L’opinione condivisa da studiosi e analisti di relazioni internazionali è che ciò che accomuna Tunisi e il Cairo è quel desiderio di scrollarsi di dosso decenni di regimi all’apparenza democratici, come possono esserlo, comunque, i regimi. Lo “scrollarsi di dosso”, in arabo nun fa dad, aveva dato origine, alla parola intifada, sebbene con protagonisti, obiettivi e ripercussioni regionali del tutto differenti.
Ciò che sta accadendo in Nord Africa, tuttavia, non è solo una questione interna a quei singoli Stati, a questo desiderio di liberazione e non è solo “l’effetto domino”, tanto evocato dai mass media, che è venuto ad innescarsi in seguito ai fatti di Tunisi. Dalla crisi di Suez alle rivolte di Algeri, sino ai giorni nostri, nulla di ciò che accade in quell’area, anche se circoscritto ad un singolo paese, ha una valenza solo ed esclusivamente interna o regionale.
Quelle rivolte assumono un'importanza internazionale e non solo per il tam tam che si è venuto a creare in internet e neppure per quelle ragioni che fanno di realtà contrastate, come quella libanese, una crisi regionale-internazionale, perché coinvolge i delicatissimi rapporti fra potenze come Israele, Siria, Iran e movimenti estremisti come Hezbollah.
Si tratta di un fenomeno decisamente internazionale, ben più preoccupante di una crisi regionale, che va ad agganciare situazioni già fortemente destabilizzate anche se non sempre riportate dai mass media. Se si osserva una carta delle crisi o guerre già in atto, il Nord Africa, come l’Africa Subsahariana, sino al Sudan e Somalia, rappresentano un unico grande bacino pronto ad esplodere, con protagonisti e motivi del tutto differenti e con un unico elemento in comune: la difficoltà di una mediazione internazionale in grado di circoscrivere e diminuirne la portata regionale. E tutto ciò non è esclusivo del continente africano: lo Yemen che si affaccia sullo strategico Golfo di Aden, all’imbocco del Canale di Suez, sta subendo da anni i contraccolpi di un terrorismo interno fortemente destabilizzante. E lo Yemen aggancia quell’Africa alla penisola arabica.
L’effetto domino descritto per le crisi tunisina ed egiziana rischia, poi, di coinvolgere altre realtà, in primis mediorientali, che dai vecchi conflitti arabo-israeliani, al terrorismo palestinese, passando dalla guerra Iraq-Iraq, sino a quella più recente irachena, hanno dimostrato chiaramente la valenza internazionale di quanto accade nella regione. Petrolio, Territori contesi, terrorismo, radicalismo islamico, nucleare e quant’altro ha caratterizzato la storia politica ed economica della regione hanno sempre avuto valenza internazionale e non solo perché rispondevano alla logica del confronto fra Stati Uniti e Unione Sovietica durante la Guerra fredda - come hanno poi dimostrato i conflitti che sono seguiti ed esplosi, guarda caso in maniera ancora più violenta, proprio alla fine di quel confronto - ma perché quell’area risulta essere il banco di prova della vera influenza delle potenze mondiali per i motivi più svariati, dal controllo dell’estrazione del petrolio o di quello dei traffici marittimi passanti per Suez, o per il contenimento di realtà destabilizzanti, o per terrorismo o perché minaccia per la nazione ebraica, e ora perché, comunque, zona cuscinetto fra Africa ed Estremo Oriente.
Il Medio Oriente ha trascinato, in pratica, il Nord Africa e, aggiungiamo noi senza timore di essere smentiti, quell’Africa che va dalla regione sub sahariana sino alla Somalia, nel grande gioco di potenze che si contendono un ruolo di controllo e dominio di aree ricche tanto di materie prime e metalli rari o preziosi, quanto di forti contraddizioni interne, in cui disoccupazione, alto tasso di natalità, mancate politiche di sviluppo e corruzione del sistema politico sono elementi dominanti.
