Quando, un paio di anni fa, apparve la notizia della decisione degli Stati Uniti di riprendere a trivellare il sottosuolo per sfruttare al meglio le proprie riserve da scisti bituminose, ossia la shale gas e il tight oil, gli analisti politici – più ancora di quelli economici – iniziarono a elaborare possibili scenari, in cui la costante era, e non poteva essere altrimenti, la fine della dipendenza statunitense dal petrolio del Vicino Oriente e il ridimensionamento della portata strategica di soggetti quali l’Arabia Saudita, sia nei rapporti con Washington che nella stessa regione mediorientale. Per la prima volta, dopo quarant’anni, era sembrato giunto il momento in cui ci si sarebbe liberati da quello schema “guerre-petrolio” che sottostava alle semplicistiche interpretazioni di quelle che, invece, sono le più complesse relazioni internazionali della storia contemporanea. Questo criterio, tuttavia, troppo facile, scontato ma soprattutto affrettato, rischia di far prendere abbagli circa il futuro dei rapporti politici, economici e anche di sicurezza di quella regione, alla luce, della reale portata di quella che è stata definita, appunto, la shale revolution e di quanto sta avvenendo nel campo energetico mondiale.
I toni del nuovo dibattito circa questa svolta epocale dovuta agli idrocarburi non convenzionali sono apparsi subito alquanto discordanti: il tutto ruota attorno a quel che riguarda la reale portata di questa che è stata considerata una rivoluzione nella gestione di materie prime strategiche, con i suoi inevitabili effetti sul futuro di regioni come la Penisola Arabica, tanto da prospettarne addirittura la scomparsa come soggetti protagonisti assoluti della geopolitica e della geoeconomia tradizionali mediorientali. Di certo, il rinnovato interesse statunitense per gli idrocarburi non convenzionali – in particolare il gas - di cui sono variamente ricche altre nazioni quali Canada, Brasile, Argentina, ma anche Sud Africa, Libia, Algeria, nonché la Polonia e la Francia, sembrerebbe portare ad una svolta radicale dei tradizionali rapporti geoeconomici mondiali anche se, al momento, l’unico vero e consistente effetto è stato registrato sulle varie piazze borsistiche per via della speculazione sui loro derivati. Nel 2011, le operazioni di fusione e di acquisizione legate a quella che stata già definita la “bolla da shale”, avevano raggiunto, nella sola Wall Street, un volume di 46,5 miliardi di dollari, rivelandosi il più importante elemento di profitto per numerose banche di investimento. Tutto ciò avveniva nonostante vi fossero già segnali discordanti circa la resa effettiva dei pozzi e con la quasi certezza di una sovrastimazione di quelle riserve dal 100 al 500% rispetto alla produzione effettiva.
L’intera vicenda della decisione degli Stati Uniti è stata gestita dai mass media con parecchia superficialità, tanto da creare grande confusione circa la sua reale portata nello scenario energetico mondiale. Di assodate vi sono solo alcune considerazioni: un maggiore e rinnovato interesse statunitense per i propri giacimenti di petrolio e di gas non convenzionali (quindi, con quest’ultimo, un’energia più pulita almeno in apparenza, sebbene il shale gas sia già prodotto sul territorio americano da oltre trent’anni), l’inevitabile speranza del raggiungimento di una indipendenza energetica e, in particolare, un’ influenza positiva sul prezzo di una materia prima come il gas (al momento, infatti, è un quarto di quello del petrolio) con relative ripercussioni sull’intero ciclo industriale e produttivo degli Stati Uniti dopo la brusca frenata degli ultimi anni. In pratica, per Washington, si tratta solo di valutare come ottenere il massimo vantaggio economico da una posizione di monopolio che gli Stati Uniti si sentono di possedere grazie alla vasta disponibilità di questi elementi e all’ utilizzo di nuove tecnologie a brevetto per lo più statunitense come – sebbene con distinguo, ma fra i più conosciuti - il fracking (o fratturazione idraulica) e il directional drilling o fracturing (ossia perforazione direzionale, che avviene fratturando la materia con acqua, sabbia o ceramica e agenti chimici proiettati con grande forza), che permettono di estrarre petrolio da strati di rocce nel sottosuolo e il gas da quelle argillose, in profondità comprese fra i 2000 e 4000 metri e in regioni dove, fino a poco tempo fa, era pressoché impossibile intervenire. La produzione di shale gas e tight oil, ripresa a ritmi sostenuti negli Stati Uniti, può aggiungere alla produzione mondiale l’equivalente di idrocarburi di un grande Paese del Golfo Persico, come l’Arabia Saudita, ma soprattutto più dell’attuale produzione dell’Iran.
