Mentre il Segretario di Stato Hillary Clinton andava esaltando internet come “ nuovo pilastro della politica estera” americana, uno dei suoi più famosi fruitori, Julian Assange compariva davanti ad un tribunale inglese, incaricato di decidere per una sua estradizione in Svezia per difendersi dall’ imputazione di reati sessuali, con il rischio, tuttavia, di venire da lì estradato negli Stati Uniti per un’accusa ben più grave, ossia spionaggio e attentato alla sicurezza di quella nazione. In effetti, l’affare wikileaks ha evidenziato la doppia anima dell’amministrazione Obama di fronte all’informazione e, in particolare, internet.
Certamente, l’esaltazione della signora Clinton era dovuta al ruolo determinante avuto dalla comunicazione interpersonale via internet, dai blogger e dai siti occidentali nel corso delle recenti rivolte in Nord Africa e soprattutto per la destituzione di Mubarack. Uno strumento come internet – manifestazione massima di libertà, espressione così profonda dello spirito americano - ideato, progettato, ampiamente utilizzato e pressoché tutto di brevetto statunitense, ha di fatto permesso che venissero superate censure alla stampa e alle libertà individuali proprie di certi regimi.
Non a caso, al primo manifestarsi dei disordini era pressoché impossibile connettersi ai siti egiziani e di altri paesi della regione nordafricana, in quanto il governo centrale aveva imposto un blackout nazionale e internazionale ai collegamenti ad internet.
Quasi contemporaneamente alle manifestazioni egiziane, tuttavia, al Senato statunitense veniva riproposta la legge kill-switch, ossia quel provvedimento che prevede la possibilità per il presidente americano di imporre il black out di internet di fronte al rischio di attacchi informatici e a difesa, quindi, della sicurezza nazionale. Una proposta che vede d’accordo sia repubblicani che democratici e più volte rilanciata dall’amministrazione Obama e che ha allertato i cibernauti di tutto il mondo.
Di certo, nella proposta americana sono in gioco elementi cruciali che vanno oltre il rischio dell’invio di email e di contatti nei social network: se si tratta di sicurezza nazionale, e per i rischi che si possono ben immaginare di fronte a questo tipo di aggressioni, una nazione come gli Stati Uniti, già duramente colpita da due attacchi a sorpresa, sebbene dalle caratteristiche completamente differenti, come Pearl Harbor e 11 settembre, deve procedere a cautelarsi. E’ logico ed auspicabile.
Tuttavia, c’è qualcosa in tutta la faccenda wikileaks e reazioni statunitensi, kill-switch bill, rivolte egiziane e dichiarazioni ufficiali da parte di Washington, che suona stonato. La posta in gioco, infatti, ruota intorno a concetti come democrazia, libertà, diritti civili, segretezza e sicurezza, in un misto che spiazza chiunque si azzardi ad affrontare l’argomento per il solo rischio di banalizzare l’intera questione.
Può, forse, venirci incontro la storia. Molti osservatori hanno, infatti, paragonato le rivelazioni di wikileaks sui rapporti segreti fra Stati Uniti e il resto del mondo, dimostrandone l’aspetto impudente, con le rivelazioni sui retroscena governativi americani nella guerra in Vietnam, note come Pentagon Papers.
In pratica, si trattava di 7000 pagine di documenti top secret, trovati e consegnati al New York Times e ad altri 18 quotidiani, e pubblicati dalla testata newyorkese nel 1971, circa i rapporti tra Stati Uniti e Vietnam dal 1945 al 1967: i responsabili di queste rivelazioni erano un ex militare, Daniel Ellsberg, allora ricercatore presso il rinomato think tank conservatore, Rand, e un collega Anthony Russo che, utilizzando materiale del Dipartimento della Difesa messo a disposizione per un’ indagine segreta voluta dall’allora Segretario Robert McNamara, mise in luce sanguinosi misfatti da parte dei consiglieri americani in Vietnam, prima ancora del coinvolgimento statunitense nel conflitto.
