Il legame terrorismo-droghe non è certo una novità: è la forma di finanziamento illecito più redditizia e utilizzata da anni da qualsivoglia sigla eversiva, come lo sono le rapine e i rapimenti, il traffico di armi, quello di esseri e, ultimamente, anche di organi umani. I rapporti personali e finanziari fra terroristi e trafficanti di droghe sono ormai così diffusi e capillari da aver generato quel fenomeno noto come narcoterrorismo che è testimonianza di strette relazioni fra elementi centroasiatici, mediorientali e centroafricani con esponenti dei cartelli della droga del Centro e Sud America. Si tratta di un giro di affari con cifre da capogiro, che obbligano ad una estenuante lotta, perenne e globale, per un contrasto che sembra non dare soluzioni definitive.
Tralasciando per un momento la più nota e dibattuta questione sul forte aumento della produzione di oppio afghano (il 90% dell’eroina mondiale arriva dai campi sotto tutela dei talebani che nel 2013 controllavano 209mila ettari solo di produzione locale)[1], e sul fatto che i cannabinoidi, la marijuana e l’ hashish provengano oggi per oltre il 50% da Paesi islamici[2], studi di enti e di agenzie di contrasto hanno evidenziato altri elementi che testimoniano lo stretto legame fra la forte instabilità politica nell’area mediorientale e nordafricana e la produzione, la lavorazione, l’uso e il traffico di droghe destinate, però, anche ai più vasti mercati dell’Europa e del continente americano.
Sebbene considerata dalle legge islamica haram, ossia peccaminosa e vietata, al pari di tabacco e alcol, la droga e tutto ciò che ci gira attorno come affare mondiale è sempre stata una forte attrattiva per il terrorismo di matrice islamista: gli stessi hezbollah, a metà degli anni ’80, avevano lanciato una fatwa sulla droga, definendola uno “strumento per uccidere ebrei e cristiani” e giustificare i lauti introiti provenienti dalla produzione e dal traffico di droghe dalle aree del Libano da essi controllate e smerciate nei Paesi “nemici”. Un’ulteriore arma contro gli infedeli, quindi, ora ripresa da altre sigle del terrorismo islamista, nella speranza che l’ampia diffusione di eroina e cannabis nel mondo non musulmano porti alla disgregazione sociale e favorisca l’eversione. Insomma, un altro strumento del jihad globale.
Al momento, più della metà dell’eroina venduta in Europa ha matrice jihadista, ossia gode della rete e della protezione dei rapporti fra elementi del terrorismo islamico e quelli del crimine organizzato delle mafie locali, in una connessione che garantisce introiti poi utilizzati per organizzare attentati, come è stato appurato per quelli di Madrid del 2004, allora utilizzati per acquistare gli esplosivi (in quell’occasione i proventi erano dello spaccio di hashish nella capitale spagnola).
L’allerta più recente riguarda ora i traffici illeciti del Da’ish: il vasto mercato nero di petrolio e dei reperti archeologici costituiscono le fonti di autofinanziamento degli uomini del Califfato più note e meno contrastabili, ma non rendono certamente quanto il commercio di droghe che passano dai loro territori dell’Iraq e della Siria verso la Turchia (in particolare, la cittadina di Gaziantep, considerata una jihadist highway per il contrabbando, flusso di rifugiati e combattenti da e verso la Siria) e verso la Grecia da cui, poi, via mare e via terra attraverso le rotte balcaniche, raggiungono il resto dell’Europa. E di fatto sebbene l’ efficiente macchina della propaganda del Califfo abbia divulgato filmati di distruzione di pire di hashish e di cannabis, il vero core business delle droghe del Da’ish sta altrove.
Già dal loro primo apparire sugli schermi di tutto il mondo, ci si era posti interrogativi circa la freddezza mostrata dai boia del Da’ish nelle loro spietate esecuzioni di prigionieri sgozzati o bruciati vivi: era solo un mistero per gli osservatori occidentali, meno per quelli mediorientali che ben conoscono la vasta diffusione delle anfetamine e metanfetamine, su cui primeggia il captagon, l’incubo della regione del Vicino Oriente per via del suo ampio uso.
