Nell’autunno scorso, a Pechino, le autorità cipriote organizzavano un forum dal titolo "Cyprus: An International Business Center & An Ideal Location for Investments and Tourism", dandosi un gran da fare nel dimostrare i vantaggi delle loro politiche di investimento e per l’immigrazione, anche e soprattutto per i cittadini non europei. L’attrattiva stava in una politica fiscale fra le meno invasive dell’eurozona e l’ennesima possibilità, per gli imprenditori cinesi, di muoversi più agevolmente verso i canali commerciali europei. Pechino rispondeva con entusiasmo, andando ad affiancarsi ai capitali russi nella conquista di un avamposto strategico del Mediterraneo.
Perché Cipro, e già da alcuni anni, si sta rivelando molto più di un’ amena isola per le vacanze e, per gli investitori più spregiudicati, un ennesimo paradiso fiscale, e le sorti del suo destino, sia politico che economico, dipendono in modo determinante dalla sua posizione geografica e dalla ricchezza di gas delle sue acque, oggetto di contese fra grandi protagonisti della scena mondiale.
Improvvisamente, infatti, da almeno due anni, le rocce e i fondali di quest’isola del Mediterraneo orientale sono diventati il perno attorno cui ruota un complesso scenario strategico, i cui interpreti sono soggetti dal calibro importante, come la Turchia, la Russia, oltre, inevitabilmente, l’Europa, ma soprattutto Israele, il Libano e, immancabilmente, la Siria, senza farsi mancare, appunto, anche la Cina. Si tratta di un risiko fra i più complessi che, se non fosse per l’ incognita di una temutissima escalation fra Israele e hezbollah (da cui la stabilità in Libano), e per le sorti della guerra in Siria, rappresenterebbe un esercizio fra i più attraenti e seducenti per gli analisti.
Infatti, e a ben vedere, a prevalere anche solo sui rischi di un (ennesimo) fallimento economico di una nazione dell’eurozona, vi sono i timori di ripercussioni sulla stabilità della propaggine più meridionale e orientale dell’Europa e di quella del Vicino Oriente, e molto sembra dipendere proprio dalle sorti di Cipro.
Ma procediamo con ordine. Quest’isola non destava più l’interesse degli analisti internazionali da parecchio tempo, ossia da quel 1974 con la sua divisione in due territori, sotto “influenza” greca e turca, ben separati da una zona cuscinetto controllato da forze Onu. Qualche scontro fra le due entità, portava alla ribalta, di tanto in tanto, la questione cipriota. Inoltre, dal punto di vista strategico militare, Cipro non appartiene alla Nato e nemmeno alla Partnership for Peace, ma “ospita” due territori a sovranità britannica, ossia le basi aeree di Akhrotiri a sud, e di Dhekelia a nord, vicino alla UN buffer zone.
Dopo di che, sebbene entrata nel 2004 nell’Unione Europea, Cipro non rappresentava altro che una località turistica al pari di tante altre isole del Mediterraneo.
Dal 2009 le vicende a Cipro erano, però, destinate a mutare: ispezioni e perforazioni da parte della US Noble Energy, in joint venture con le israeliane Delek Energy, Drilling LP, Avner Oil&Gas ltd e la Ratio Oil Corporation, individuavano giacimenti di gas off-shore che, stando a stime della British Petroleum, possono fare di quella parte di Mediterraneo un “secondo Mare del Nord” per capacità, ossia 3500 miliardi di m³ di gas, in grado, quindi, di garantire l’approvvigionamento all’Europa per almeno 50-100 anni. Una risorsa strategica, quindi, per un’Europa in crisi economica e affannata finanziariamente che necessita materie prime a buon mercato, oltre al fatto che il gas sta diventando sempre più determinante per l’implementazione di quella greneer economy voluta dal Protocollo di Kyoto.
