La notizia è di quelle che lasciano perplesso il lettore, soprattutto se tratta di politica e di sicurezza internazionali: la US Navy è praticamente fuoricombattimento, non disponendo né di equipaggiamento appropriato né della manutenzione necessaria per eseguire le sue missioni conformemente al CS21, ossia alla Cooperative Strategy for 21st Century Seapower, del 2007, che detta le linee guida del potere marittimo statunitense.
La percentuale varia secondo i diversi rapporti che hanno reso pubblica la notizia: stando alla testimonianza dei due Vice Adm. Burke e McCoy, di fronte all’ House Armed Services Committee del 12 luglio 2011, questo cedimento riguarderebbe il 22% dell’intera flotta (anche se si tratta di una stima, data la complessità nel redigere statistiche adeguate), mentre salirebbe al 40-50% secondo uno studio commissionato dal deputato Randy Forbes.
Sebbene il rapporto dei due ufficiali termini con la nota positiva circa la certezza della capacità della Marina statunitense ad adempiere ai suoi ruoli nazionali e a quelli lontano dai propri mari, le considerazioni e i commenti che emergono dallo studio di Forbes sono più preoccupanti e manifestano chiaramente i timori circa la capacità degli Stati Uniti di garantire la stessa homeland security e di proseguire nella politica di difesa dei propri interessi in scenari distanti come il mar Arabico, l’oceano Indiano, ma soprattutto il mar Cinese meridionale.
Il dibattito si inserisce, inoltre, in un momento fra i più delicati della storia economica e militare statunitense degli ultimi dieci anni. Il forte deficit federale (oltre i 14mila miliardi di dollari) e la mancata ripresa economica, con il rischio di default, a cui si cerca di ovviare fra ansiose rincorse su compromessi impossibili, stanno amplificando i fallimenti dell’amministrazione Obama che, secondo gli osservatori politici, non ha raggiunto alcuno degli obiettivi della sua campagna presidenziale: non vi è stata riforma del welfare e meno che mai del sistema finanziario, causa principale del tracollo culminato nel 2008, e la disoccupazione, al 9.2% (del giugno 2011) è di poco inferiore ai massimi livelli registrati nel novembre 2009-gennaio2010 e fra i più alti degli ultimi vent’anni.
L’accusa è di aver utilizzato più retorica e demagogia che misure concrete per risollevare le sorti della nazione, anche se pochi osservatori hanno rilevato come l’intera storia degli Stati Uniti sia, dal suo nascere, fortissimamente dipendente dal potere bancario – salvato in extremis nel 2008, proprio da Obama - e, negli ultimi decenni, ostaggio della sua espressione più bieca, ossia la finanza; quest’ultima, drogata dai suoi facili guadagni, ha fatto completamente perdere di vista le sorti del sistema industriale e produttivo di un Paese, gli Stati Uniti, che ha visto nascere il sistema fordista, a fondamento dello sviluppo dell’intero mondo capitalistico occidentale.
Quel che più conta, inoltre, per i suoi più acerrimi critici interni è che, nonostante l’amministrazione Obama non abbia mai rinunciato a sostenere finanziariamente le proprie forze armate - tanto da approvare un budget per il 2012 di 649 miliardi di dollari (18 in più del 2011) - la sua politica estera e le sue incertezze militari hanno fatto perdere agli Stati Uniti il ruolo di potenza guida nel mondo.
E nonostante lo sforzo finanziario profuso ampiamente, l’intero impianto militare statunitense sta perdendo colpi. Vi sono argomenti da far gioire i sostenitori di una svolta antimilitarista da parte della superpotenza americana, non vi fossero però le forti spinte lobbistiche per maggiori investimenti, dati i timori per la sorte del resto del mondo occidentale, e che inducono ad una certa cautela circa facili entusiasmi.
Difficilmente i sostenitori del ruolo di superpotenza militare degli Stati Uniti abdicheranno di fronte a difficoltà finanziarie; un richiamo all’unità e alla partecipazione degli alleati di fronte alle minacce per la sicurezza e la stabilità del mondo occidentale indurrà costoro a nuovi e urgenti interventi per non permettere che l’intero impianto di difesa, creato all’indomani della fine della guerra fredda, crolli a favore di forze ostili al sistema e alla cultura occidentali.
Infatti, per gli Stati Uniti, non si tratta di limitare il proprio impegno in scenari di guerra come Iraq, Afghanistan o Libia: esse rappresentano solo il 30% dell’onere finanziario del Pentagono.