Se poi all’effetto domino di queste rivolte interne nordafricane si aggiunge il collante dell’unità araba, ecco che il quadro si completa e dove aveva persino fallito, ultimo fra quelli tentati nel secolo scorso da vari leader della regione, il richiamo all’unità per il jihad, appare, ora, una concordia che si spera sia veramente tale almeno nell’obiettivo di portare a processi di democratizzazione nell’ area nordafricana come pure in quella mediorientale. Permangono forti dubbi, a nostro avviso, che questo processo si inneschi nell’unità del mondo arabo, dove forti elementi di divisione prevalgono con violenza su quelli di intesa e solidarietà.
Insomma, non illudiamoci che quelle rivolte rimangano circoscritte al paese, all’area o alla regione e che, per quanto cruente e condivisibili negli obiettivi ispiratori e finali, possano ottenere il sostegno interno e quello internazionale disinteressato. E’ necessario prendere coscienza che se verrà a scatenarsi l’effetto domino non è perché è il naturale risultato di quel processo di globalizzazione che tutto ingloba e livella sullo stesso piano.
La globalizzazione è una scusa che fa comodo a un mondo che si ritrova in un asettico e ordinato villaggio svizzero come Davos e che non ha altra spiegazione al rincaro dei beni di prima necessità che quell’ “effetto domino sulle soft comodities” (beni come caffè e zucchero) come risultato dell’aumento del prezzo delle materie prime, di conseguenza a loro volta responsabili di inflazione e di una crescita dell’Occidente che non decolla, non curandosi di porsi interrogativi su come l’ estrema finanziarizzazione del sistema capitalistico – questo sì causa dell’aumento dei prezzi anche dei beni alimentari perché risultato delle speculazioni sui loro derivati - ne abbia danneggiato profondamente il suo impianto produttivo tanto da doversi reinventare su nuovi parametri industriali e salariali.
La globalizzazione è una scusa che fa comodo a un mondo che si ritrova in un asettico e ordinato villaggio svizzero come Davos e che non ha altra spiegazione al rincaro dei beni di prima necessità che quell’ “effetto domino sulle soft comodities” (beni come caffè e zucchero) come risultato dell’aumento del prezzo delle materie prime, di conseguenza a loro volta responsabili di inflazione e di una crescita dell’Occidente che non decolla, non curandosi di porsi interrogativi su come l’ estrema finanziarizzazione del sistema capitalistico – questo sì causa dell’aumento dei prezzi anche dei beni alimentari perché risultato delle speculazioni sui loro derivati - ne abbia danneggiato profondamente il suo impianto produttivo tanto da doversi reinventare su nuovi parametri industriali e salariali.
Fino a che la globalizzazione viene presa a pretesto per giustificare la crisi economica e del sistema produttivo e industriale occidentale, o i movimenti di rivolta tunisino ed egiziano, per iniziare, e non si procede a ragionare con schemi in cui i soggetti sono quelli di sempre, ben precedenti a tutti gli aspetti “cattivi” dell’abusato “villaggio globale”, non solo non si comprenderanno quelle rivolte, ma si finirà per esserne travolti in maniera devastante. Tentare ancora di giustificare la nostra recessione come una crisi passeggera e di cui gli eccessi della finanza sono causa prima, senza aver compreso che si tratta di una crisi strutturale ben più complessa, in cui la delocalizzazione produttiva e il progressivo indebolimento del potere d’acquisto del ceto medio non sono considerati, equivale a non voler comprendere quanto è stato abusato di realtà politiche, economiche e sociali come quelle che ora stanno esplodendo in Nord Africa.
Equivale, infatti, a dimenticare quante privazioni sono state imposte a quelle popolazioni, con l’appoggio dato dall’ Occidente a regimi così limitativi della libertà e della democrazia, senza progetti di sviluppo che non fossero vincolati a interessi di sfruttamento in quelle regioni così comode e prosciugate, con il rischio che “l’effetto domino” delle lotte nordafricane e mediorientali si riversi veramente contro questa parte settentrionale del Mediterraneo, appunto, non immune da responsabilità decennali.
30/1/2011
30/1/2011