Le cronache di ciò che sta succedendo in Libia sono scarse, pressoché inesistenti, come se, finiti i combattimenti e ucciso Gheddafi, le sorti di quel Paese non interessassero più né media né opinione pubblica. In pratica, la Nato ha fatto una guerra per proteggere la popolazione libica dalla violenta repressione di Gheddafi, quest’ultimo è stato eliminato, l’obiettivo è stato raggiunto e il problema risolto, per cui si cala il sipario e l’attenzione dei media si concentra solo là dove ci sono massacri, dalla Siria agli attentati in Nigeria o, appunto, in Libia ma solo quando ci sono vittime dai numeri importanti. Che il paese sia nel caos, diviso e straziato da bande o milizie armate, che dir si voglia, e che tutto abbia avuto origine da quel conflitto iniziato con tutti i buoni propositi, sembra non avere più il giusto spazio di informazione.
E’ necessario, infatti, un faticoso lavoro di ricerca e di contatti con fonti locali per avere un quadro della situazione attuale in Libia, dato che gli unici rapporti ufficiali sono quello redatto per il segretario delle Nazioni Unite Ban Ki-moon e quello di Amnesty International sulla violazione dei diritti umani; ma solo in quest’ultimo è possibile trovare elementi utili a tracciare un quadro, sebbene a grandi pennellate, di ciò che sta accadendo veramente in quel paese.
Infatti, sebbene il rapporto redatto per Ban Ki-moon parli solo di “skirmishes” nelle città di Tripoli, Bani-Walid, Zintan e Misurata, fra forze della Libyan Arab Jamahiriya, ossia milizie leali alla famiglia Gheddafi, e forze regolari locali che supportano la Nato e le Nazioni Unite, la situazione sembra ben più grave; non è un caso che il Palazzo di vetro abbia deciso di prolungare la missione per tutto il 2012, per sostenere il governo di transizione (CNT) nella sua azione di quell’ institution building che ci si aspetta dopo la violenta destituzione di un sistema di potere famigliare e di governo di Gheddafi che durava da 42 anni.
Fin qui nulla da obiettare, se non fosse per il fatto che il rapporto evidenzia l’azione di “large number of armed brigades whose lines of command and control remained unclear” (pag.2), ossia numerose bande rivali di cui si sa poco o nulla come provenienza e gestione. Il problema del disarmo di milizie che partecipano a una guerra civile non è, infatti, una novità, e si sa che rappresenta uno dei compiti più gravosi in una realtà postconflittuale e di ricostruzione; ma diventa pericoloso non poter individuare la catena di comando, delimitarne l’area di provenienza e quella di azione, e soprattutto confrontarsi con rivendicazioni totalmente antitetiche.
Se a questo rapporto si affianca quello redatto da Amnesty International, che testimonia di abusi, di violenze, di deportazioni forzate da parte di milizie nella totale impunità da parte del governo centrale, ci si rende conto di come la Libia abbia vissuto e stia vivendo uno dei periodi più tragici della sua storia.
Ciò che sta emergendo con vigore è la frantumazione del paese che, per alcuni, è limitata alle tre regioni “storiche”, ossia Tripolitania, Cirenaica e Fezzan, che dal 1951 al 1963 era anche rappresentata politicamente attraverso assemblee regionali, a cui partecipavano notabili locali e capi tribù. Dalla nazionalizzazione della produzione petrolifera da parte di Gheddafi, questo federalismo amministrativo venne abolito, anche se il colonnello utilizzò sovente la conflittualità tribale per frantumare l’opposizione interna al suo regime. Con la guerra dello scorso anno, queste distinzioni regionali, ma soprattutto locali sono riapparse, contribuendo anche militarmente alla guerra contro Gheddafi. Crollato il regime, sembrano essere rimaste presenti sul territorio, con un elemento in più rispetto a poco più di un anno fa, ossia quasi tutte le grandi città (attorno cui ruotano interessi locali e tribali) posseggono sia proprie brigate armate che consigli militari. In un paese senza un comando e controllo centralizzato del territorio, il problema della sicurezza interna si è andato, quindi, esasperando, soprattutto lungo le direttrici delle grandi divisioni regionali così come lungo i confini nazionali, diventati ormai pressoché inesistenti.