Tuttavia, il quadro generale non è, poi, così roseo come appare nelle analisi di settore, soprattutto dei centri studi degli istituti finanziari.
I dati circa la produzione degli Stati Uniti solo di tight oil sono eloquenti in tal senso, tanto da far affermare ad alcuni commentatori economici che la shale revolution, per i suoi positivi effetti negli ultimi due anni sull’occupazione, crescita economica e sicurezza energetica, avrebbe evitato alla nazione americana un’ ulteriore crisi recessiva. Le cifre, sono, in effetti molto importanti e destinate a crescere, ossia dai 4,4 milioni di barili giornalieri del 2011 ai 7,3 previsti per fine 2013, sino ai 14,5 (con l’apporto anche del Canada) per fine 2014, mentre è certo il raggiungimento del record storico delle loro scorte commerciali, a maggio 2013, di 400 milioni di barili. Per il gas – utilizzato per lo più per l’ energia elettrica in competizione con acqua e nucleare, soprattutto dopo Fukushima – il salto produttivo è più lento, ossia dai 511 miliardi di metri cubi prodotti nel 2005 ai 690 attuali, ma destinato, secondo alcuni analisti economici, a incrementarsi. Addirittura, stando all’ultimo rapporto dell’IEA, già nel 2015 gli Stati Uniti sorpasseranno la Russia come principale produttore di gas e, se si considera anche il petrolio, nel 2020 avranno superato la stessa Arabia Saudita come fornitore, sino ad arrivare, entro il 2035, ad essere totalmente autosufficienti. In pratica, da maggior cliente dell’Opec, gli Stati Uniti potrebbero diventare addirittura esportatori netti di petrolio e di gas: non è un caso, infatti, che la Commissione Energia del Congresso stia esaminando, in questi mesi estivi, la proposta di togliere il divieto ad esportarli, tanto da far dichiarare ad alcuni commentatori che ciò rappresenta il primo passo per la trasformazione degli Stati Uniti come rivali della stessa Opec. Una svolta epocale, quindi, dopo quarant’anni di pressoché totale dipendenza del mondo occidentale dalle decisioni di quel cartello.
Inutile sottolineare che a fare da sfondo a tutto ciò è quell’ agognato desiderio di energy indipendence di cui Nixon si auspicava per la nazione americana già nel 1973, ossia nel momento in cui, per via delle questioni belliche del Kippur, con l’ interruzione della fornitura di greggio da parte dei Paesi dell’ Opec e la presa di coscienza di non averne a sufficienza, gli Stati Uniti e i loro alleati realizzarono, di colpo, che erano stati eliminati i vantaggi della loro property of supply, trasformatasi inaspettatamente in affanno da security of supply. Infatti, il mondo occidentale più industrializzato comprese improvvisamente come petrolio e geopolitica fossero strettamente correlati ed, in particolare, di quanto il proprio sviluppo e relativo benessere dipendessero dalla stabilità politica del Medio Oriente, dall’affidabilità dei Paesi dell’ Opec e, in particolare, dalle loro inaspettate decisioni. Con la guerra del Kippur, la relazione property-security si era rotta, di fatto, improvvisamente e anche in maniera devastante, facendo emergere prepotentemente l’ossessione della security tout court che si sarebbe ulteriormente manifestata, con toni ancora più allarmanti, con la tanker war iraniana del 1988, la guerra del Golfo del 1990-91 sino al dispiegamento delle truppe terrestri e navali statunitensi per la guerra al terrorismo dopo l’11/9. Da tutto ciò è derivato quel semplicistico paradigma “guerre-petrolio” che, però, da decenni domina banalmente nelle analisi politiche di quella regione.
