la distinzione fra attivisti soltanto e veri e propri combattenti.
Ora, però, il resto del Libano, come i cristiani ma anche i palestinesi stessi della regione sono obiettivo del jihadismo salafita. Ciò a dimostrazione – se ancora ve ne fosse bisogno - del carattere globale di quella minaccia che non risparmia alcuna comunità, tutte unite da un filo rosso della violenza di una forza, quella salafita sunnita, creata e sostenuta per contrastare lo sciismo e l’influenza iraniana, ma che è finita per fare vittime senza più alcuna distinzione di appartenenza religiosa ed etnica.
Il coinvolgimento dei palestinesi nel conflitto siriano è emerso, tuttavia, con i fatti del loro più grande campo, quello di Yarmuk, alla periferia di Damasco, le cui vicende raccontano in estrema sintesi i travagli ma anche le più grandi contraddizioni dovute all’incostanza della loro leadership politica, i cui effetti potrebbero ancora una volta risultare sconcertanti.
Ciò che sta avvenendo nel campo palestinese di Yarmuk, è rappresentativo, infatti, delle lotte e delle rivalità interne al mondo arabo musulmano sunnita che, dai macrolivelli regionali si proietta nei microcosmi locali in un sanguinario balletto di alleanze e di tradimenti.
I combattimenti strada per strada e le violenze sui civili di Yarmuk da parte di Da’ish sono, infatti, anche il risultato di cattivi calcoli opportunistici da parte dei capi di Hamas e quelli dell’Anp, a cui si aggiungono i sofisticati equilibrismi strategico-tattici del regime siriano, tanto da assumere i toni di una emergenza umanitaria e sollevare le proteste della comunità internazionale, sebbene quella tragedia non sia differente da innumerevoli altre che già si stanno consumando da tempo in tutta la regione e per tutte le altre rappresentanze etniche e religiose ma dalla minor eco mediatica.
L’approccio dei media è ancora una volta deviato da semplificazioni che, seppur evidenzino l’aspetto tragico delle condizioni di vita di quelle persone, giungono però a fare paragoni forzati con altri avvenimenti violenti, come i massacri di Sabra e Chatila, sebbene ciò che sta avvenendo a Yarmuk non abbia nulla a che vedere né nei presupposti né nelle modalità esecutive con i drammatici fatti del giugno 1982.
Il quadro è decisamente molto più articolato e rispecchia non solo la complessa eterogeneità di soggetti, sigle e situazioni proprie della guerra siriana, ma anche i numerosi sviluppi dovuti a rivalità interne al mondo politico palestinese, con relative implicazioni prettamente strategico-militari oltre a sottili calcoli tattici propri di un equilibrismo che sta permettendo al regime di Assad di sopravvivere a ben 4 anni di guerra.
Proprio Yarmuk è il risultato del coinvolgimento diretto di Hamas nel conflitto siriano, smentendo così la sua neutralità nel momento in cui altri grandi avvenimenti stanno stravolgendo la regione, come il rafforzamento del ruolo dell’Iran, vero o presunto che sia - sebbene così sia percepito - dopo il pre-accordo di Losanna sul nucleare e il fatto che della destituzione effettiva del regime degli Assad ora sembri non interessare più nessuno se non Israele, ma meno che mai una potenza, nemica storica della Siria, ossia gli Stati Uniti.
Ciò dà una valenza ancora maggiore di quanto evidenziato dai media occidentali come tragedia umanitaria perché Yarmuk, sebbene già fosse un ghetto di 150mila persone a cui non veniva riconosciuto alcun diritto ed erano sostenute da sussidi delle Nazioni Unite e dalle rimesse di migranti, era (ed è) considerata la capitale politica del movimento di resistenza armata palestinese, dato che in Yarmuk ha sede il FPLP-GC di Ahmed Jibril, il più acerrimo oppositore all’Anp di Abu Mazen e ospitato dal governo di Damasco nel cuore della capitale, con tutte le implicazioni per il regime sia di immagine per il suo supporto alla lotta armata di quel gruppo palestinese (perché contrario al processo di pace e responsabile di attacchi terroristici anche contro leader arabi) sia di carattere politico regionale che ciò comportava.
Se la presenza del FPLP-GC e la dichiarazione di neutralità di Hamas che, nel 2012 rompeva le relazioni con Damasco per non essere complice dei massacri del leader siriano, erano riuscite a mantenere Yarmuk fuori dal conflitto, nel corso del 2014 la situazione era andata degenerando per l’allargamento alle vie del quartiere palestinese dei combattimenti fra l’Esercito libero siriano e le forze lealiste, a cui ben presto avrebbe fatto eco un cambiamento nei rapporti fra Assad e la leadership palestinese, in particolare l’ Anp di Abu Mazen (sempre in funzione anti FPLP-GC) e la stessa Hamas.
L’Autorità Palestinese votava, infatti, a favore delle sanzioni alla Siria e la sua sospensione dalla Lega Araba (per l’Iraq si era astenuta), mentre Hamas permetteva alla milizia Aknaf Bayt al-Maqdi, (sua emanazione nel campo) di stringere un’alleanza con la qaedista Jabhat al-Nusra contro le forze del regime ma anche contro Da’ish stessa, entrando così a piè pari nel conflitto siriano.