Il captagon è, di fatto, il nome commerciale di un medicinale un tempo legale e utilizzato contro il disordine comportamentale, narcolessia e depressione, ora però contraffatto e alterato in laboratori clandestini con un insieme di droghe che lo rendono ben più potente dell’originale[3]; si tratta di una anfetamina di classe A[4], a base di fenetillina, una molecola che proviene dalla ibridazione di caffeina e metanfetamine, con effetti psicostimolanti, e prodotta, appunto, in laboratori clandestini. Almeno sino al 2013,il captagon era conosciuto soprattutto in Medio Oriente e nella Penisola Arabica, meno al di fuori di quei confini. Ora sembra avere una più ampia diffusione, soprattutto nel Nord Africa, con la Libia in guerra ora intesa come hub di consumo e di smercio di queste droghe.
Il captagon era già noto negli anni ’60, ma ora si è ulteriormente diffuso in Iraq e Siria ed è considerata l’arma segreta o “ pozione dell’orrore” dei jihadisti del Da’ish: permette, infatti, l’alterazione della realtà (secondo alcune testimonianze, “i carri armati sembravano uccelli in volo”), maggiore resistenza fisica anche in mancanza di sonno e, quindi, ideale per operazioni e combattimenti dai tempi lunghi o per azioni particolarmente audaci e crudeli. Non viene somministrata, però, solo ai combattenti del Califfo ma, pare, anche ai soldati regolari siriani e presso la stessa popolazione civile, in modo da sopportare la tensione di quella lunga guerra. Non vi sono dati certi, per le ovvie difficoltà a monitorare realtà così complesse: ciò che emerge dagli scenari come quello siriano e iracheno è dovuto per lo più a testimonianze giornalistiche e ai pochi documenti ufficiali disponibili.
Al captagon, che è il più diffuso, si affiancano anche eroina e lo Zolan, un ansiolitico e antidepressivo. Alcuni combattenti del Da’ish, catturati e rinchiusi nelle carceri curde, hanno confermato la somministrazione di questi medicinali, soprattutto ai più giovani riottosi a combattere ma costretti a farlo di fronte all’alternativa, sicura, di venire decapitati: ai più “ricettivi e reattivi” a quegli effetti sarebbe stato destinato il ruolo di kamikaze nei vari attentati avvenuti per mano del Da’ish in Iraq e Siria negli ultimi due anni.
A confermare tutto ciò, pillole di captagon sono state trovate da combattenti curdi nelle tasche di jihadisti del Califfato uccisi nel corso dell’assedio di Kobane; ma è stato individuato anche in Libia, tanto che la dipendenza da questo farmaco (accertata fra l’altro sul 30% dei giovani libici sottoposti alle visite mediche effettuate nel 2013 dai nostri Carabinieri) è considerata una vera e propria piaga per la nuova generazione di quel Paese.
Secondo le testimonianze di dimostranti delle manifestazioni delle primavere arabe, pillole di captagon provenienti da Dubai e Qatar, sarebbero state distribuite dai capi rivolta, per lo più referenti dei Fratelli Musulmani, al fine di superare la paura e sopportare la stanchezza dell’assedio delle piazze. Secondo altre fonti, si tratterebbe di pura invenzione, sebbene testimonianze accertate siano state numerose e di varia origine.
Questo farmaco, tuttavia, non serve solo per i combattenti del Califfo; data la facilità nella produzione e nel trasporto, le pillole di captagon vengono smerciate nella regione a tonnellate, con ingenti guadagni per le casse dei jihadisti.
Il captagon è poco costoso, facile da produrre dato che i materiali che lo compongono sono legali e accessibili, e ogni pillola costa dagli 8 dollari (nei Paesi produttori) ai 20 dollari (in quelli a largo consumo). Alcuni di questi laboratori, sino al 2012, erano concentrati per lo più nella valle della Beka’a. Con il deteriorarsi della situazione in Siria, tuttavia, gran parte della produzione si è spostata nei territori controllati da Da’ish, con un crollo della produzione libanese del 90%, a tutto favore delle finanze del Califfato. Dai dati disponibili circa il sequestro di macchinari sembra che questi siano di provenienza cinese e per la lavorazione di caramelle, “convertiti” appunto per produrre sino a 100mila pillole di captagon al giorno. Si può, quindi, immaginare il giro d’affari che ciò comporta.
