“Atmosphere attacks” è il termine che, in mancanza di uno migliore e più efficace, l’intelligence militare israeliana e con essa i suoi vertici politici utilizzano per descrivere il clima di tensione che si respira, al momento, nel Paese: questa volta Hamas non c’entra, o almeno è nello sfondo, in una Gaza che ancora cerca di ritornare alla normalità dopo la guerra dell’estate scorsa, e con il suo leader Khaled Mashaal in cerca di appoggi e soprattutto di finanziamenti, dall’ Iran (scontati) alla Turchia (probabili).
Il fronte caldo che preoccupa maggiormente ora Tel Aviv è quello a nord, con il vicino Libano, con ciò che comporta il complesso conflitto siriano e il ruolo di Hezbollah, oltre alle possibili infiltrazioni di elementi radicali jihadisti, da al-Nusra a Da’ish (ISIS), sia in Gaza e in Cisgiordania (controllata però dalle forze militari israeliane) che nello stesso territorio ebraico, con i relativi timori di un innalzamento della minaccia terroristica. Ma non solo, dato che lo Tsahal ha riposizionato le sue postazioni di Iron Dome verso quel confine.
L’attacco ad un convoglio hezbollah da parte di elicotteri israeliani del 18 gennaio scorso, nei pressi di Quneitra nel Golan siriano al confine fra quel Paese e Israele, in cui sono stati uccisi 12 miliziani, è il chiaro segnale dell’allerta di Israele per la sicurezza delle vicine alture del Golan. Si tratta dell’ultima azione militare di una lunga serie iniziata da tempo, ma degenerata dal gennaio 2014 e che ha visto un innalzamento degli scontri fra Hezbollah e IAF.
Nell’attacco è stato ucciso Jihad Mughniyeah, figlio ventenne di Imad, uno dei leggendari capi militari del gruppo libanese (ucciso a Damasco nel 2008 perché nelle liste nere statunitensi, in quanto considerato responsabile di azioni terroristiche contro obiettivi occidentali), ma anche Mohammad Issa, a capo dell’organizzazione delle operazioni degli hezbollah in Siria e Iraq: entrambi erano altresì responsabili, dall’autunno scorso, delle milizie hezbollah nel Golan siriano. L’altra vittima eccellente dell’attacco è stato Abu Ali Tabatabal, elemento chiave del movimento hezbollah nella guerra in Siria: un duro colpo, quindi, per il gruppo libanese filoiraniano che combatte da un paio di anni per difendere il regime di Assad, con inevitabili ripercussioni sull’andamento del conflitto siriano, ma soprattutto per la volontà, dichiarata apertamente dal suo Segretario Generale, Hassan Nasrallah, di ritorsioni (“calculated retaliations”) contro Israele.
Inoltre, fra i miliziani uccisi vi erano anche un alto ufficiale dell’IRCG iraniano, il generale Mohammad Ali Allahdadi, e la sua scorta, con tutto ciò che questo può comportare nei rapporti già estremamente tesi fra Iran e Israele. Già da giorni, inoltre, circolavano conferme (Debka) e smentite (Ministero esteri iraniano) del grave ferimento del gen. Qassem Suleimani delle Quds, in un attacco suicida perpetrato da Da’ish durante un vertice dei comandi militari delle milizie sciite irachene a Samarra (Iraq), alimentando ulteriormente la visione complottista espressa nella convinzione di alcuni osservatori che Da’ish sarebbe al servizio di Israele.
Il rincorrersi di voci e illazioni su queste azioni e le dichiarazioni di Nasrallah fanno comprendere il clima di tensione fra Israele, hezbollah e, inevitabilmente, anche l’ Iran, che ha già affermato con decisione, tramite il comandante dell’IRCG, Mohammad Ali Jafari, che “i sionisti dovranno aspettarsi una nostra risposta ai loro crimini”.
Il tutto sembra ormai avere le caratteristiche di un qualcosa che è più di una vera e propria proxy war fra hezbollah-Iran e Israele: e non mancano certamente le dichiarazioni ufficiali, tanto che lo scontro sembra avere un carattere chiaro, aperto, la cui pericolosità non è ancora ben compresa dalla maggioranza degli analisti politici e militari occidentali.
L’azione ebraica è stata, infatti, considerata da alcuni osservatori come “pazzia”, viste le crescenti capacità militari dei combattenti hezbollah e che potrebbe portare a una “ulteriore avventura” bellica decisamente costosa per Israele. I fantasmi del conflitto del 2006, insomma, sembrano nuovamente concretizzarsi, sebbene non nell’immediatezza di questi avvenimenti: sarebbe troppo azzardato per hezbollah esporsi su un ennesimo fronte bellico, soprattutto con Israele.