La storia di quei Paesi mostra, invece, come le variabili siano sempre state ben più complesse, in cui petrolio e gas certamente hanno avuto e hanno un ruolo significativo ma non dominante, essendo per lo più fonte di una straordinaria ricchezza che permette a chi ne possiede di modificare le regole di un gioco, appunto, a più variabili e decisamente più intricato. Ne sono un’ultima testimonianza esaustiva in tal senso i comportamenti dell’Arabia Saudita e del Qatar rispetto alle rivolte del Nord Africa e del Medio Oriente degli ultimi due anni, in cui il fattore “petrolio” non ha alcun valore, e meno che mai nel caso della guerra in Libia e della violenta destituzione di Gheddafi, dove invece erano e sono in gioco molteplici fattori di carattere politico, fra i quali un più vasto disegno, da parte degli ex paesi colonialisti, di riconquista del continente africano, dalle molteplici valenze economiche (come vastità di mercato, disponibilità di ricchezza mineraria e area di transito di traffici di varia natura) ma soprattutto dalle irrisolte contraddizioni territoriali, etniche e religiose.
Gli interventi militari degli Stati Uniti nella regione mediorientale, ed è bene ribadirlo ulteriormente, non sono stati solo ed esclusivamente dettati dal desiderio di controllare quelle materie strategiche e di influenzare, di conseguenza, le decisioni di chi le detiene, dato che, dal Medio Oriente, Washington importa solamente il 12% del proprio fabbisogno energetico. Non è nemmeno più una interpretazione esauriente e valida quella secondo cui gli Stati Uniti avrebbero agito e agirebbero militarmente per garantire la sicurezza delle forniture ai propri alleati occidentali, in particolare un’Europa a forte deficit energetico. La storia delle relazioni energetiche europee con la Russia o il Nord Africa va sovente in tutt’altra direzione rispetto a questa semplicistica spiegazione e, soprattutto, alle aspettative di Washington circa il comportamento dei suoi alleati. Questa interpretazione è frutto, infatti, di una deformazione analitica propria di un approccio complottista che ora vorrebbe spiegare il non intervento statunitense nella guerra siriana solo perché Damasco non possiede giacimenti petroliferi; ancora una volta si tratta di semplificazioni al limite della banalità propri di una stampa e una cultura che non si rendono affatto conto della moltitudine di fattori che caratterizzano la vita politica, economica e sociale di una regione complessa, in cui gli elementi di contrasto vanno ricercati almeno in un secolo di storia contemporanea. E l’elemento petrolio è sicuramente significativo ma non è esclusivo ed esaustivo.
Molte cose, inoltre, sono cambiate rispetto a quarant’anni fa in cui il dominio economico era unicamente occidentale e i paesi più industrializzati consumavano 2/3 del petrolio mondiale: ora, non solo costoro sono fortemente in crisi, ma con una presenza come quella dei BRIC che consumano, da soli, un quarto del greggio mondiale, con il ruolo dominante di Cina che, per la sua espansione economica, guarda al greggio del Medio Oriente come da tempo a quello dell’America Latina o alle materie prime dell’Africa, ecco che la decisione statunitense è destinata ad avere un’ influenza a più livelli, da quello delle variabili propriamente economiche, quali il prezzo del greggio o del gas, sino a quelle di ridefinizione delle relazioni internazionali e del quadro geopolitico mondiale, andando quindi ben oltre la regione mediorientale.
Inevitabile che, di fronte ai dati della shale revolution statunitense, si amplifichino supposizioni circa il futuro della produzione e delle esportazioni di queste risorse, in cui l’interazione fra potere statale e potere del mercato assume una valenza strategica perché da esse dipende l’uscita dalla forte crisi e il mantenimento del ruolo di potenza economica degli Stati Uniti, supportata dalla forte domanda energetica dei Paesi europei. Gli Stati Uniti, infatti, non fanno parte di alcun cartello e non sono, di conseguenza, limitati da alcun soggetto esterno, così come pure sono regolati dalle leggi dell’economia di mercato in cui, senza eccessivi limiti da parte del potere centrale, i privati decidono ciò che è meglio per i loro interessi. Impossibile non immaginare che dalla shale revolution statunitense verranno influenzati l’industria, il commercio, oltre all’onnipresente finanza, così come ovviamente anche i prezzi di queste materie prime a livello mondiale. Sebbene questa rivoluzione non libererà né gli Stati Uniti né il resto del mondo industrializzato dalla dipendenza energetica, sicuramente cambierà la distribuzione del potere nel mondo, con l’entrata di nuovi soggetti in una partita al momento totalmente inedita fra chi dispone di questi idrocarburi non convenzionali e chi non ne possiede affatto.