E’ il complesso militare statunitense nel suo insieme, e che comprende tutti quegli uomini e quei mezzi dislocati nelle innumerevoli basi sparse nel mondo (oltre 700, e con una spesa complessiva annua di oltre 100 miliardi di dollari), che è messo a dura prova dalla crisi economica e dai tagli di bilancio: è lo stesso impianto a cui la politica di potenza statunitense, nel dopo guerra fredda, ha affidato il ruolo di tutore della sicurezza mondiale, nella lotta al terrorismo e, in ultimo, per la difesa dei diritti delle popolazioni civili, come si è voluto dimostrare con l’iniziale intervento statunitense nella guerra civile in Libia.
Che poi gli obiettivi finali della politica di proiezione di potenza statunitense siano altri, è ormai cosa nota e diffusa; solo i più faziosi sostenitori della supremazia di quella nazione non colgono i pericolosi limiti a cui è giunta negli anni, sobbarcandosi il ruolo di poliziotto del mondo, e illudendosi di poter disporre all’infinito di una ricchezza economica e finanziaria in grado di sostenerlo.
La rivelazione delle vere intenzioni di quelle lunghe e sanguinose guerre, una crisi finanziaria che ha risvegliato bruscamente dal sogno americano e che tarda a far decollare un sistema economico e produttivo profondamente in crisi, hanno smosso le acque del dibattito politico interno e internazionale.
Senza soldi e senza più un ruolo guida, gli Stati Uniti del presidente Obama hanno, infatti, registrato un’impresa incredibile: hanno di fatto messo d’accordo nel criticare questa amministrazione sia i tradizionali oppositori politici - dalle forze repubblicane più moderate a quelle più estreme conservatrici - sia quelle forze liberal che avevano posto grande fiducia nella svolta e nel cambiamento promessi per il dopo Bush.
Gli argomenti, poi, emersi con i rapporti sullo stato di salute della Marina statunitense hanno agitato ancor più le acque, facendo sorgere numerosi e inquietanti interrogativi circa la fattibilità di una politica militare inconcludente e soprattutto impreparata di fronte alle nuove sfide future.
Il pensiero va inevitabilmente alle notizie circa la politica marittima intrapresa dalla Cina. Non si tratta di possibile scontro bellico: non è intenzione di Pechino affrontare militarmente gli Stati Uniti.
E’, invece, la consapevolezza che la politica estera e quella militare del nuovo secolo convergano su un punto cruciale: il controllo delle rotte marittime, e questo riguarda le vecchie come le moderne potenze, economiche e militari che siano.
Il 95% del commercio mondiale degli Stati Uniti si muove su mari; è ormai chiara la loro politica di controllo delle rotte marittime passanti da siti strategici, da Panama, Suez, gli stretti di Bab el Mandeb e Hormuz, sino a quello di Malacca, le cui sorti hanno condizionato la storia militare mondiale marittima degli ultimi sessant’anni.
Tuttavia, mentre, nell’ultimo decennio, gli Stati Uniti erano intenti a lottare contro l’estremismo islamico, perdevano di vista il mantenimento di una struttura di difesa in grado di contrastare la pericolosa minaccia proveniente dalla Cina, con il suo piano di conquista e di controllo del Pacifico orientale e dell’oceano Indiano.
Per il 2011 la previsione di spesa (ufficiale) militare cinese è di 91.5 miliardi di dollari, ben distanti dai 14.6 miliardi del 2000, e di cui un terzo destinato alla sola flotta, secondo una politica di aumento degli investimenti nella spesa militare che gli osservatori internazionali considerano controcorrente rispetto ai tagli previsti dal resto del mondo.
Le ambizioni cinesi sui mari sono poco espresse pubblicamente, ma rese palesi concretamente attraverso due strategie: in prima istanza, la creazione di una flotta in grado di contrastare l’accesso a potenze straniere ai mari che la circondano, come gli Stati Uniti fecero lo scorso secolo nelle acque caraibiche. Si trattò, allora, di una politica di proiezione di potenza e di controllo delle acque, in grado di decidere le sorti del commercio marittimo che vi transitava a favore esclusivo della nazione americana e ben poco per quei Paesi lambiti dall’oceano Atlantico.
A tal fine, e come integrazione del quadro di potenziamento dei propri mezzi per la difesa delle sue acque, Pechino ha previsto una maggior dotazione di sottomarini da dislocare lungo i propri confini marittimi: abbandonati quelli di fabbricazione russa, lo sforzo cinese si è concentrato, fra gli altri, dai Song class ai più tecnologici Yuan, sebbene vi siano indicazioni circa il lancio, a breve, dei sottomarini a propulsione nucleare Shang class.