In tutta quella vasta area detta Levantine Basin, Cipro e la sua partner Israele hanno individuato siti con differenti potenzialità: il cipriota Aphrodite (140-220 miliardi di m³, per un valore di 80 miliardi di euro), gli israeliani Yam Tethis (33,5 miliardi di m³),Tamar (250 miliardi di m³, che inizierà a produrre da aprile 2013), e il complesso di Leviathan (476 miliardi di m³), ubicati, il primo, al confine con le acque di Gaza e i secondi in quelle antistanti il confine fra Israele e Libano.
Per la Cipro greca si tratta di una fortuna da 2,2 miliardi di dollari annui che potrebbero arrivare oltre i 3 all’inizio del prossimo decennio, con la Turchia come principale acquirente. E questo sarebbe il primo dei vantaggi, a cui si aggiungerebbero quelli circa la collaborazione con Israele per fare dell’isola un hub strategico, o quel corridoio energetico del Mediterraneo orientale in grado di smistare gas sia verso l’Europa (soprattutto attraverso Paesi più “vicini” ad Israele, come Romania, Bulgaria e Albania) e verso l’Asia tramite alleanze ad hoc dal vicino oriente verso est, dato che nelle mire di affari di Tel Aviv vi sono l’India e la Cina.
La potenzialità di gas presente nel Leviathan renderebbe, quindi, Israele non solo indipendente, ma anche uno fra i più importanti esportatori di gas naturale al mondo, dato che dal 2017 potrebbe ricavarne 3 miliardi di dollari annui fino a raddoppiarne entro il 2020. Tutto ciò, oltre alla dotazione di oil shale, o sisti bituminose, di cui dispone – dopo Stati Uniti e Cina - per equivalenti 250 miliardi di barili di greggio, e che gli permetterebbe di liberarsi da quella carenza di materie prime strategiche che, negli anni passati, ha fatto sì che Israele diventasse leader nelle tecnologie più avanzate, anche per quanto riguarda le energie alternative.
Ma se la sfida per ottenere vantaggi dalle sisti bituminose passa attraverso complessi sistemi di estrazione ad alto consumo energetico e soprattutto idrico, oltre a importanti rischi per l’ambiente, l’estrazione del gas, la sua liquefazione e il suo trasporto con gasdotti verso l’Europa e verso l’Asia sono, per Israele, decisamente più fattibili e redditizi, salvo appunto questioni di carattere geostrategico internazionale che si stanno rivelando in tutta la loro gravità.
Sebbene si tratti di stime del tutto ipotetiche, non confermate, su riserve di gas di difficile e costosa estrazione, il fatto solo di averle individuate, contabilizzate in termini di indipendenza e di esportazione, soprattutto da parte di Israele e dei suoi partner statunitensi, ha dato il via a una progressiva girandola di contatti, alleanze, contratti, ma anche scontri e minacce da surriscaldare – se ancora ce ne fosse bisogno - quella parte di Mediterraneo che va dalle acque turche, a quelle cipriote, siriane, libanesi, israeliane e giù fino a quelle egiziane, ossia tanto vaste quanto l’area del Levantine Basin a dimostrazione di quanto il Mediterraneo orientale sia ancora una zona di frontiera, proprio per i suoi conflitti irrisolti.
Gli ingredienti ci sono tutti e sono ormai i soliti noti nelle vicende mediterranee e del Vicino Oriente: passaggio di oleodotti e gasdotti, protocolli d’intesa non firmati, confini territoriali o marittimi non riconosciuti e dispute sulle rispettive Zone Economiche Esclusive (ZEE) che, normalmente, si estendono per 200 miglia marine (o 370 km dalle coste), ma che nel contesto mediorientale variano in base a valutazioni del tutto soggettive fra i vari contendenti e secondo l’opportunità politica e strategica contingente. Ecco perché la scoperta di una ricchezza così immensa da cambiare le sorti economiche e politiche di aree, ora fortemente in crisi come quella europea, o strategica, come quella mediorientale, da parte di un soggetto come Israele, non poteva che scuotere equilibri di potenza delicatissimi che rimetterebbero in gioco innumerevoli questioni dai molteplici attori antagonisti.