Ciò che spinse Ellsberg a divulgare quei documenti era la convinzione che quella guerra fosse sbagliata e che fosse giunto il momento di porvi fine a causa della “condotta incostituzionale di una serie di presidenti, la violazione del loro giuramento e la violazione del giuramento di tutti i loro subordinati”.
Con la loro pubblicazione emersero, quindi, aspetti imbarazzanti delle manovre segrete fatte in quegli anni, e nel corso di ben quattro amministrazioni – da Truman a Johnson - che favorirono l’escalation militare in Indocina; inoltre, svelarono anche losche macchinazioni in vista delle elezioni presidenziali del 1968 e le menzogne di quei governanti perpetrate per anni nel corso di quel conflitto, con imbarazzanti verità celate all’opinione pubblica.
Non è un caso, che proprio Ellsberg sia ora uno strenuo sostenitore di Assange: nell’azzardo del fondatore di wikileaks Ellsberg rivede quel suo coraggio ad intraprendere azioni che lo portarono, comunque, di fronte ad un tribunale con l’accusa di spionaggio, a cui si sottrasse per cavilli legali. In pratica, ciò che accomuna i due avvenimenti e i loro protagonisti è la condivisione di quell’obbligo di trasparenza dell’azione dei governanti e di libera circolazione delle informazioni, anche se riservate o addirittura top secret, che può portare, però, all’accusa di spionaggio.
Le similitudini fra i due avvenimenti, tuttavia, finiscono qui.
Al di là della chiara differenza di contenuti fra i due fatti, i Pentagon Papers, proprio perché espressione di un’era remota, ruotavano attorno a persone fisiche, per ottenere e divulgare informazioni, e che utilizzavano strumenti più che materiali, come documenti cartacei. In pratica, vi erano tutti i presupposti per definire le fonti d’informazione, i soggetti coinvolti, le loro responsabilità concrete e le relative implicazioni.
E’ chiaro, per chi conosce la natura virtuale e fittizia di internet, quanto wikileaks possa, invece, nascondere insidie che si rifanno proprio alla fonte delle sue rivelazioni e, di conseguenza, all’attendibilità delle stesse. Non basta immaginare l’azione singola di un abile smanettone come il soldato Bradley Manning come unico responsabile dei guai della diplomazia americana, tra l’altro subito scaricato dall’organizzazione di Assange che afferma di aver ricevuto anonimamente i file all’origine di tutta la vicenda. Di certo, quand’anche questo bravo soldato-hacker fosse stato in grado di accedere ad informazioni così delicate, c’è da chiedersi quanto siano accurati i suoi superiori a scegliere i collaboratori per compiti così delicati e complessi.
Non è un caso, infatti, che proprio l’ Ellsberg dei Pentagon Papers, in una conferenza per sostenere Assange e di fronte ai dirigenti di Google, Facebook e Twitter, abbia richiamato costoro ad un ruolo di responsabilità nel gestire l’enorme massa di dati personali raccolti dai loro motori di ricerca; in particolare, Ellsberg li esortava a respingere l’ingerenza delle autorità governative che potrebbero utilizzare quelle informazioni violando, senza timore di venir scoperti, la privacy dei cittadini sfruttando dati anche sensibili.
Di fronte a cotanta ingenuità, si può giustificare Ellsberg solo perché animato da un forte idealismo e da un sincero rispetto per la democrazia, fattori che cozzano violentemente quando è in ballo il mantenimento di una leadership politica ed economica mondiale.
Proprio i grandi motori di ricerca dispongono, infatti, di quella tecnologia, tutta americana, in grado di veicolare e di far accedere alle informazioni in rete, che si rifanno agli hub e alla cloud computing: in pratica, il primo si tratta di un dispositivo di rete che funge da nodo di smistamento di una rete di comunicazione dati – di cui l’applicazione ethernet è l’esempio più conosciuto, sebbene in dimensioni decisamente ridotte – mentre il secondo, molto sinteticamente, è quello spazio in cui vanno a confluire, appunto, tutti i dati immessi in rete dai social network, attività commerciali, finanziarie e così via. Un grande magazzino di stoccaggio delle informazioni che transitano in rete.