In secondo luogo, la dotazione di Pechino di portaerei con armamento stealth, in grado di garantire un allargamento del suo ombrello protettivo nelle acque del Pacifico e dell’oceano Indiano, è volta a tutelare i suoi traffici di materie prime e di greggio dal Medio Oriente e dall’Africa. Il controllo e la relativa sicurezza di quelle vie marittime e dello stretto di Malacca sono diventati strategici per lo sviluppo economico della Cina, in una responsabilità che Pechino non intende delegare ad altri. In questa logica si inseriscono le dispute con il Vietnam sulle isole Spratly e con il Giappone per le Senkaku, ricche di petrolio ma anche basi cruciali per la realizzazione della strategia del “filo di perle”.
Il compimento del sea power cinese si fonda, quindi, sulla realizzazione di un obiettivo strategico per eccellenza della dottrina del dominio dei mari, ossia la negazione all’accesso a quelle acque ad altre potenze. Secondo fonti statunitensi, Pechino si muoverebbe in questo senso anche attraverso la dotazione dei missili balistici DF-21D (Dong Feng), con un raggio d’azione dalle 1200 alle 1900 miglia, e definiti “Carrier killer”, in indubbia contrapposizione al potere marittimo statunitense con le sue portaerei.
Si tratta, in generale, di una politica di rafforzamento da parte della Cina del C4I sulle acque non solo antistanti alle sue coste, ma anche di quelle strategiche per le risorse naturali così come per il suo traffico commerciale, a cui si affiancano la conquista dello spazio e il posizionamento di sistemi satellitari per uso militare, in grado di fornire le indicazioni necessarie per l’utilizzo dei DF-21D.
A questa conquista, la Cina partecipa attraverso un rafforzamento dei suoi sistemi di cyberwar, avendo chiaramente individuato nel network di raccolta e diffusione delle informazioni militari, il tallone d’Achille del sistema militare statunitense. E questa preoccupazione è stata già più volte manifestata dal capo del Pentagono, Leon Panetta.
Di tutto il programma di riarmo marittimo da parte d Pechino, ciò che più assilla gli analisti politici e militari non riguarda solo ed esclusivamente la politica di difesa e di controllo delle sue acque, quanto la possibilità di proiezione di potenza che la Cina potrebbe attuare attraverso una maggiore fornitura di portaerei: per ora è provvista di una sola portaerei, anche se ne è prevista un’ulteriore, di produzione interna, entro il 2015, e altre 3 entro il 2020. Una dotazione finale di 5 portaerei nella sola regione del Pacifico e del mar Cinese meridionale.
Al momento, secondo i dati ufficiali, la Marina statunitense dispone di dieci portaerei in grado di gestire i suoi impegni internazionali globali, dagli Oceani al Mediterraneo: le precarie condizioni di salute di questa dotazione, a fronte di un maggiore e più sofisticato armamento cinese, potrebbero cambiare direttive e scopi strategici.
Gli elementi di discordia fra Washington e Pechino sono fra i più delicati: dalla decennale questione di Taiwan e delle due Coree sino alla politica commerciale e allo sviluppo economico e industriale della Cina - in chiara contrapposizione con quello giapponese ormai in profonda crisi - tutto sembra dipendere dal controllo dei mari, in un braccio di ferro non dichiarato fra le due potenze ma presente quotidianamente nei loro rapporti.
In questo contrasto è in gioco la credibilità della capacità statunitense di garantire la sicurezza a quei suoi partner nella regione asiatica.
In questo contrasto è in gioco la credibilità della capacità statunitense di garantire la sicurezza a quei suoi partner nella regione asiatica.
Secondo i sostenitori del ruolo di potenza degli Stati Uniti, una nazione che vanta un Pil di 14mila miliardi di dollari non può non disporre di una flotta, degna del suo glorioso passato e impreparata alle sfide future. Tuttavia, per costoro, le cifre redatte dai rapporti sullo stato di salute della Marina americana hanno rappresentato un brusco risveglio.
Inoltre, il balanced approach del presidente Obama ai tagli del budget federale sembra proprio voler colpire le spese militari: non si tratta solo dei 400miliardi di dollari espressi a suo tempo dal presidente, quanto della richiesta dei democratici di un taglio di 1000miliardi alla sola Difesa, al fine di ridurre il deficit e non rischiare il default. Inutile dire che i 100miliardi di tagli proposti per il 2012 rappresentino solo la punta dell’iceberg.
Già il ritiro della Nasa dalla competizione spaziale è stato un segnale di questo doloroso ripiegamento.
Chi rischia, ora, maggiormente è l’intero apparato produttivo bellico statunitense, quello uscito rafforzato dalle commesse e dai grandi introiti avuti con i fondi federali dopo l’11 settembre e che affronta, da un decennio, la guerra al terrorismo.