Il primo scontro sul diritto di perforazione e di estrazione del gas è avvenuto proprio fra le due Cipro, l’estate scorsa: le acque interessate, secondo la Cipro del Nord, turca, appartengono all’isola nella sua complessità, e non tenere conto delle competing claims pone l’intera operazione cipriota-israeliana nell’illegalità, almeno stando al diritto internazionale così come inteso soprattutto da Ankara. E’, infatti, proprio la Turchia a non vedere di buon occhio le trivellazioni, tanto da minacciare la Cipro del sud di far intervenire la propria flotta, irritando di conseguenza anche Israele e Stati Uniti nelle vesti delle loro compagnie di perforazione coinvolte. Inoltre, proprio la questione di una Cipro divisa e in parte antagonista con la Turchia, ha fatto sì che Israele vi abbia visto nella scoperta di gas nelle loro ZEE comunicanti un’opportunità di partnership regionale, sia di carattere economico che di mutua difesa, ma solo con la Cipro greca.
A fine 2011 e inizio 2012 i due Paesi firmavano, infatti, accordi di cooperazione nei settori energetico, economico ma anche militare a protezione degli impianti e, nel gennaio 2013, è stato definito un accordo per cui Israele “controllerà” 1250 kmq di acque al confine fra le reciproche ZEE comunicanti. L’effetto più immediato è stato quello di “ridimensionare” il ruolo della Turchia, dato che nello sfondo vi è il progetto israeliano (con firma, nell’estate del 2011 fra Israele, Grecia e Cipro di mutua difesa) per realizzare quella interconnessione Euro-Asia con gasdotti e oleodotti che permetterebbe ad Israele e ai suoi partner di diventare interlocutori fondamentali non solo con l’Europa ma anche con nazioni come India e Cina che, dalle risorse energetiche del Vicino Oriente, dipendono strategicamente.
Per la Turchia, gli accordi Israele-Cipro hanno significato, infatti, veder sfumato definitivamente quel progetto con Tel Aviv di infrastructure corridor, risalente al 2007, fra i porti di Ceyhan e Haifa, che avrebbe incluso 5 oleodotti subacquei separati per il trasporto di petrolio, gas, elettricità, acqua e comunicazioni, in cui la Cipro turca giocava il ruolo di hub di smistamento.
Le nuove scoperte dei giacimenti nelle acque antistanti Israele e la Cipro greca hanno, quindi, cambiato drasticamente i progetti turchi, aggravando le tensioni fra i due Paesi, a cui aveva contributo, nel 2010, l’uccisione, da parte dell’IDF di 9 attivisti della Free Flotilla, ossia di una nave carica di viveri e destinata a Gaza: le scuse israeliane fatte ad Ankara per quegli “errori operativi” e avanzate da Netanyahu nel corso della visita di Obama, a metà di marzo del 2013, avrebbero una rilevanza non indifferente nell’allentare la tensione fra i due Paesi e per sbrogliare anche la complicata matassa del gas cipriota.
Infatti, la tensione fra i due Paesi ha assunto toni più gravi e preoccupanti proprio perché Israele ha stretto con Nicosia accordi di difesa, a protezione degli impianti di perforazione dei giacimenti di gas ciprioti, anche perché, nel 2011, la Turchia aveva mandato navi per la ricognizione, scortate da navi da guerra e aerei proprio per fermare le perforazioni cipriote. L’avvistamento di un aereo israeliano nei cieli della Cipro turca, a maggio del 2012, aveva ulteriormente innalzato le tensioni, a cui contribuivano anche le voci di un dispiegamento di 20mila unità armate ebraiche a protezione degli impianti off-shore ciprioti, a fronte di 30mila unità armate dalla Turchia nella parte nord di Cipro.