E’ la stessa tecnologia tutta americana utilizzata, secondo fonti giornalistiche statunitensi, dall’Egitto stesso per il black out dei primi giorni delle rivolte. Ecco perché stonano le affermazioni del Segretario di Stato Clinton, quando parla del web come la “pubblica piazza del XXI secolo” “dove valgono gli stessi diritti universali di Times Square o Piazza Tahrir”. Parole più che condivisibili ma che peccano di un’incoerenza propria di una retorica che finisce per tracciare un solco sempre più profondo fra diritti universali, come la libertà di espressione e salvaguardia della democrazia, e la politica estera americana dettata da ambizioni di leadership politica ed economica.
E’ più che condivisibile lo sforzo, anche finanziario (circa 50 milioni di dollari in poco più di due anni) fatto dall’amministrazione Obama per “sviluppare tecniche di comunicazione che consentano agli attivisti della libertà digitale di sviare attacchi e controlli”; in pratica, un investimento diretto contro quella censura e quelle contromisure tecnologiche adottate da quelle nazioni come Birmania, Iran, Cuba e Cina per contenere l’uso del web da parte dei loro cittadini e per limitare infiltrazioni esterne non gradite.
Come pure sono condivisibili gli attacchi dell’amministrazione statunitense a wikileaks e a quelle rivelazioni che metterebbero a rischio la vita “di numerosi attivisti dei diritti umani svelandone gli incontri con i (nostri) diplomatici”.
Tuttavia, con l’affare wikileaks è in gioco proprio la libertà del web e la coerenza fra retorica pubblica e fatti concreti dell’amministrazione statunitense. Sarà interessante continuare a monitorare quanto gli Stati Uniti riusciranno nel delicato compito di far coniugare libertà del web-strumento di politica estera e un provvedimento come kill-switch, la libertà delle piazze in rivolta, in qualsivoglia area del mondo, anche gli Stati Uniti, con la supremazia tecnologia americana che controlla e domina i motori di ricerca, gli hubs e la cloud computing.
E’ un aspetto di quel dominio degli spazi su cui si giocano le carte della supremazia mondiale fra potenze politiche, economiche, ma soprattutto tecnologiche; la gestione e il controllo di aree di stoccaggio delle informazioni, unito alla supremazia nei satelliti e gps, faranno in fatti la differenza nella gestione della politica estera mondiale dei prossimi decenni.
Dalla retorica del Segretario di Stato durante l’incontro alla George Washington University di New York ci si aspetta un ulteriore passo in avanti, o meglio, un passo indietro che ponga un limite alla diffusione di tecnologia statunitense che permette a regimi di controllare, tracciare e colpire gli utilizzatori di internet e dei cellulari perché dissidenti. Un obiettivo pressoché impossibile data la natura privatistica del settore, in cui interessi finanziari esorbitanti vanno ad indebolire qualsiasi velleità di controllo statale, soprattutto in un ambiente economico come quello statunitense.
E’, tuttavia, un invito che ci preme fare a favore della trasparenza nelle azioni proprie della politica estera americana; la stessa trasparenza che viene imposta da Washington a un Assange colpevole di spionaggio contro gli Stati Uniti.
E’ anche la nostra consapevolezza di essere caduti, pure noi, nella trappola dell’ingenuità e dell’idealismo di un Ellsberg, quando abbiamo iniziato a scrivere su questa materia e abbiamo preteso di argomentare su concetti forti e indiscutibili come democrazia, libertà e diritti civili, in un mondo in cui proprio la democrazia è fortemente in crisi e “muri virtuali stanno spuntando al posto di quei muri visibili”, che speravamo di aver abbattuto oltre venti anni fa.
18/2/2011