In poco tempo si veniva così a creare questo scenario all’interno del capo di Yarmuk: forze lealiste siriane e quelle del FPLP-GC e di Fatah al-Intifada (vicina a hezbollah), schierate a favore di Assad; a contrastarle, oltre ai combattenti moderati dell’ Esercito Libero, la qaedista Jabhat al-Nusra, l’islamista siriana Ahrar al-Sham, la palestinese filo-Hamas Aknaf Beit al-Maqdis ed elementi, sempre palestinesi, di al-Uhda al Umariya, fuoriusciti da FPLP. Contro tutti costoro, vi erano le forze di Da’ish che riuscivano a strappar loro il controllo del 90% di Yarmuk, anche grazie agli ambigui comportamenti tutti interni alla formazione palestinese e qaedista.
Infatti, mentre Hamas si coinvolgeva sempre più nel conflitto siriano, proprio al-Nusra decideva che più che le alleanze era strategico mantenere la propria presenza sul terreno, in modo da prendere parte alla futura transizione politica, anche a costo di balletti di alleanze improvvisi e sconcertanti. E per questa ragione e per non perdere nel confronto dentro a Yarmuk - che avrebbe significato perdere Damasco - al-Nusra preferiva non contrastare il nemico Da’ish, lasciando quest’ultimo libero di compiere la sua battaglia strada per strada e attuare le sue violenze contro le fazioni palestinesi, con l’esecuzione di punizione pubbliche quali la decapitazione di due fra i maggiori rappresentanti di Hamas proprio della comunità di Yarmuk.
A fare da cappello a tutto ciò interveniva la decisione di Abu Mazen e dell’Anp di non intervenire in supporto alle milizie palestinesi e per la salvaguardia della propria gente di Yarmuk, con un repentino cambio di decisione tanto da screditarsi ulteriormente presso quei disperati ma anche presso la propria gente di Gaza e Cisgiordania, ora più vicina ad Hamas.
Inoltre, il tradimento dell’Anp, oltre a quello all’ interno dell’ alleanza tutta sunnita Hamas-al-Nusra, non poteva non avere inevitabili conseguenze favorevoli per Assad.
La presa di Yarmuk da parte delle forze Da’ish e il perpetuare delle loro violenze rappresenta, infatti e al momento, un ulteriore punto a favore per Assad, perché il fatto che al-Nusra abbia permesso la conquista del campo profughi palestinese alle forze Da’ish dopo aver rinnegato improvvisamente l’accordo con Hamas per convenienza tattica, scredita e fa apparire inaffidabile la qaedista al-Nusra, che Assad comprende di non poter sovrastare militarmente. Per questo, Assad spera che ciò vada ad alimentare il divario proprio fra Da’ish e al-Nusra, soprattutto a fronte del rischio di una pericolosa alleanza, già più che un’ipotesi, fra i tagliagole e le forze qaediste.
Inoltre, proprio in seguito al tradimento di al-Nusra, potrebbe esserci un possibile riavvicinamento di Hamas ad Hezbollah, peraltro non così improbabile visto che già a fine estate scorsa, dopo la guerra Hamas-Israele, elementi dell’organizzazione palestinese erano corsi a Teheran in cerca di protezione. Ciò, al momento e inevitabilmente, inquieta soprattutto Tel Aviv, con le immaginabili conseguenze di un simile patto sulla sua sicurezza a nord e sud del suo territorio.
Yarmuk, quindi, è solo l’ultima violenta testimonianza del complesso quadro strategico della guerra siriana e dell’eterogenea rappresentanza dei suoi protagonisti, in cui convergono decenni di storia di conflitti mediorientali che vanno ad aggiungersi a quelli più recenti alimentati dall’ isterismo dell’estremismo politico e religioso, uniti ad una buona dose di velleità per il dominio regionale da parte di potenze locali, che stanno finendo per smembrare l’intera area e per allargare i confini del confronto bellico.
Il caso dei cristiani, dei drusi e degli stessi sunniti libanesi protetti efficacemente solo dalle forze sciite hezbollah, ossia della fazione da sempre antagonista, così come le vicende dei tradimenti, dapprima di Hamas verso Assad, e poi di al-Nusra verso Hamas, così come dell’Anp verso il proprio popolo di Yarmuk, con le indicibili violenze che ne sono seguite, sono tutti elementi rappresentativi della forte incostanza che caratterizza i protagonisti della politica mediorientale.
Essa è al contempo causa ed effetto dei mali che affliggono la regione; anche se da sempre presente, questa volubilità comportamentale era un tempo sfruttata ma anche mediata dalle potenze mondiali che ora paiono essersi defilate, lasciando il campo libero a potenze regionali, come Arabia Saudita, Turchia, Qatar e Emirati Arabi, che agiscono però con la schizofrenia dovuta all’isteria del contenimento dell’altra grande protagonista, l’Iran, senza riuscirci, come dimostra il rafforzamento di hezbollah dal Libano, Siria, Iraq e sino allo Yemen.
I risultati sono evidenti ma non ancora compiuti, come le vicende dei cristiani, drusi e sunniti libanesi e dei palestinesi stanno dimostrando drammaticamente ad una esterrefatta comunità internazionale, ogni volta sconvolta e incredula delle violenze che vi si perpetrano, ma anche facilmente pronta a dimenticarsene, dimostrando altrettanta incostanza di giudizio e di azione verso le guerre del Vicino Oriente e del Nord Africa, né più né meno dei protagonisti locali.
13/4/2015
Foto: Latuff Cartoons
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