Global Trends & Security Politica internazionale e Sicurezza, di Germana Tappero Merlo
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Le acque di al-Kufra, la guerra e le tribù, 22/4/2012

Le acque di al-Kufra, la guerra e le tribù, 22/4/2012 - Global Trends & Security

Una strana storia quella delle oasi di al-Kufrah. Un’ampia area verde e una città attiva in pieno deserto libico, arido e disabitato; un’oasi, quella di Kufra, che si immagina come un’area tranquilla e di ristoro dopo le fatiche di un viaggio fra le dune. Eppure ora è teatro di scontri perché  Kufra è strategica, forse il più strategico degli insediamenti di un paese che è ancora in guerra sebbene non considerata adeguatamente dai mass media, neppure ora che ciò che sta accadendo attorno ad essa dimostra la sua rilevanza per il futuro della Libia.

Centro nevralgico dei traffici commerciali dal Nord Africa verso il resto del continente; traffici leciti, ma anche di disperati, dato che  Kufra era considerato  il punto di incontro e di smistamento di tutti quegli africani che lasciavano quel continente  per cercare fortuna in Europa, affidandosi a loschi  criminali che li accompagnavano verso Nord, a  traghettare  il Mediterraneo su barconi di fortuna.

Kufra ha sempre giocato un ruolo strategico: centro del potere dei Senussi, da essa organizzarono, senza successo, l’opposizione alle invasioni coloniali nel Nord Africa, da quella francese a quella italiana. Fu il generale Graziani che riuscì ad espugnarla nel 1931 e Kufra risultò sempre più importante, come durante la seconda guerra mondiale, quando divenne base aerea per le forze italiane impegnate sul fronte nordafricano, alle quali era stato impedito, per ovvi motivi, il transito lungo Suez, e anche per questo Kufra fu teatro di una battaglia fra italiani e inglesi.

Kufra è ora, come oltre un mese fa,  oggetto di un conflitto fra milizie armate: dallo scontro tribale fra Tobu (o Tebu) e Zawaya - con 150 morti e 250 feriti negli ultimi combattimenti del febbraio scorso -  si è passati ora a battaglie fra Tobu e forze identificate come  regolari  libiche. Fonti fedeli al vecchio regime del Colonnello reclamano, invece, nei loro blog aggiornati quotidianamente, di tenere loro sotto controllo armato la città e l’area desertica attorno ad essa, in pratica tutta la Cirenaica meridionale. E gli scontri ci sono, ma fra costoro e le forze regolari che il governo provvisorio libico ha inviato per riprendersi il controllo delle oasi di al-Kufrah.

Nello sfondo di queste rivendicazioni, più o meno fondate e riscontrabili, vi è solo la certezza di scontri e di massacri ai danni della tribù dei Tobu, libici dalla pelle nera, che quell’oasi la vivono e la controllano da decenni. Un’etnia libica ma più africana che araba la cui presenza fra le milizie, nel corso della guerra, ha alimentato la leggenda di mercenari del Chad al soldo di Gheddafi, tralasciando il fatto che i Tobu sono stati perseguitati anch’essi per decenni dal regime di Tripoli, e sacrificati in guerre tribali utili a distrarre l’opinione pubblica in periodi di calo di popolarità del Colonnello.

Quel che sta succedendo a Kufra è una crudele deriva di una guerra che si pensava terminata con la conquista da parte dei ribelli delle città più note della costa mediterranea, come Bengasi, Misurata, Tripoli  perché lì risiedeva il regime, simbolo del potere politico che controllava il paese. Invece, proprio in quella remota regione desertica  si è andata concentrando col tempo anche una presenza di uomini armati, organizzati alla bell’e meglio in milizie, che spadroneggiano e fanno di quella regione un vasto mercato all’aria aperta di  uomini e di armi.

Ma la regione di  Kufra non è stata considerata, soprattutto dai media, come quel centro nevralgico che è in realtà; eppure, Kufra, come Hamadah, Sirte e Murzak, ossia tutte le aree  desertiche della Libia, sono  le più aride in superficie ma anche le più vitali per quel Paese, data la quantità di acque fossili  che sottostanno a quelle dune e da cui dipende l’approvvigionamento idrico per tutta la nazione.