La maggiore, se non l’unica, grande industria americana rimasta rischia tagli e contenimenti così pesanti da mettere in ginocchio – se ancora ce ne fosse bisogno – l’economia del Paese. Non si tratta solo di ciò che il presidente Eisenhower definiva military-industrial complex , ma di quello che sono ormai diventate le forze armate statunitensi negli ultimi dieci anni, ossia quel military-services complex che poggia esclusivamente sui privati per la produzione di materiali bellici e per la fornitura di uomini e di servizi per la sicurezza, soprattutto nelle basi militari, interne e all’estero, e sui scenari di guerra.
Lo stesso grande organismo produttivo privato che aveva avuto grande slancio dal ruolo di poliziotto del mondo a garante della sicurezza e la democrazia dopo l’11 settembre rischia, quindi, di crollare sotto i colpi di tagli pesantissimi, indotti da una situazione economica ormai insostenibile anche per una grande potenza come gli Stati Uniti.
Ciò che più conta, poi, è che l’intero approccio dottrinale su cui poggia il ruolo degli Stati Uniti come garanti della democrazia e del mondo libero è messo a dura prova se non addirittura a rischio di rimozione dal loro credo politico, con inevitabili ripercussioni sull’intero arco di alleanze.
Proprio costoro, dall’Europa, al Giappone, al Medio Oriente e a quel che ancora rimane in Asia, come l’India, si vedranno obbligatoriamente costrette a rivedere i propri ruoli in ambito militare, soprattutto per ciò che riguarda la dotazione di una difesa adatta alle nuove minacce alla loro sicurezza, che possono provenire da forze rivoluzionarie e reazionare, vecchie e nuove, e da possibili alleanze con le organizzazioni criminali. Non bisogna, infatti, dimenticare che queste ultime hanno assunto connotazioni transnazionali e posseggono disponibilità economiche degne di vere e proprie finanze nazionali.
Per concludere, quindi, quel che ho cercato di evidenziare, seppur sinteticamente in questa breve analisi, è il grido di allarme che proviene da organismi ufficiali statunitensi circa le pessime condizioni di salute di un sistema di difesa che non è solo nazionale, ma che investe soggetti e interessi che si riconoscono nel mondo politico, economico e culturale di stampo statunitense.
Le drammatiche conseguenze dei problemi finanziari degli Stati Uniti, a cui sembra non esserci antidoto data l’avversione a comprendere la vera natura del male che li ha colpiti, ossia il potere esclusivo ed invasivo della finanza su tutto l’apparato economico ed industriale nazionale, non sono però una prerogativa esclusiva di quel Paese.
Che lo si voglia o no, la storia degli ultimi settant’anni ha legato i destini di quest’Europa a quelli dei nostri salvatori e alleati statunitensi; inevitabile che le ripercussioni di quanto è accaduto e accadrà in quel Paese dovranno indurci a rivedere il nostro impegno e le nostre responsabilità per garantirci, da soli, quella libertà e quella sicurezza assicurate, fino ad ora, da un apparato politico e militare oggi profondamente in crisi.
E da come sono state gestite la crisi e la guerra in Libia, senza più l’apporto statunitense, non c’è da rallegrarsi sulle pessime condizioni della US Navy. La garanzia di un mondo occidentale democratico, più sicuro e in grado di competere pacificamente e di affrontare adeguatamente le possibili minacce alla sua quotidianità, dipenderà, infatti, da quanto la vecchia Europa saprà superare i suoi miseri particolarismi e si ritroverà veramente unita, condividendo strategie e fondendo le forze per affrontarle congiuntamente, senza più il rassicurante ombrello della protezione militare americana.
E’ sicuramente uno dei passi più difficili da realizzare, soprattutto per la vecchia Europa. Tuttavia, non è più sufficiente deplorare la politica militare statunitense, il suo passato unilateralismo e lo sfacciato interventismo, e magari esultare per l’elezione di un nuovo presidente e premiarlo con un affrettato premio Nobel per la pace, per poi rendersi conto che le guerre del suo predecessore sono diventate le sue lunghe e penose guerre.
E’ necessario concentrarsi su un sistema di difesa collettivo europeo efficace, nel rispetto della cultura politica e di quei principi su cui si fonda l’Europa del XXI secolo. Solo in questo modo, le pene e i travagli del sistema economico e finanziario statunitense non andranno a gravare sui destini della sicurezza delle genti europee, a loro volta opprimenti sulle tasche dei sempre più poveri contribuenti d’oltreoceano.
Nella foto: sberleffo durante la cerimonia di consegna dei diplomi al US Naval Academy ad Annapolis, 2009 (foto Getty)
28/7/2011
Nella foto: sberleffo durante la cerimonia di consegna dei diplomi al US Naval Academy ad Annapolis, 2009 (foto Getty)
28/7/2011