Infatti, le prime conseguenze della decisione statunitense si sono fatte sentire soprattutto sulle esportazioni di greggio di Paesi con petrolio più simile come caratteristiche al tight oil, ossia l’Algeria, la Nigeria e l’ Angola che, nel 2012, hanno visto calare del 41% le loro forniture agli Stati Uniti; e la tendenza al ribasso sta continuando. Qui emerge la security tout court di cui si parlava poco sopra: il timore, infatti, è che si possa arrivare a spingere i produttori africani e nordafricani a stringere accordi con l’Iran e il Venezuela per mantenere alto il livello del prezzo del petrolio, diminuendone la produzione. In tal modo, Teheran supererebbe le perdite dovute alle sanzioni (stimate intorno ai 26 miliardi di dollari), annullandone gli effetti deterrenti, e Caracas andrebbe in pareggio con quelle indotte dalla forte crisi di produzione petrolifera dovuta all’obsolescenza dei suoi impianti di estrazione, mai sostituiti per far fronte ad altre emergenze economiche interne che però, di fatto, hanno penalizzato la principale fonte finanziaria del Paese. Questo dibattito ha scosso l’ultima riunione dell’Opec a Vienna, nel maggio scorso: producendo il 35% dell’offerta mondiale di greggio e per sostenere i prezzi, a fronte della sfida proprio del tight oil, una parte dei membri Opec avrebbe optato per un taglio alla produzione, ma ha trovato l’opposizione tranquilla dell’Arabia Saudita, che si è garantita il solido appoggio di una coalizione di altri produttori, non temendo la shale revolution solo perché il regno dei Saud produce – come si vedrà in seguito – un altro tipo di greggio che soddisfa maggiormente la forte domanda di Paesi, soprattutto asiatici, e ben sapendo, inoltre, di poter ancora indirizzare le scelte internazionali in questo settore.
Infatti, la tranquillità dell’Arabia Saudita, così come di parte dei massimi produttori di idrocarburi del Golfo Persico, è data da alcuni aspetti della shale revolution in parte o del tutto trascurati dai commentatori economici che, però, non possono non incidere nell’elaborazione di scenari futuri, anche politici e che si vorrebbero attendibili.
La vera rivoluzione circa il gas e il petrolio deve essere ricondotta, infatti, su due binari ben distinti, ciascuno con problematiche e vantaggi indiscutibilmente separati. La questione più grave, e relativa allo shale gas, riguarda la sua controversa sostenibilità economica e ambientale. Lo shale gas, infatti, ha una produttività inferiore rispetto a quello tradizionale, in quanto se dai pozzi di quest’ultimo si ottiene fino al 70% di quanto disponibile, dalle rocce argillose non si è arrivati oltre il 30%. Inoltre, i pozzi dello shale gas hanno tassi di esaurimento vertiginosi (dall’80 al 95%, nei primi tre anni), tanto che dal 30 al 50% della produzione di gas da scisti deve essere rimpiazzata annualmente con nuovi giacimenti. Attualmente negli Stati Uniti sono attivi circa 1000 unità di perforazione, per un totale di 8-10 mila pozzi l’anno, con costi - per un impianto a pieno regime – dai 4 ai 10 milioni di dollari. Di conseguenza, e secondo alcuni studi di settore, per mantenere il livello attuale di produzione, agli Stati Uniti servirebbero 7.200 nuovi pozzi l’anno e un investimento in trivellazioni pari a 42 miliardi di dollari annui, ben oltre i 33 attuali ricavati, tra l’altro, soprattutto dalle operazioni speculative in Borsa.