Il bacino di Murzak, attraverso il North West Sahara Aquifer System (NWSAS) fornisce acqua alle regioni occidentali, mentre Kufra, Sirte e Mamadah, riforniscono tutto il territorio da Sirte a Trobuk, ossia dal centro all’estremo confine orientale libico, grazie alle ricchezze del bacino acquifero arenario nubiano di acqua fossile (il più ricco al mondo), quel Nubian Sandstone Aquifer System (NSAS) che  da anni disseta la Libia ma interessa anche l’ ente internazionale per l’energia atomica (IAEA).

L’arido deserto libico non è solo ricco di idrocarburi, ma di così tanta acqua da permettere a quella nazione di essere autosufficiente come produzione di derrate agricole e prosperare anche  grazie alla loro esportazione verso altri paesi della regione. Una sorta di San Joachin Valley californiana in pieno Sahara libico che, prima del conflitto, come produzione poteva competere con Israele e Egitto e sperare persino di superarli, nell’arco di 10-20 anni, come fornitore  per il mercato europeo. 

Scoperte per caso nel 1953, durante opere di perforazione alla ricerca di petrolio, le acque nubiane si sono rivelate la terza grande ricchezza del paese, dopo il gas e il greggio appunto.

Per chi tratta di questioni idriche, le falde acquifere nubiane sono note per la loro strategicità, sia per i 4 paesi che ne dispongono nel loro sottosuolo (oltre alla Libia, l’Egitto, il Sudan e il Chad, per un totale di 2.2 milioni di kmq e 373 mila km³ di acqua non rinnovabile), sia perché oggetto di studio, per la giurisprudenza internazionale, come esempio più complesso di acque transfrontaliere. La collaborazione fra quei Paesi è imperativa per il  buon sfruttamento di quelle risorse idriche sotterranee, destinate a non rinnovarsi e considerando  che i moderni conflitti per le acque originano proprio da questioni transfrontaliere.

Vi sono al mondo 273 acque condivise fra due o più nazioni (38 nella sola Africa) e queste ignorano, appunto, i confini politici; la loro cattiva gestione non porta solo a sprechi, ma anche a conflitti dalla risoluzione pressoché impossibile, oltre al fatto che, senza arrivare addirittura al conflitto, con pompaggi “disonesti”, una nazione può influenzare pesantemente l’approvvigionamento  e lo sviluppo economico di quella vicina.

Le acque nubiane libiche, inoltre, appartengono a quella categoria di risorse idriche più ambite, quelle sotterranee, perché meno contaminate da scarichi industriali o atmosferici; e di quantità d’acqua, nei bacini acquiferi sotterranei sparsi nel pianeta, ve n’è 100 volte in più dell'intero volume d’acqua dolce che scorre sulla superficie terrestre, lungo i fiumi e i torrenti di tutto il mondo.

Eppure anche di questa ricchezza non rinnovabile si sta abusando con eccessivi pompaggi in vaste aree, come nella Penisola Arabica, o viene estratta in malo modo, permettendo così infiltrazioni di acqua salata che contamina il sottosuolo e  rovina la qualità delle riserve idriche. 

 

E’ il caso dello Yemen che, negli anni ’70, adottando progetti e finanziamenti del Fondo monetario e della Banca mondiale, ha imposto ai propri agricoltori di abbandonare la raccolta dell’acqua piovana e di sfruttare le acque fossili di cui dispone il suo sottosuolo; un cambiamento così drastico ha permesso lo smantellamento di antichi sistemi di raccolta d’acqua, a cui non è seguita un’adeguata accuratezza nel  rifornirsi dal sottosuolo. Certamente è aumentata la produzione yemenita di derrate alimentari, ma in alcune zone, come nel sud del Paese, le acque si sono pressoché esaurite. Stare al passo con i  vecchi livelli  produttivi per affrontare una domanda in crescita, dato l’aumento demografico, oltre a fronteggiare crisi di siccità sopraggiunte con i cambiamenti climatici, hanno portato a tensioni  fra le differenti tribù yemenite dedite all’agricoltura e alla pastorizia proprio per l’accaparramento di acque sempre più scarse.

Di fronte a tali fallimenti nella gestione delle acque, causati anche da azzardati interventi esterni di organismi sovranazionali che hanno distrutto sistemi secolari di raccolta e di distribuzione delle acque  e non accompagnati da un’adeguata cultura al risparmio di una risorsa non rinnovabile, da alcuni anni molti Paesi africani e mediorientali hanno iniziato a considerare in un’altra ottica la loro emergenza idrica.