In pratica, le rivendicazioni turche circa le ricchezze marine cipriote hanno visto Ankara mostrare i muscoli o alzare i toni fino a sospendere, com’è accaduto a fine marzo 2013 gli affari con l’ENI dato che è coinvolta anch’essa con Cipro nell’affare del gas; ciò avveniva a pochi giorni dall’accettazione cipriota del doloroso pacchetto di bailout imposto dall’Unione Europea per uscire dalla crisi. In pratica, la Turchia persegue i suoi obiettivi di potenza nella regione, incurante delle difficoltà di un paese di quell’Unione Europea a cui ambisce partecipare, ma di cui sta manovrando a suo piacere realtà economiche importanti e strategiche come Cipro. Perché se si realizza concretamente il piano di estrazione del gas cipriota, Nicosia ha tutti i mezzi per uscire da quella sua strana crisi finanziaria.
Ma il ruolo della Turchia nello scenario di crisi cipriota e in quello conflittuale mediorientale è solo la punta di un iceberg ben più imponente, in cui Israele, Libano, la guerra in Siria e il relativo appoggio della Russia sono drammaticamente coinvolti.
Inevitabile, quindi, ipotizzare che dietro alla crisi di Cipro, per la strategicità della sua posizione, per le implicazioni economiche e finanziarie dei suoi importanti giacimenti di gas, per gli accordi con partner così compromessi nel risiko mediorientale, come Israele, e i relativi attriti fra Nicosia e Ankara, l’elemento “fallimento” delle sue banche sia solo una densa cortina fumogena che cela ben più complesse manovre, in cui sono in gioco la contesa per il dominio regionale fra più elementi, in cui si incunea drammaticamente il conflitto siriano, con protagonisti elementi supplementari come il Libano e i suoi hezbollah e la Russia con le sue forniture di armi, ma anche con i suoi cospicui investimenti proprio a Cipro. Anche qui, tuttavia, è necessario procedere con ordine.
L’emergenza della protezione militare degli impianti nelle acque antistanti Israele e di quelle delle ZEE fra Cipro e Libano deriva, infatti, per Israele, anche da un’altra minaccia, ossia quella lanciata dagli hezbollah libanesi che rivendicano, per il loro Paese, il diritto di estrazione del gas del giacimento Leviathan. Infatti, il Libano reclama come sue parte delle acque di ciò che Israele considera come sua ZEE, facendosi forte del fatto di aver firmato, come Cipro ed Egitto − ma al contrario di Israele e della Turchia − la United Nations Convention on the Law of the Sea (UNCLOS), che definisce le linee guida di sfruttamento delle risorse dei mari e che ne sancisce il diritto per uno Stato sino a 200 miglia nautiche oltre le proprie acque nazionali, ossia 12 miglia dalla costa.
Il Libano ha, inoltre, posto all’attenzione delle Nazioni Unite, sebbene unilateralmente, la questione dei suoi confini marittimi con Israele, senza però rivendicare alcunché sui giacimenti Tamar e di parte del Leviathan. Israele, come sua consuetudine, preferisce negoziazioni dirette e bilaterali. Infatti, ha definito sia con Cipro che con l’Egitto, congiuntamente, una linea mediana di demarcazione tra le acque di pertinenza, ma l’intesa con il Libano si rivela compromessa da innumerevoli fattori, dato che con quel Paese, ed in particolare per via della componente hezbollah, Israele è in conflitto.
Ne deriva che prima che si possa giungere ad un accordo sui confini marittimi, si rischia che la diatriba diventi un ulteriore casus belli fra Israele e hezbollah. Inoltre, parte di quanto rivendicato da hezbollah, rientra nei confini marittimi che già dal 2007 vennero definiti da un accordo fra Cipro e Libano. Ma se Cipro è tenuta in disparte, hezbollah è tornata a minacciare Israele, le Nazioni Unite e, in particolare, il Tribunale speciale per il Libano, da cui è partito l’ordine di cattura internazionale per 4 esponenti hezbollah coinvolti nell’omicidio del premier libanese Hariri. Insomma, la disputa su quelle acque hanno già riproposto tutti i più loschi intrighi e i drammatici risvolti dell’eterna guerra mediorientale.