A inizio marzo nel corso di un incontro a Bengasi erano state avanzate richieste di separazione e piena autonomia politica da Tripoli da parte di tribù (fra le quali gli Ubaidat, i Mughariba, gli Awajir e, in parte anche i Tobu del sud , sebbene sottorappresentati) e milizie della Cirenaica, tanto che si era auto istituito anche un Consiglio provvisorio di Barqa (nome arabo della Cirenaica). Un fatto non di poco conto, dato che questa richiesta era stata avanzata da Ahmed Zubair al Senussi, nipote di quel re Idris deposto da Gheddafi, a lungo perseguitato da quel regime, e - stando a osservatori locali – con orientamento ideologico decisamente islamista. Insomma, un personaggio che sembra avere le carte in regola per condurre questa importante partita. Tuttavia, a questa decisione si sono opposti migliaia di libici, anche della stessa Cirenaica che, nel corso di manifestazioni, hanno reagito allo slogan “La Libia è una. No al federalismo”.
A questa apparente lucidità circa il futuro politico libico non corrisponde, però, un altrettanto chiaro progetto politico; è vero che il Cnt o governo di transizione, nominato nel novembre del 2011, è provvisorio e attende le elezioni di giugno per avviare la ricostruzione costituzionale del Paese. Ma vi sono due fattori che rendono la situazione libica esplosiva.
Il primo è dato dal fatto che il Cnt è in forte crisi di legittimità interna, sebbene essa sia notevole esternamente; quindi, il Cnt non sa e non può colmare la grave lacuna interna dovuta alla sua non-rappresentatività della frammentata e sofferente società libica del dopoguerra.La sua legittimità, infatti, non gli deriva dall’aver partecipato alla guerra contro Gheddafi, ma dall’appoggio dato dall’Occidente e da quel mondo arabo che ora, pare, stia cospirando per la divisione del Paese. Questa è, infatti, l’accusa che il presidente del Cnt, Mustafa Abdel Jalil avanza nei confronti di non precisati “paesi arabi” che starebbero fomentando questa “sedizione dell’est”, ossia la separazione della ricca (2/3 del petrolio libico) e vitale (possiede il giacimento di acque fossili di al Kufrah e la più vasta zona agricola) Cirenaica dal resto del Paese, supportando non precisate milizie armate.
Inoltre, il secondo fattore destabilizzante non adeguatamente divulgato dai media occidentali, è che nello stesso nord-est, i consigli locali delle città come Bengasi, Derna, Bayda e Tobruk si oppongono a qualsiasi divisione federalista della Libia: a costoro si affiancano differenti milizie armate che controllano la Cirenaica, come la potente Tajammu Saraya al-Thuwar (o Unione delle Brigate Rivoluzionarie). Quindi, alla separazione del nord-est non si opporrebbe solo il Cnt, ma anche soggetti e istituzioni locali della stessa Cirenaica, con il sostegno di elementi pericolosi e soprattutto ben armati.
Il rischio principale per una Libia post-Gheddafi che si vorrebbe unita e compatta deriva anche dai fatti violenti che si registrano in altre zone, come quelle meridionali del Fezzan (in particolare la città di Sebha), in cui gli scontri fra gruppi tribali, fra i quali i nomadi Tobu, e milizie armate hanno provocato, in una sola settimana a fine marzo, oltre 160 morti e 400 feriti. Alla base degli scontri vi sono anche intolleranze razziali che datano di decenni, dato che i Tobu – che popolano anche il Ciad e di carnagione scura, e per questo definiti “africani” dai libici della costa mediterranea – denunciano di subire una vera e propria “pulizia etnica”.
Ad aggravare le tensioni vi sarebbero i passaggi di armi da e verso la Libia a sostegno sia di elementi di al Qaeda (o AQIM, al Qaeda in Maghreb) presenti fra le milizie armate libiche, che dei Tuareg che, nel caos del dopoguerra, stanno portando avanti con maggior vigore la loro lotta armata per l’indipendenza dal Mali – già vittima di un golpe - a cui si sono affiancati, in un effetto domino, anche i Tuareg del Niger nella lotta ad oltranza per uno stato separato.