Il discorso non è molto differente per ciò che riguarda il tight oil: un rapporto del Fondo monetario internazionale di fine 2012 sosteneva che gli attuali 2 pozzi statunitensi (North Dakota e Texas) coprono l’80% della produzione statunitense, con tassi di declino della produttività dall’81 al 90% nei primi due anni. Sebbene l’argomento sia ancora molto controverso, vi è comunque concordanza nell’affermare che c’è convenienza ad estrarlo solo se il prezzo del greggio supera il 70 dollari al barile, una soglia considerata critica anche per i tradizionali produttori del Golfo Persico: un eccesso di offerta, quindi, di idrocarburi tradizionali e di quelli non convenzionali, non favorirebbe nessuno. Da queste considerazioni, si comprendono le preoccupazioni in sede Opec, circa le decisioni da prendere per mantenere adeguato il prezzo a fronte delle grandi trasformazioni in atto nel settore, e viste soprattutto le pressanti richieste di Paesi dalle complesse valenze politiche internazionali, come l’Iran e il Venezuela.
Inoltre, anche se la corsa allo shale gas ha permesso quello che è stato definito dash for gas, ossia un aumento della sua produzione a scapito del carbone, considerato inquinante – ma ancora ampiamente utilizzato per l’energia elettrica in Paesi come la Cina - tuttavia le tecniche estrattive sono da considerarsi ben più dannose dell’inquinamento da eccessivo uso di quest’ultimo, per via dell’impiego esorbitante di acqua necessaria e per il rischio di contaminazione del sottosuolo dai potenti agenti chimici utilizzati. In aggiunta, proprio le tecniche di fracking, a brevetto statunitense, sarebbero considerate responsabili di un aumento dell’ attività sismica, tanto da essere proibite, ad esempio, in Francia e in Olanda, così come in discussione nella stessa California. Si tratta di rischi ambientali evidenziati da numerosi studi scientifici, ma altrettanto ridimensionati da contributi dalle conclusioni di carattere totalmente opposto, da cui l’origine di molta confusione al riguardo ma, soprattutto, dell’ imperturbabile prosecuzione di attività estrattive da parte statunitense con i dati visti più sopra.
Tutta un’altra storia, invece, riguarda il petrolio, dato che quello a cui stanno puntando soprattutto le economie emergenti, così come i Paesi del MENA anche per via della pressione della loro crescente domanda interna, è quello altamente raffinato che, proprio dalle nuove tecniche di downstreaming, ottiene quel plus in grado di fare la vera differenza fra vecchi e nuovi produttori di greggio. In pratica, se c’è una rivoluzione in atto, non è tanto riferita al confuso e controverso settore degli shale gas e tight oil, quanto alle sofisticate tecniche di raffinazione in grado di produrre un petrolio più “delicato”, conforme agli standard di protezione ambientale e preferibile, quindi, a quello tradizionale più inquinante. Infatti, è nata una corsa alle nuove tecniche di raffinazione e, fra tutti i soggetti di questa competizione, emergono due protagonisti per ora assoluti, ossia l’Arabia Saudita e la Cina.
In questo contesto, invece, sembrano pagare un duro prezzo gli impianti di raffinazione europei, con relativo stop di utilizzo dovuto a varie ragioni, come la diminuzione di domanda a causa della crisi economica, l’ obsolescenza stessa delle strutture e i loro elevati costi di gestione a fronte di un prodotto non più adeguato, da cui l’incapacità a sostenere la concorrenza sino a obbligare alla loro dismissione, perché è un’industria non più compensata dai suoi profitti. Le recenti chiusure dei soli impianti europei hanno fatto perdere 1,7 milioni di barili al giorno, che vanno ad aggiungersi a quelli persi in Nord America e in Giappone, per un totale previsto entro il 2014 di 5 milioni di barili giornalieri. A fronte, però, di una aumentata domanda di idrocarburi proveniente da vaste aree in crescita, in particolare quella dell’Asia-Pacifico, ecco che l’interesse delle società petrolifere internazionali si sta ora muovendo verso Oriente, dove maggiore è la domanda di prodotti altamente raffinati ma soprattutto in cui conviene investire, perché già dotate di know how tecnologico innovativo adeguato.