Già prima del conflitto in Siria, l’uso di anfetamine, su cui da sempre primeggia appunto il captagon, era ampiamente diffuso nel Vicino Oriente, in cui l’Arabia Saudita è il primo consumatore (58% del consumo locale e 37% di quello mondiale); sino al 2004, la produzione di captagon e di altre anfetamine smerciate nella regione era anche di provenienza di Paesi dell’Europa orientale, come Polonia e Bulgaria. I loro prodotti raggiungevano il Medio Oriente e la Penisola Arabica attraverso la Turchia, la Siria e la Giordania, e anche il Libano, a sua volta produttore.
Con il deteriorarsi della situazione interna a molti di quei Paesi, vi è stata la svolta nella produzione e nello spaccio. A ciò certamente contribuiscono le lacune nei servizi di sicurezza e di contrasto ai traffici illeciti di molti Paesi, appunto l’Iraq ma anche l’Egitto stesso, senza contare che i lauti guadagni servono anche per sostenere la corruzione di pubblici ufficiali, più ben disposti in tal modo a ignorare ogni genere di traffico illecito, non solo di droghe e di armi ma anche, appunto, quello degli essere umani.
Nel solo 2013, 12,3 milioni di pillole di produzione irachena e siriana sono state sequestrate nei porti libanesi, 7 milioni in quelli turchi, tutte pronte in quel caso ad essere spedite nei Paesi del Golfo: la sola Arabia Saudita ha un consumo stimato, secondo fonti dell’antidroga libanese, di 55 milioni di pillole l’anno, che i suoi trafficanti in parte destinano all’esportazione verso altri Paesi della regione, dal Kuwait (ultimo sequestro, nel mese scorso, era di 1,1 milioni di pillole) allo Yemen.
Secondo alcuni esperti statunitensi dell’antidroga ciò che sta avvenendo in Medio Oriente e in gran parte del Nord Africa e di quella occidentale, in particolare dopo il 2011, ripropone quanto già avvenne per i cartelli della droga centro e sud americani negli ultimi decenni del secolo scorso, ossia grande instabilità politica interna a quei Paesi, forte sottosviluppo, alta disoccupazione giovanile ed elevata corruzione presso le istituzioni politiche e di sicurezza: tutti elementi ora presenti in Medio Oriente e Nord Africa tanto da permettere l’aumento vertiginoso di attività legate alle droghe, una loro ampia distribuzione per nulla controllabile e, considerando lo smembramento e la debolezza degli apparati di sicurezza interna a molte di quelle realtà, anche il loro propagarsi pressoché incontrastato nel resto dell’area mediterranea e africana.
Un copione simile a quello sudamericano, quindi, che si starebbe proponendo con l’avanzare del pericolo jihadista, a cui vengono ad aggiungersi le preoccupazioni circa i collegamenti, di cui vi sono testimonianze, fra costoro e i narcos centro e sud americani, con l’aggravante tuttavia del rischio di infiltrazioni terroristiche negli Stati Uniti, e relative conseguenze per la sicurezza nazionale americana.
Ciò che preoccupa maggiormente le autorità dell’anticrimine statunitensi, al momento, è dato dai legami accertati fra esponenti di spicco di quei cartelli della droga ed elementi jihadisti, soprattutto filo-Da’ish, così come fra questi ultimi e i componenti delle più violente gang malavitose di immigrati centro e sud americani: fra queste spicca la Mara Salvatrucha (MS-13), presente nelle grandi metropoli californiane, come Los Angeles ma anche in almeno un migliaio di centri abitati di vari Stati del sud statunitense. Queste gang erano già state contattate da elementi di al-Qaeda per far entrare clandestinamente propri affiliati, e per questo ampiamente foraggiate (dai 30 ai 50 mila dollari per ogni soggetto), a cui l’organizzazione delle MS-13 garantiva documenti falsi e copertura all’interno del territorio statunitense.