Ciò che si teme, inoltre, è l’allargamento della rivolta dei tuareg “libici” anche all’Algeria e, in particolare, la loro collusione con l’AQIM – secondo agenzie di intelligence occidentali – nella gestione del traffico di droghe e nei sequestri di persone, soprattutto se occidentali. Sebbene ciò sia accaduto per colpa di frange più estreme e criminali, la loro giustificazione è stata che si è trattato di soluzioni di ripiego, data l’impossibilità di continuare nelle loro attività per gli intralci e la persecuzione dei governi dei loro paesi di appartenenza. E non è un caso che le aree da loro controllate e abitate, e per le quali chiedono l’istituzione di uno Stato indipendente, siano ricche di minerali e di uranio (come in Niger, ad esempio, la cui estrazione è però di monopolio del consorzio francese Areva). Insomma, si tratta della solita storia che sembra ripetersi dai giacimenti petroliferi del Kurdistan a quelli dell’area sciita dell’irachena Bassora, sino a quelle sabbie del Sahel battute dai tuareg.
Questo sforamento degli scontri nella regione desertica lungo il confine meridionale della Libia e oltre – con tutte le implicazioni strategiche dovute alle “relazioni pericolose” dei suoi protagonisti - rischia di trasformare la destituzione di Gheddafi in una vera e propria minaccia alla stabilità dell’intera regione. A tutto ciò contribuirebbero, secondo alcuni analisti, l’emergenza di sfollati dalle zone in rivolta – dall’inizio degli scontri fra tuareg ed esercito maliano, ad esempio, ci sono già stati oltre 170 mila profughi fuggiti in massa verso il Burkina Faso, Niger e Mauritania - e le tragiche conseguenze della siccità – come l’aumento dei prezzi delle derrate alimentari - che potrebbero portare a una crisi umanitaria di ampie dimensioni.
Ma anche il Nord libico, al confine con la Tunisia, non è immune da caos e scontri, come quelli avvenuti fra le milizie locali della città di Zuwara e quelle della città di Al-Jumail, in un conflitto giustificato da “incidenti” all’apparenza casuali ma che sarebbero originati da uno scontro fra i “berberi” (una minoranza etnica) di Zuwara, decisamente opposti a Gheddafi, e gli “arabi” di Al-Juamil, a favore, invece, del vecchio regime.
Sebbene gli analisti e soprattutto gli storici e conoscitori della Libia sostengano che le rivalità tribali non appartengano alla nuova generazione dei giovani libici, le cronache degli scontri del dopo conflitto, soprattutto se ben documentate, confermerebbero esattamente il contrario. Ne deriva, infatti, che alle violente rivendicazioni tribali, anche se di poche entità, si affianchino ora “localismi” che vedono contrapporsi, ad esempio, regioni come la Cirenaica e la Tripolitania, in una rivalità geostrategica che vede confrontarsi insiemi e sottoinsiemi di realtà e di interessi così differenti da mettere a repentaglio la sicurezza nazionale e regionale nordafricana.
Gli osservatori politici più attenti sostengono, infatti, che le milizie, occupando fisicamente territori, che tendono a barattare in cambio di una rilevanza politica alle prossime elezioni, si stiano ponendo come soggetti strategici nelle trattative con il traballante Cnt e sottopongano i membri del governo di transizione a continue trattative di rappacificazione, non sempre fruttuose o dalla tregua duratura.
Ma quali sono gli elementi di maggior forza unitaria in grado di unificare le differenti entità libiche, con le loro contrapposte rivendicazioni, e di permettere, quindi, una riappacificazione di quel Paese? Se si esclude uno dei metodi di Gheddafi, ossia quello di identificare un nemico esterno e richiamare, così, all’unità i suoi connazionali per combatterlo, rimangono due elementi: il petrolio e l’Islam. E pare proprio che il Cnt si stia muovendo, seppur fra tentennamenti, nello sfruttare questi due fattori.