Non meno significativa è l’azione di investimento dei Paesi produttori del Golfo Persico, non solo nel tradizionale upstreaming ma soprattutto nel downstreaming, con fine unico l’esportazione: anche in questo caso, la Cina domina coma cliente favorito, sia per via della forte domanda interna sia, in una logica di win-win, per la realizzazione di società congiunte sino-mediorientali per la raffinazione (come sta avvenendo con i colloqui fra la cinese Sinopec, la Qatar Petroleum e la Saudi Aramco), in cui Pechino sembra emergere come concorrente, in competizione con un’India che si sta avviando a rivaleggiare proprio per le tecniche utilizzate. Se il determinato attivismo cinese è giustificabile per garantirsi la fornitura e soddisfare l’intera area asiatica e del Pacifico, per i Paesi del Golfo Persico, invece, significa solo volersi assicurare i nuovi mercati asiatici. L’asse più strategico della competizione energetica si sta, quindi, spostando verso Oriente: non sembra, infatti, poter competere nemmeno l’azione di un altro grande protagonista della scena energetica mondiale, ossia la Russia, dato che, appena percepita l’importanza della raffinazione e per tentare di raggiungere più alti livelli richiesti da mercati importanti, Mosca ha avviato trattative per la creazione di nuovi impianti ma con forte innesco di capitali cinesi. Una scelta di rinnovamento pressoché obbligata, dato che l’export di gas e petrolio rappresenta il 70% delle entrate russe. Non da meno, inoltre, anche Mosca si sta apprestando ad affrontare la sfida delle proprie riserve di shale gas, in una affannosa rincorsa competitiva per soddisfare il vicino mercato europeo.
Inevitabile che da questi cambiamenti, più o meno repentini ma sicuramente radicali, a livello energetico mondiale sia nella estrazione di idrocarburi tradizionali e relativa raffinazione, sia per quelli non convenzionali, non potranno non cambiare gli scenari delle relazioni internazionali (come per la questione della ridefinizione delle stesse rotte commerciali e la loro relativa sicurezza, ad esempio) e anche di quelle intrastatali (al riguardo si pensi al valore altamente “strategico” del petrolio curdo nei rapporti con i relativi Stati di appartenenza).
E qui ritorna prepotente il nesso “guerre-petrolio” che ha dominato le analisi politiche ed economiche, di cui si è parlato più sopra. Quando appaiono notizie come quella per cui la Cina compra una media di 1,5 milioni di barili al giorno di petrolio iracheno (in pratica metà della produzione nazionale) e l’autore si chiede chi abbia realmente vinto la guerra in Iraq, dato il ruolo ben limitato in quel mercato degli Stati Uniti, forse più che aspettarsi una scontata e banale risposta dovrebbe porre a se stesso la domanda se i parametri con cui affronta la sua analisi, soprattutto storica, di certe vicende, siano equilibrati, obiettivi, con fondamenti culturali adeguati oppure semplicemente pregiudizievoli. Per quanto si possa non essere d’accordo con l’ abusato interventismo militare da parte della Superpotenza americana negli ultimi vent’anni, soprattutto in Medio Oriente, tuttavia, il giudizio deve rimanere confinato solo ad una questione di metodo e non permettere che venga distorto l’approccio al merito delle ragioni di quelle azioni, perché così facendo non si ha più quell’equilibrata capacità analitica in grado di far capire cosa sta accadendo e cosa potrebbe ancora accadere in quella regione. Da qui, l’ inadeguatezza interpretativa di molte analisi che abbondano dal web alla carta stampata e relativa imperizia nel trarre conclusioni da eventi come la shale revolution.
Visti, infatti, i presupposti di quanto sta accadendo con i contrastanti effetti della shale revolution avviata dagli Stati Uniti e di quelli, ben più certi, delle nuove tecniche di raffinazione, in cui spicca il ruolo influente della Cina, il riequilibrio geopolitico nel Vicino Oriente non potrà non coinvolgere, in un futuro molto vicino, proprio il mutuo interesse di queste due potenze per quanto può ancora sopraggiungere in quella regione in termini soprattutto di sicurezza. Ciò che più importa Washington, infatti, non è il suo esclusivo controllo di quelle riserve, quanto la loro accessibilità ai propri partner economici e la stabilità di quei Paesi produttori, al fine di scongiurare gravi distorsioni del mercato delle materie prime strategiche o addirittura il blocco del loro flusso verso l’Occidente, con un’ alternanza nella definizione dei prezzi in grado soprattutto di penalizzare la loro nuova impresa nell’estrazione shale.