Proprio nell’aprile scorso, sarebbero state segnalate cellule attive di jihadisti nello Stato di Chihuahua, ossia nella regione messicana al confine con gli Stati Uniti, nell’area nota come Anapra, a ovest di Ciudad Juarez. E’ una zona controllata per lo più dal cartello di Juarez, che possiede un suo braccio armato, la Linea, in violento contrasto con un’altra banda, il Barrio Atzeca, nata fra gli ospiti delle carceri di El Paso e ora ampiamente attiva nel traffico di droga sudamericana passante per il Messico: visto il vasto controllo malavitoso dell’intera area, è impensabile che qualcosa di illecito accada senza il loro benestare e il loro sostegno. Inoltre, la stessa polizia di frontiera statunitense ha già segnalato un aumento di presenze di soggetti OTMS, other than Mexicans, fra i clandestini arrestati nel corso di operazioni di pattugliamento, in particolare di soggetti provenienti dallo Yemen e dall’Egitto.
Nell’agosto del 2014, lo stesso US Homeland Security Department aveva individuato, attraverso l’analisi di messaggi sui social network, il rischio di un attacco con autobombe sul suolo americano da parte di elementi del Da’ish provenienti dal Medio Oriente e giunti appunto in Messico e, da lì, aiutati ad entrare clandestinamente proprio dalle bande di narcotrafficanti locali e appartenenti alle MS-13. I legami, secondo fonti statunitensi, sarebbero ormai così estesi e prolungati nel tempo da aver creato simbiosi fra jihadisti e narcotrafficanti.
Proprio questi ultimi, infatti, starebbero utilizzando le stesse modalità operative dei combattenti del Califfato: pick-up neri armati, ampio uso del terrore presso la popolazione civile, addirittura look personale e propaganda in video sul web molto simili, ma soprattutto il ricorso a metodi violenti, come la decapitazione di ostaggi, fra agenti e poliziotti locali. I timori di infiltrazioni jihadiste in territorio statunitense non sarebbero, quindi, solo un argomento da campagna elettorale ad effetto come, nel 2012, quella dei due candidati repubblicani Rick Perry e Mitt Romney, quanto una realtà ben più concreta che non è ammissibile a quasi quindici anni dall’11 Settembre e dopo una lunga guerra al terrore da parte delle varie amministrazioni, da G.W. Bush ad Obama.
La stessa al Qaeda, sebbene a parole abbia sempre condannato l’uso di droghe e il suo commercio – e sempre tralasciando i suoi proficui rapporti con i talebani afgani - può vantare una lunga storia di contatti con i narcotrafficanti sudamericani (come il cartello messicano di Sinaloa), tanto da finanziare gruppi una volta molto estesi, quali AQIM, ora in gran parte fedeli al Da’ish (come il gruppo algerino Jund al-Khalifah, responsabile del sequestro e dell’uccisione del francese Hervé Gourdel). L’AQIM stessa, nel 2007, prendendo il controllo del Nord Africa, aveva messo mano sul traffico di droghe che dal Sud America giungevano in Guinea Bissau e, attraverso le vie delle carovane, si spostavano in Mali e in Nigeria, considerati gli hub del loro smercio, per poi diffondersi nell’intera area subsahariana. Già allora, ma in in particolare dopo il 2011 e con la fine del regime di Gheddafi, i qaedisti garantivano la sicurezza armata a quei transiti facendosi pagare lautamente, per poi acquistare armi, veicoli, esplosivi di ogni genere sino a missili terra-aria.
E’ inevitabile che contatti personali e network siano solo passati da una sigla all’altra, da AQIM a gruppi filo-Da’ish, segnando un aumento vertiginoso del narcoterrorismo, come segnalato da agenzie di contrasto internazionali: ciò è dovuto non solo alla grave instabilità di molti Paesi del Nord Africa in cui quegli elementi operano e prosperano, ma soprattutto al forte aumento delle presenze di combattenti jihadisti provenienti dal conflitto siriano-iracheno ora presenti sul suolo libico (circa 3 mila elementi), così come di quelli rifugiati sulle montagne tunisine e su quelle del Sinai.