Il petrolio permette di ottenere grandi proventi che il governo centrale, già ai tempi di Gheddafi, distribuisce al popolo, prediligendo quel ruolo di rentier State che negli anni ha garantito la legittimità del governo centrale e l’unione del Paese. E’ di febbraio, infatti, il decreto del Cnt che stabilisce la somma di 2000 dinari (poco più di 1200 euro) che la Banca centrale libica elargisce a ogni famiglia, continuando in una attività che da sempre garantisce il consenso a chi la pratica. Con la stessa logica, le ricche monarchie del Golfo, soprattutto Arabia Saudita e Qatar, hanno evitato o almeno contenuto le rivolte al loro interno sulla scia della primavera araba. Si tratta, quindi, di barattare tranquillità interna, unità e legittimità, con buona distribuzione della ricchezza nazionale, anche a scapito, appunto, di maggior democrazia e libertà.
L’altro elemento unificatore, o per lo meno che può toccare maggiormente le corde più sensibili al richiamo per la riappacificazione del Paese, è appunto l’Islam. L’appartenenza alla stessa religione e la condivisione di precetti che sono anche leggi alla base del vivere civile possono formare i fondamenti su cui poggiare l’ institution e soprattutto il nation building della Libia del dopoguerra.
Vi sono, però, alcune considerazioni che debbono essere esaminate con attenzione proprio al riguardo: innanzitutto il Cnt non ha mai preso in seria considerazione il coinvolgimento dei propri connazionali appartenenti ai Fratelli Musulmani, considerati, invece, in Egitto, non solo interlocutori seri e moderati, ma anche come alternativa valida e condivisa, internamente e internazionalmente, al governo provvisorio dei militari che è succeduto al regime di Mubarak.
Proprio i Fratelli Musulmani libici hanno stretto alleanza con altre forze musulmane, politicamente indipendenti ma ideologicamente affini, e con esponenti di altre tendenze religiose, dando vita al movimento Hizb-al-‘Adala wa’l-Binà (Giustizia e Costruzione). Ciò che è chiaro, sino ad ora, è il loro intento a seguire le linee guida della Fratellanza egiziana, senza però specificare quali potrebbero essere le loro politiche verso il resto della comunità araba e soprattutto quella africana. Non bisogna, infatti, dimenticare che la Libia di Gheddafi ha avuto e ha rappresentato una vera e propria potenza nella politica continentale africana. E’, quindi, prevedibile immaginare che le forze che riusciranno a riappacificare e a governare in quel Paese sentiranno la responsabilità di continuare sulle orme di quello che di buono aveva fatto il Colonnello Gheddafi.
E’ per questo motivo che poggiare sull’elemento religioso ma trascurare la rappresentanza moderata islamista come quella dei Fratelli musulmani libici significa per il Consiglio di transizione dare spazio alle frange più estreme; e non è un pericolo da sottovalutare, considerando che a Derna, città a nord-est, nella travagliata e strategica Cirenaica, vi è la più alta concentrazione di jihadisti in tutto il Nord Africa.
La Libia del dopoguerra sente la responsabilità regionale e continentale che aveva un tempo, a cui si sommano quelle nate per effetto delle rivoluzioni della primavera araba, dalla Tunisia alla penisola Arabica e con i differenti risvolti anche sanguinosi, come in Siria o Bahrein; è un Paese che può porsi come interlocutore nel mondo arabo, africano e mediterraneo. Certamente dopo aver ritrovato una propria identità, legittimità e una pace interna che, date le cronache, sembra non essere così vicina.
Risultano così fuorvianti e pericolose le affermazioni secondo cui le distinzioni tribali non conterebbero più nulla per le giovani generazioni libiche: è un fattore da non sottovalutare soprattutto per la sua intrinseca rischiosità, facilmente strumentalizzabile e incline, quindi, a esplodere al comando di chi si oppone a progetti o aspirazioni unitarie, non solo di quel Paese ma di un intero continente.
Sono oramai troppo frequenti queste violente e sanguinose frammentazioni di Paesi ricchi o strategici e dalle aspirazioni di referente o guida di progetti unitari, dalla Libia per l’Africa, all’Egitto e l’Iraq per il mondo arabo-musulmano o alla Siria per il Medio Oriente – e tutte con ex capi di governo voluti ed appoggiati dall’Occidente e ora deposti - per non capire che queste divisioni sono alimentate ad hoc per compromettere quei progetti.