La Cina, invece, è giunta in Medio e nel Vicino Oriente senza alcun intervento militare e non è vincolata ad alcun progetto politico, come invece gli Stati Uniti con la guerra al terrorismo e alla minaccia alqaedista radicata fortemente in Paesi quali l’Iraq e lo Yemen. Pechino ha, comunque, stretto alleanze a fini “energetici” con pressoché tutti i Paesi della regione, dall’Iran alla Turchia, passando appunto attraverso l’Iraq, così come al Qatar: impossibile, quindi, che resti totalmente estranea a qualsiasi problematica relativa alla sicurezza della regione. Perché poi, di fatto, ciò che conta realmente è la sicurezza e l’affidabilità di quelle nazioni, raggiungibili solo risolvendo diatribe decennali e, possibilmente, non alimentandone di nuove, trovando quel giusto equilibrio fra tradizione religiosa e aspettative secolari, ad esempio, o superando le stridenti contraddizioni economiche e sociali di un mondo dalle immense ricchezze riservate a poche élite, e dallo sfruttamento di una massa di disperati, per lo più di minoranze religiose e di immigrati.
L’obiettivo finale, per Stati Uniti e Cina, dovrebbe essere, quindi, la collaborazione congiunta per garantire la sicurezza da cui deriva anche quella energetica, a cui però, necessariamente, debbono affiancarsi i contributi degli altri protagonisti regionali, come appunto i Paesi del Golfo Persico, in testa l’Arabia Saudita per il petrolio e, per quanto riguarda il gas, il Qatar, in particolare alla luce di quanto sta avvenendo nella regione in seguito alle rivolte iniziate nel 2011 e nel cruento braccio di ferro con l’altra potenza petrolifera regionale, ossia l’Iran.
La shale revolution, quindi, con le sue cifre molto importanti e con le sue contraddizioni è solo un piccolo tassello di una grande trasformazione che sta investendo l’intero quadro energetico mondiale, ad iniziare dalla maggior accessibilità dei giacimenti artici, ad esempio, per via di un cambiamento climatico che, con lo scioglimento di ghiacci, permette anche nuove rotte marittime che, in futuro molto vicino, non potranno non avere influenza decisiva sulla definizione del prezzo degli idrocarburi. Così pure lo spostamento dell’attenzione dei produttori del Vicino Oriente verso l’Estremo Oriente non potrà non avere ripercussioni sulle rotte navali e quelle terrestri di oleodotti e gasdotti. In questo contesto, quindi, la shale revolution e la hemispheric energy re-centering degli Stati Uniti sono solo parte di un più vasto risiko strategico dai molteplici protagonisti, la cui valenza è influenzata da innumerevoli fattori locali – come hanno dimostrato le rivolte arabe, ma anche lo scontro fra sciiti e sunniti in tutto il Medio Oriente, o quello fra le tribù nomadi del Nord Africa e del Sahel – e dove la conflittualità è certamente presente ma non più esclusivamente imputabile a un unico responsabile e ai suoi esclusivi interessi, ossia gli Stati Uniti.
Ciò dovrebbe finalmente far comprendere che l’analisi politica di quella vasta regione che è il MENA non è banalmente ristretta a parametri solo economici e finanziari esclusivi del mondo occidentale, ma va oltre, e impone uno studio assiduo di società in apparenza immobili ma, in realtà, in continua evoluzione, da cui deve scaturire obbligatoriamente, attraverso la costante imposizione dell’apprendimento e della razionalità, una conoscenza senza pregiudizi, anche se ormai tutto ciò è difficilmente riscontrabile presso la gran massa di improvvisati osservatori e presunti analisti che ancora affronta l’ interrogativo circa un mancato intervento militare nel conflitto siriano con il semplicistico commento della mancanza di petrolio. Lo scenario mediorientale, come pure quello energetico nel suo complesso, è ben più articolato: la shale revolution statunitense ne fa indubbiamente parte, ma non è risolutiva dei complessi e, a volte, turbolenti rapporti della Superpotenza americana con i Paesi di una regione che, per una sua travagliata eredità storica, è fra le più tormentate al mondo.
10/8/2013
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Germana Tappero Merlo©Copyright 2013 Global Trends & Security. All rights reserved.