Non da meno, divisioni specifiche di Hezbollah dedite al narcotraffico (la cocaina, in particolare) e ad attività illecite alternative come il riciclaggio di denaro, sequestri, estorsioni e contrabbando, completano il quadro dei rapporti illeciti fra esponenti dell’eversione del Vicino Oriente e dell’Africa occidentale con quelli del continente sudamericano. Di 51 gruppi terroristici, si ha notizie certe di 20 gruppi che godono di collegamenti con narcos sia messicani che colombiani; e come accennato più sopra, il forte giro di affari finisce per alimentare l’altra grave piaga, ossia la corruzione di autorità politiche e di polizia che è il maggior impedimento a qualsiasi processo di ricostruzione civile e democratico di vaste realtà, dall’Iraq alla Libia e al Mali, per citare le più note ed urgenti.
Di guerra e afflato jihadista, tuttavia, sembra esserci ben poco: ciò che attrae sono i lauti guadagni da quei traffici illeciti, che si sommano ad altri, come quello dei clandestini sui barconi nel Mediterraneo. Il jihad è solo il pretesto per sfruttare tutto ciò nell’anarchia che si è venuta a creare nell’intero arco di Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, dal Nord Africa al Vicino Oriente.
A sentire le testimonianze, a leggere i rapporti specifici, o anche solo a vedere quanto accade nelle acque del Mediterraneo, è chiaro che il progetto di esportare la democrazia sia fallito e abbia lasciato ampio spazio ad una anarchia che non sembra conoscere limiti, né geografici, né umani e meno che mai vincoli morali. Quanto siano responsabili le anfetamine e le pillole di captagon per quelle violenze non si ha ancora una chiara percezione, quanto invece è evidente la smania di potere e di controllo che, a sua volta, permette il rapido arricchimento e che sembra accumunare terroristi e malavitosi ma anche, con la relativa corruzione che da questi proviene, gran parte dei responsabili istituzionali di molti Paesi, dal Vicino Oriente al continente africano.
Difficile contrastare tutto ciò: è una lotta alla povertà, all’ignoranza, al malgoverno che sembrano dilagare contemporaneamente all’instabilità politica e al sottosviluppo economico di molte di quelle regioni, in cui i lauti profitti dei traffici illeciti si pongono altresì al servizio dei progetti e delle ambizioni di divisione e di violento settarismo delle potenze regionali del Vicino Oriente. Finché non si avrà chiara consapevolezza di questa battaglia ci sarà sempre più spazio per ogni genere di traffici illeciti, di cui quello delle droghe sintetiche, che in quei Paesi vengono prodotte, consumate ma anche smerciate verso altre nazioni, risulterà essere pericoloso per la coesione sociale e la stabilità di molte di quelle realtà, non da ultimo, però, anche di quelle degli stessi Stati europei, dato che il fine irrinunciabile e ampiamente riproposto dagli uomini del Da’ish è proprio quello di “uccidere gli infedeli” per la restaurazione del Califfato e per tutti gli altri schizofrenici obiettivi del suo jihad.
[1] Secondo l’ultimo rapporto UNDOC, World Drug Rreport, June 2014, nel 2012 erano 154mila ettari per una stima di rendita di 3 miliardi di dollari annui, ma con un potenziale mondiale di 50 miliardi di dollari annui.
[2] Anche proveniente dallo stesso Afghanistan, in cui è stato registrato un aumento della produzione dato che, a certe condizioni soprattutto di distribuzione, queste coltivazioni garantiscono un guadagno netto maggiore rispetto all’oppio.
[3] È un composto di anfetamine, metanfetamine, efedrine, metronidazolo, caffeina, teofillina, clorfenamina, procaina, trimetoprim clorochina e chinino.
[4] Class –A narcotic, schedule I- high potential for abuse, questa è la definizione ufficiale DEA.
8/5/2015
Germana Tappero Merlo©Copyright 2015 Global Trends & Security. All rights reserved.