Le acque nubiane del Sahara sono diventate così importanti che l’implementazione del NSAS è considerato un obiettivo nazionale da quei Paesi che ne dispongono nel loro sottosuolo: sono considerate al pari di miniere di diamanti. Eppure, fra tutte e 4 le nazioni interessate, l’unica che è riuscita a goderne appieno dei vantaggi e a non sprecare quella ricchezza è stata, appunto, la Libia.

Si tratta dell’ impianto che Gheddafi definì  “l’ottava meraviglia del mondo”,  più comunemente  conosciuto come Great Man Made River (GMMR, iniziato nel 1983, 3 fasi su 5 ormai completate, attivi oltre 4000 km  con 1300 pozzi) che trasportava quotidianamente 6.5 milioni di m³  di acqua, appunto alle grandi città e ai porti del nord, soddisfacendo, gratuitamente,  il 70% del fabbisogno nazionale. Stando, però, alle forze fedeli a Gheddafi e che ora, pare, controllano gran parte del territorio attraversato da quella struttura, l’impianto, attualmente, non è in grado di operare.

La sua strategicità, infatti,  non poteva non interessare le forze Nato che, nel luglio del 2011, bombardarono prima l’acquedotto e poi l’insediamento industriale di Brega che forniva materiale per la costruzione e la riparazione della rete di trasporto di quelle acque del bacino nubiano: la giustificazione dei comandi Nato fu che si trattava di un deposito di  armi dell’esercito di Gheddafi e dal quale partivano missili contro le forze ribelli sostenuti dall'Occidente.

Tuttavia, il GMMR è l’infrastruttura critica civile più importante per la sopravvivenza della popolazione libica; conquistare Brega e controllare  la produzione di pezzi di ricambio di quella struttura, certamente danneggiata dai combattimenti, significava controllare il Paese. Inevitabile, come da manuale, che diventasse un obiettivo militare di primaria importanza anche per le forze Nato che in tal modo intendevano bloccare gli attacchi dei fedeli al Colonnello, ma anche piegare la loro resistenza nelle città da loro controllate e servite da quell’impianto. Questa almeno è la lettura militare.

Altre analisi, invece, affermano scopi differenti, sempre strategici  ma esclusivamente economici. L’attacco Nato a quella struttura sarebbe servito per spianare la strada a Gaz de France-Suez e Veolia, leader francesi nella gestione delle acque, così come alla multinazionale Kellogg Brown & Root per la ricostruzione dell’intera rete di pipeline, perché parallelamente all’acquedotto, viaggiano anche un gasdotto e un oleodotto.

Il GMMR è, quindi, una grande infrastruttura, costata 25 miliardi di dollari (1/10 del costo di un impianto di desalinizzazione con la stessa portata), costruita con manodopera per lo più straniera, e  finanziata totalmente con investimenti  libici, senza interventi esterni né del Fondo Monetario né della Banca mondiale, ma nemmeno della Cina. Un fatto, quindi, alquanto eccezionale in Africa.

E’, infatti, un’opera che riflette il desiderio di  acquisire conoscenza tecnologica e di svilupparsi, così come il desiderio di autonomia della Libia di Gheddafi, ossia di resistenza a qualsiasi intervento finanziario esterno in grado di influenzare scelte strategiche per la nazione.

Al NSAS non è solo legato il grande sistema di trasporto delle acque di Gheddafi, ma anche progetti collettivi, con gli altri 3 Paesi, in modo da affrontare le emergenze  idriche e alimentari di un’area, in superficie, fra le più aride del pianeta, con un  aumento demografico dai ritmi preoccupanti, con inevitabili rischi di eccesso di sfruttamento e  di inquinamento, a cui si associano anche  le conseguenze negative dei cambiamenti climatici. Insomma, una ricchezza che data di migliaia di anni, quasi misteriosa nelle sue origini e destinata a non rinnovarsi, come tutte le acque fossili, di cui ancora in parte dispongono altre zone aride, come la Penisola arabica, dall’Iraq ai paesi del Golfo Persico sino allo Yemen.

Chi controlla il NSAS controlla le economie, le relazioni internazionali e  i destini di molti Paesi, non solo nel Nord Africa, ma anche nella regione sahariana e centroafricana. E non è proprio cosa da poco, se si pensa a quanto sta accadendo dalla Libia, al Sudan e a numerose altre realtà di quella parte di continente.