Che aspettarsi, quindi, dalle parole di Nasrallah e di quelle di vendetta dell’alto esponente dell’IRCG?
Non è un caso, infatti, che l’attacco sia avvenuto a pochi giorni da altre pesanti affermazioni dello stesso Nasrallah che, nel corso di una intervista il 15 gennaio, aveva definito i continui raids aerei di Israele in Siria (almeno 7 “ufficiali” dall’inizio del conflitto) come un’aggressione non solo ad Assad, ma ai suoi sostenitori ed alleati, per cui hezbollah e, quindi, Iran; con lo stesso tono stizzito Nasrallah confermava la capacità del suo gruppo di occupare la Galilea e di andare anche oltre, non facendo mistero di possedere gli strumenti per agire. Non si tratta solo dei missili iraniani Fateh-110, in loro possesso dal 2006, “ma altri sistemi d’arma ben più sofisticati e in grandi quantità”, affermando così, senza più le vecchie remore, di essere “ben più forti di quando hezbollah era solo un movimento di resistenza”. E’ la conferma di quanto già affermato da Sheikh Naim Qassem, secondo alto esponente hezbollah, secondo cui gli attuali sistemi missilistici in dotazione vanno oltre i Fajr e Raad, già ampiamente utilizzati nella guerra del 2006, affermando che “l’Iran ha consegnato tutto quanto necessario per un’azione missilistica, compreso l’addestramento”.
Insomma, sono i caratteri propri di una strategia di deterrenza messa in atto dall’ “asse di resistenza a Israele” guidato da Hezbollah, nella consapevolezza, tuttavia, della potenza del nemico ebraico ma anche di essere un qualcosa di più: la sensazione degli analisti è, infatti, proprio quella di trovarsi di fronte al movimento Hezbollah che non appare più semplicemente come il più forte alleato di Bashar Assad, quanto piuttosto un soggetto in grado di prendere decisioni politiche e militari anche per lo stesso regime e, quindi, di proteggerlo ad ogni costo, per garantirne la continuità. Per gli analisti, quindi, la partecipazione di hezbollah a quel conflitto ha anche il significato di permettere un ammassamento in Siria di un variegato arsenale da utilizzare contro Israele.
Ecco che, per l’intelligence militare ebraica, nella sostanza, non è mutata la natura della missione di hezbollah (eliminazione di Israele), quanto il suo più profondo contenuto strategico, con forte appoggio dell’Iran: in pratica, Teheran ha di fatto stabilito una “sostanziale presenza militare” in Siria, attraverso il sostegno alle forze di Assad, in Libano, per proteggerlo dalle minacce jihadiste di gruppi filo-Da’ish o qaedisti, e in Iraq, con la massiccia e strategica presenza dell’IRCG e le relative milizie sciite.
Si tratta di una unica, compatta minaccia al fronte settentrionale ebraico, che ha reso la sicurezza di Israele e le relative dottrine di contrasto valide sino a un paio di anni fa, ora completamente obsolete. E’ come se, stando a commenti molto comuni ormai, “l’ Iran fosse accovacciato lungo i confini ebraici”, con tutto ciò che comporta anche in termini di minaccia nucleare: nelle analisi dell’intelligence ebraica sono ormai consueti gli scenari di rischio di bombe sporche, fornite da Teheran a hezbollah, e lanciate contro la popolazione civile del nord di Israele.
In sostanza, Hezbollah si sarebbe così potenziato da rappresentare il nemico più complesso con cui Israele deve confrontarsi; una minaccia però che riguarda la stabilità futura del Medio Oriente ma non solo, vista l’influenza di costoro su altri soggetti e in altri territori.
Nella stessa intervista del 15 gennaio scorso Nasrallah parlava, infatti, di possibili soluzioni per il dopo-conflitto in Siria e sempre con l’obbligo di salvare Assad, magari in un territorio diviso con gli altri soggetti, da Da’ish, Jabhat al-Nusra e l’Esercito Siriano Libero.
Ciò conferma, però, i timori già espressi in varie occasioni proprio dagli analisti militari ebraici: ossia la scomparsa dell’attuale geografia della Siria e la creazione di una “piccola Siria” (area Daraa, Damasco, Homs, Aleppo sino alla costa) intesa come regno degli Assad, con il resto del territorio diviso in entità autonome, per lo più su base religiosa, anche radicale. In questa frammentazione del territorio siriano verrebbero altresì “riconquistate” le alture del Golan: almeno, questo sembra essere un obiettivo strategico già più volte ribadito dagli stessi vertici di Hezbollah. Le stesse alture potrebbero, quindi, diventare, secondo costoro, una realtà politica autonoma, su base religiosa, ovviamente sciita.