Una buona dose di allerta deriva, inoltre, dalle dichiarazioni di Hassan Nasrallah, segretario generale degli hezbollah, che già nel 2011 affermava che la sua organizzazione si stava preparando a colpire navi lungo le coste israeliane, disponendo di missili antinave iraniani (e cinesi) C-802 e stava addestrando unità di commando per il sabotaggio subacqueo e per la guerra anfibia. Già allora, hezbollah esortava il proprio governo a Beirut a difendere le acque reclamate e trivellate invece da Israele perché parte integrante del territorio libanese; l’irruenza dell’azione hezbollah anche nei confronti del proprio governo centrale e i toni usati nel minacciare azioni militari, non potevano che innalzare la tensione fra Libano e Israele.
Tel Aviv non può ignorare queste minacce a infrastrutture così rilevanti, memore degli attacchi di estremisti islamici al gasdotto egiziano passante dal Sinai e diretto oltre che a Israele, alla Giordania, Siria e Libano.
Per Israele, quindi, la minaccia all’approvvigionamento strategico diventa una questione di sicurezza nazionale e Cipro, sua partner in questo progetto, è anch’essa investita, non potendo trascurare, da parte sua, le intimidazioni di Ankara. Ecco che il gas del Mediterraneo orientale sta diventando un perno su cui poggiano molteplici attori con innumerevoli problematiche pregresse, estremamente sinistre e mai risolte. E la tensione fra Israele e Libano entra così anche nella sfera economica.
Se hezbollah minaccia Israele nel suo progetto più ambizioso, che ne farebbe una potenza regionale per la sua indipendenza energetica, inevitabile che l’intero quadro geostrategico mediorientale ne venga coinvolto e, volenti o nolenti, la stessa Cipro, con tutto quanto ad essa attiene dopo la crisi finanziaria, ne venga a sua volta trascinata.
Israele, infatti, ha considerato, da oltre un anno, l’opportunità di dispiegare intercettatori di missili sulle proprie piattaforme off-shore, proprio per il timore di attacchi, dal mare, da parte di hezbollah con missili anti-nave o con imbarcazioni cariche di esplosivi. Le notizie, inoltre, circolate ad inizio 2013, dell’acquisto, fra gli altri, da parte della Siria di missili anti-nave russi Yakhnot, oltre alla variegata gamma di missili terra-aria SA-15, SA-17, SA-22 e batterie Scud-D provenienti dalla Corea del Nord – e che sembrerebbe il più grande equipaggiamento militare dopo la guerra del Kippur - hanno allertato i servizi di sicurezza ebraici: non solo Israele vedrebbe minacciata la sua superiorità aerea sui cieli libanesi, ma il conflitto si potrebbe ampliare nelle acque siriane, in quelle libanesi e soprattutto in quelle antistanti il confine con Israele. E’ un rischio che vedrebbe la nazione ebraica spostare il suo fronte di conflitto e, quindi, di difesa armata anche sul suo mare.
Non è un caso che, al riguardo, la Marina israeliana abbia richiesto, e ottenuto dal suo governo (estate 2012) un forte investimento nel riarmarsi, predisponendo piani di difesa ad hoc, con la previsione di utilizzare droni Heron 1 (Shoval) per il pattugliamento, oltre a equipaggiamento radar installato appositamente sulle piattaforme e che abbia provveduto ad acquistare dalla Corea del Sud battelli a protezione delle coste e degli impianti off-shore per un valore di 400 milioni di dollari.
Ed è in questo contesto di minacce hezbollah e di forniture russe alla Siria – a cui si aggiungono i timori di detenzione da parte di Damasco di armi chimiche - che si inserisce la crisi finanziaria cipriota, il rischio di fallimento e possibili interventi “salvatori” da parte di Bruxelles ma anche e soprattutto di Mosca. Non è, infatti, poi così campata per aria una lettura di quella crisi che la vede “manovrata” da Bruxelles e Berlino in modo da tagliare fuori Mosca dal bacino del Mediterraneo orientale e soprattutto dalla sua posizione di potenza nei confronti di Damasco.