Le acque nubiane rappresentano, quindi,  una ricchezza  dalla strategicità elevata per lo sviluppo del continente africano che non può non attirare l’attenzione di chi controlla la tecnologia del pompaggio e della canalizzazione delle acque. E’ naturale, quindi, associare quanto sta accadendo a Kufra con i grandi interessi economici legati al controllo della ricchezza idrica della Libia. Per alcuni osservatori, fu l’unico e vero obiettivo che portò la Francia a bombardare e iniziare, un anno fa, quella guerra che, però, ora non sta proprio volgendo verso la fine sperata da Parigi. 

Limitare tutta la vicenda della guerra in Libia a questo obiettivo francese è riduttivo,  fuorviante e fazioso. Sicuramente quella rivoluzione a cui è seguita una guerra per proteggere la popolazione civile libica, come descritto nella risoluzione 1973 delle Nazioni Unite, non è nata spontaneamente con l’obiettivo di portare democrazia in terra libica. Sono tante le letture dei fatti che hanno stravolto il Nord Africa e soprattutto la Libia, e con i pochi elementi a disposizione  si possono solo azzardare ipotesi e fare congetture che sarà la storia, con i suoi tempi e le sue testimonianze, a confermare o smentire.

Certamente – anche  se paradossalmente rispetto all’epoca di grandi flussi informativi come quella attuale -  con la latitanza dei mass media e l’impossibilità di accedere a fonti locali sicure, non si può far altro che azzardare letture di quegli avvenimenti. Però tacere e non cercare di approfondire quanto sta accadendo a Kufra, ad esempio, e con il massacro dell'etnia Tobu è un’ insolenza che  non può non cozzare con la retorica che ha accompagnato l’impegno bellico dell’Occidente a fianco di quelle che si volevano forze rivoluzionarie e liberatrici.

Nascondere, inoltre, quanto di buono vi fosse in quel Paese che aveva trovato una sua autonomia idrica e con essa aveva dato impulso alla propria agricoltura in una delle regioni più aride del pianeta,  proprio nei giorni in cui non si fa altro che parlare dei destini della Terra, del suo futuro idrico ed energetico, è per lo meno insolente e  ipocrita. Non meravigliamoci, poi, se letture complottiste prendono il sopravvento su qualsiasi altra spiegazione di eventi tristi come le guerre iniziate con la giusta causa della difesa di popolazioni civili inermi e che finiscono per trasformarsi o rivelarsi in mere gare d’appalto per la ricca e appetibile ricostruzione di un Paese che si voleva liberare dal suo tiranno.

 22/4/2012

Chi sono

Chi sono - Global Trends & Security

Analista di politica e sicurezza internazionale, opero attualmente presso enti privati in Israele, Giordania, Stati Uniti e Venezuela. Ho svolto attività di consulenza sul terrorismo per organismi governativi e privati in Libano, Siria, Iraq, Afghanistan, Somalia, Egitto, Sudan, Etiopia, Eritrea, Libia, Tunisia, Niger, Messico e Brasile.

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18 febbraio 2022. Uscita del mio volume "Dalla paura all'odio. Terrorismo, estremismo e cospirazionismo", Tangram Edizioni Scientifiche. Trento. " Il volume è il risultato di analisi e operatività sul campo che l’autrice ha condotto negli ultimi due anni circa fenomeni globali legati all’eversione e al terrorismo, sia di matrice islamista jihadista che dell’ultradestra violenta. Vengono analizzati soggetti e dottrine in un contesto di evoluzione delle relazioni internazionali e dei nuovi conflitti ibridi e identitari, in cui il terrorismo è tattica dominante. Sono inoltre delineati i processi, personali e collettivi, di radicalizzazione sia religiosa che politica, da cui derivano educazione e cultura alla violenza. Queste ultime acquisiscono un ampio pubblico attraverso la rete internet, anche nei suoi meandri più oscuri e tramite forme di comunicazione, qui analizzate, che trovano ampio utilizzo da parte delle nuove generazioni di nativi digitali. A ciò si sono aggiunti i toni aggressivi delle più recenti narrazioni cospirazioniste, originate sia da eventi interni a Stati democratici occidentali che da quelli emergenziali da pandemia. A vent’anni dalla paura del terrore proprio dell’11 settembre 2001, si sta procedendo velocemente, quindi, verso un livore generalizzato, a tratti vero e proprio odio, da cui una cultura di violenza politica dai legami transnazionali e che mira all’eversione, con i relativi rischi per la sicurezza nazionale."

  • 24/03/2023 01:15 pm
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