Secondo le stesse fonti israeliane, però, questo sarebbe anche il vero obiettivo di gruppi jihadisti vicini al Da’ish, che hanno già ampiamente dichiarato di voler prima liberare Damasco e poi riconquistare Gerusalemme, come si conviene per realizzare gli antichi confini del Califfato.
In pratica, il timore di Israele è che in Siria, e vista la situazione attuale, si dovrà scegliere fra un “asse radicale” tradizionale anche di resistenza a Israele con a capo Hezbollah e Iran, a fronte di un “Islam radicale” capeggiato da Da’ish e composto da una variegata compagine di movimenti jihadisti di stampo sunnita e di chiara derivazione della Fratellanza Musulmana, sostenuti da Qatar e Turchia. E’ immaginabile ciò che queste presenze, le loro altalenanti alleanze e le loro mire regionali possano comportare in futuro lungo i confini di Israele.
Le perplessità ebraiche, di conseguenza, non sono tanto relative al destino o meno del regime di Assad, ma ciò che potrebbero fare gli altri soggetti del territorio siriano, soprattutto del Golan, oltre alla loro pesante influenza sul vicino Libano. A ciò si aggiungerebbe l’inevitabile scontro fra frange “radicali”, sia sciite che sunnite, con relativo aumento dell’ insicurezza per i confini israeliani.
L’allarme concreto e più immediato per Israele è, tuttavia, relativo ad attacchi al suo territorio attraverso missili e razzi da parte di Hezbollah, a fianco delle tradizionali azioni terroristiche: in pratica, si intende quel fenomeno di “drizzle” di razzi che ha caratterizzato l’azione di Hamas nell’estate scorsa, che le stesse autorità di intelligence ebraiche hanno dichiarato di non poter prevenire, ma solo di essere in grado di ridurne l’efficacia.
Proprio tramite Teheran Nasrallah ha, inoltre, confermato che Hezbollah ha ripreso contatti con Hamas, dopo che questi si erano interrotti con lo scoppio della guerra in Siria: non è certo una novità, ufficializzata infatti dalla visita in Iran, a metà dicembre scorso, di Muhammad Nasr, Capo dell’Ufficio Politico di Hamas, a cui erano seguite dichiarazioni di ringraziamento per il supporto iraniano al proprio gruppo sia in armamento che in denaro; parimenti Nasr si rivolgeva al Qatar e alla Turchia “per il loro supporto alla causa palestinese”. Ma se per questi ultimi si è trattato più di parole e promesse, l’aiuto di Teheran si è di fatto concretizzato in denaro, armi ed addestramento militare.
L’avvicinamento di Hamas a Iran e Hezbollah è da considerarsi, infatti, come il primo grande effetto della fine della presidenza Morsi in Egitto e della Fratellanza Musulmana, dichiarata “organizzazione terroristica” dal nuovo governo di al-Sisi. Inevitabile che Hamas, emanazione di quell’organismo sunnita, cercasse altrove, anche presso gli sciiti, appoggi e finanziamenti per riorganizzare e ricostruire Gaza (per un costo approssimativo di circa 8 miliardi di dollari), soprattutto dopo il disastro anche economico e finanziario seguito all’azione militare ebraica dell’estate scorsa, costata ad Israele 2,5 miliardi di dollari per 41 giorni di conflitto.
Ciò che ora, quindi, alimenta ulteriori preoccupazioni in Israele è il riavvicinamento fra Hamas e Hezbollah anche per fronteggiare la minaccia di infiltrazioni di elementi pro-Da’ish in Gaza, in particolare dopo le ultime manifestazioni di sostegno in seguito ai fatti di Parigi. Un rischio per Israele, ma soprattutto per Hamas che non può certo permettersi di correre proprio sul suo territorio e che apre a innumerevoli scenari di alleanze politiche e di lotta armata.
“Atmosphere attacks”, quindi, più o meno imminenti, più o meno credibili ma certamente in grado di allertare i vertici e l’intelligence militare ebraica che, per prevenire, preferisce attaccare, e proprio là dove più vulnerabile, su quel Golan da anni occupato e rivendicato, e su cui sembra giocarsi l’unica vera guerra possibile fra due grandi potenze militari, come Israele, appunto, e il nemico di sempre, l’Iran.
20/1/2015
Germana Tappero Merlo©Copyright 2015 Global Trends & Security. All rights reserved.