Quale paradiso fiscale, Cipro godeva di ingenti investimenti russi nelle sue banche, poi oggetto di prelievo forzoso da parte dell’Unione Europea. Non si è trattato, per Mosca, di un gran sacrificio, in quanto la “perdita” sarebbe pari allo 0,1% dell’intero settore bancario russo; l’eventualità di un fallimento, invece, potrebbe significare per Mosca un danno da 40 miliardi di dollari, ossia l’equivalente di prestiti concessi a società cipriote.
L’evenienza di un fallimento ha fatto intervenire Putin stesso con la proposta di un programma di bailout (finanziamento e ricapitalizzazione, attraverso nazionalizzazione e relativo salvataggio) del debito cipriota in cambio di diritti di trivellazione da parte della sua onnipresente e sempre più onnipotente Gazprom, salvando così i capitali dei suoi 50mila russi residenti sull’isola e i finanziamenti di numerose altre sue società presenti a Cipro. In pratica, il quasi fallimento dell’isola ha rischiato di far entrare la Russia ancora di più negli affari del Mediterraneo, ad un costo abbastanza ridotto, a rischio piuttosto controllato e soprattutto a un vantaggio decisamente cospicuo.
Vi è, poi, chi ha intravisto un ulteriore aspetto del “complotto” di Bruxelles e Berlino contro Mosca e della sua “alleata” mediorientale Damasco, ossia la possibilità di utilizzare quanto prelevato dai depositi, per lo più russi, nelle banche cipriote (per 5 miliardi di euro), per finanziare un decisivo intervento armato della Nato, con il benestare statunitense, contro la Siria di Bashir Assad. Una lettura estrema, non provata, di certo accattivante e forse anche esplicativa di una crisi come quella di un’isola, come Cipro, da poco meno di un milione di abitanti e dalla strategicità, almeno sino a qualche anno fa, a dir poco nulla.
Appunto, sino a qualche anno fa, da quando le trivellazioni delle Noble e soci israeliani hanno aperto nuove prospettive, per quell’isola, per Israele e per il Mediterraneo orientale, e hanno fatto capire a Bruxelles di quanto andava perdendo, non avendo mai adeguatamente considerato quel mare e i suoi Paesi se non come un “ventre molle”, da tollerare con i suoi innumerevoli problemi e la sua stravagante gente, e come la porta verso aree altamente a rischio, come il Nord Africa e il Medio Oriente.
Ecco che il cerchio si chiude: dalla crisi “finanziaria” di Cipro e i denari russi presenti nelle sue banche, il suo gas, i suoi accordi con Israele e tutto quanto connesso a quella nazione nello scenario mediorientale, le tensioni con la Turchia e la guerra in Siria, sembrano ora un tutt’uno, in cui l’Europa, per molti, appare solo più come un gigante economico dai piedi d’argilla, ma soprattutto un nano politico ed oscuro manovratore, che non esita a sacrificare un suo membro per rimediare alla sua ottusità e miopia strategica.
Quanto stia diventando importante il Mediterraneo, sembra ormai l’incubo di Bruxelles (e di Berlino) e se l’obiettivo è anche isolare la Russia, c’è da chiedersi, e sperare, quanto i vertici dell’Unione Europea siano consci delle ormai limitate riserve del Mare del Nord e della inevitabile dipendenza dal gas russo. I problemi nelle acque antistanti Cipro, Israele, Libano, Egitto e nel territorio e nel mare della Siria sono affari anche europei che necessitano di dialoghi e di negoziazione, sino a trovare una soluzione giusta ed equa. L’approccio del nemico, dell’antagonista a tutti i costi, non può più funzionare, soprattutto quando non si hanno più risorse finanziarie e si è costretti a prelevare “forzosamente” come ladri dai conti altrui. E’ un quadro dalle tinte estreme, ma che si sta delineando sempre più chiaramente e di cui ne sono consapevoli quegli osservatori esterni, quelle potenze come la Russia e la Cina che, sicuramente, dall’ incapacità e dalla debolezza europea sapranno argutamente trarre vantaggi.
1/4/2013
Foto: Melissa Wall/flickr.com
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