E’ un gioco molto rischioso, che si sta facendo sulla pelle di quelle popolazioni: non è sufficiente negare di scontri e di violazioni e sperare che quel caos che è nato dopo l’esplosione della primavera araba rimanga confinato in quelle regioni, perché così lontane e separate dal resto del mondo Occidentale dalle acque del Mediterraneo. E’ pura illusione: da quei fatti stanno emergendo nuove forze, movimenti e alleanze che finiranno – con inevitabile effetto boomerang – a influenzare anche quanto sta accadendo in un Occidente in piena recessione economica e in profonda crisi etica e politica.
Nuovi soggetti sono pronti a prendere il posto di nazioni-guida o di potenza regionale, dalla Turchia al Qatar: l’Europa, e l’Occidente nel suo complesso, debbono dimostrare di essere in grado di completare adeguatamente un lavoro iniziato un anno fa con l’attacco militare alla Libia e condurre quel Paese verso una riappacificazione sociale e una concreta realizzazione istituzionale. Per fare ciò è necessario che l’Occidente non si copra occhi, orecchie e bocca di fronte a quei massacri, ma si scrolli dal suo colpevole torpore e agisca per mediare, perché responsabile di un lavoro svolto solo a metà e che ha portato all’esasperazione di divisioni e contrasti che non rendono la Libia un Paese in grado di costruire il proprio futuro istituzionale e nazionale.
Non vi è alternativa che la mediazione fra le varie e legittime posizioni contrapposte, dopo aver aiutato il governo centrale, anche se provvisorio, a disarmare le frange più esaltate e fuori controllo. Mediare, quindi, con buona dose di aiuto economico e sostegno finanziario per permettere che la nuova Libia si riprenda in mano i propri destini e ricominci a vivere con i proventi delle sue grandi ricchezze. Una volta tanto, quindi, l’Occidente collabori a costruire, pacificamente, una nazione unita, libera e democratica.
Ma il silenzio che circonda quanto di tragico sta avvenendo in quel Paese, con le pericolose e violente derive sul resto della regione, fa capire quanto della pace futura della Libia non interessi affatto le grandi potenze perché l’obiettivo è stato, fin dalle origini di quella rivoluzione, ben altro dalla protezione di quella gente dal regime di Gheddafi; lo scopo, che è stato raggiunto, era l’eliminazione di un ostacolo alla riconquista occidentale del continente africano, ormai troppo a favore di altre entità, come la Cina, e che passava attraverso progetti di unione, economica e monetaria, africana che Gheddafi perseguiva da tempo e attorno ai quali aveva ottenuto grande consenso.
La guerra in Libia è stata solo la prima mossa in un gioco strategico ben più complesso, che vede cadere, con cadenza quasi mensile, governi di molti di quei Paesi sub sahariani attraverso golpe militari, più o meno di successo (dal Mali alla Guinea Bissau). Che se ne parli poco o nulla, non toglie che tutta quella regione sia in fermento e a rischio di esplosione, con l’incognita di emergenze umanitarie di cui l’Occidente si interesserà solo dove e quando serviranno a completare quanto iniziato un anno fa. Nel frattempo, però, non meravigliamoci e non urliamo allo scandalo di fronte alle testimonianze come quelle del rapporto di Amnesty International sulla violazione dei diritti, sulle violenze e sulle deportazioni di intere popolazioni:è un gioco pericoloso iniziato dall’Occidente per mera competizione economica con potenze antagoniste su un mercato che si stava ampliando e arricchendo, come quello del continente africano e che, grazie al nuovo benessere, puntava a una maggior autonomia politica, economica e commerciale.
Negli intenti di muovere guerra a certi regimi vi è poco o nulla del desiderio di aiutare quei popoli verso la loro libertà e la loro democrazia, quanto il proposito di riprendere il controllo di uno dei continenti più ricchi al mondo di risorse prime e minerali, e per questo più strategici per un Occidente che annaspa nelle acque della propria recessione per non affogare a causa dei suoi biechi errori economici e del suo sterile e delirante fanatismo finanziario.
13/4/2012