Sembra quasi una beffa la stretta concomitanza di alcuni eventi come quelli accaduti la scorsa settimana e che hanno avuto come protagonista la Libia: nel momento in cui, come segnale di desiderio di un ritorno alla stabilità, e per formare nuove forze armate, si avviava la fase cruciale dell’addestramento di truppe libiche regolari da parte di istruttori dell’Esercito italiano (a cui sarebbero seguiti gli statunitensi, i francesi e i britannici) veniva rapito il premier Ali Zeidan, proprio da membri di una di quelle milizie armate o katiba che ormai tengono in ostaggio l’intero Paese. Perché è proprio di questo che si tratta, ossia la Libia, a due anni dalla fine del regime di Gheddafi e dopo la missione Unified Protector della Nato, non è ancora stata posta sotto sicurezza: poco importa che il rapimento si sia esaurito in poche ore.
Violenza e instabilità stanno scuotendo il Paese: se il nord, della costa e dei grandi centri urbani, è vittima quotidiana di azioni cruente, soprattutto contro politici locali, uomini d’affari e rappresentanze straniere (come l’autobomba che, pochi giorni fa, ha devastato il consolato svedese a Bengasi), e i suoi porti, come Misurata, sono sotto controllo di milizie che poi alimentano il traffico di disperati sulle nostre coste e le tragedie come quelle di Lampedusa, gli oleodotti e i gasdotti, nella parte orientale del Paese sono minacciati da bande armate, e il sud, diventato il santuario dell’attività alqaedista e jihadista di quella parte di Africa, è in balia di traffici illeciti e di scorribande di criminali dai Paesi vicini. La situazione è, qui, così disperata da far decidere le sue tribù di formare un consiglio militare unificato per sostituirsi a un governo di transizione assolutamente impotente.
Ed è così confusa la situazione sicurezza in Libia del dopo Gheddafi che permette a un ricercato come Ahmed Kattala, considerato uno degli organizzatori dell’assalto al consolato americano in cui morì l’ambasciatore Chris Stevens, di circolare a Bengasi; oppure a Nazih Abdul-Hamed al Raghie, o Abu Anas al-Liby, l’uomo più ricercato dagli Stati Uniti, perché responsabile degli attacchi alle ambasciate americane di Nairobi e Dar es-Sallam nel 1998, di muoversi “tranquillo” fra le strade di Tripoli e cadere vittima, poi, pochi giorni prima del rapimento del premier Ali, di un blitz di Navy Seals, in collaborazione con Cia, Fbi e istituzioni libiche. L’aver pensato di essere al sicuro, per un pluriricercato da anni , sul cui capo pendeva una taglia di 5 milioni di dollari, dimostra quanto siano confusi i ruoli, le situazioni e relativi protagonisti sul territorio libico. Nella stessa Tripoli domina la milizia Comitati supremi di sicurezza, il cui capo, il salafita formato in Arabia Saudita, Hashim Bishir sostiene proprio per spirito di appartenenza al salafismo, quel Nuri Abu Sahmain alla guida al Congresso che si è posto come protettore dei combattenti libici affiliati ad al Qaeda e ora ritornati in Libia.
Ciò che, di fatto, definisce l’autorità e l’indipendenza di uno Stato nazionale è anche il suo disporre di forze armate regolari in grado di difenderle: la Libia non le ha più, per via del loro smembramento dopo la guerra del 2011. Lo stesso Gheddafi considerava una priorità la sicurezza del suo Paese, così eterogeneo nella sua composizione tribale, troppo ricco per non essere preda di appetiti esterni e soprattutto così vasto e desertico da imporre una strategia di difesa particolare. Il modello di Gheddafi era sostanzialmente copiato da quello della Jugoslavia di Tito: un esercito di ridotte dimensioni per fronteggiare il primo impatto di una possibile invasione esterna, ma con il supporto di milizie popolari, sparse sul territorio, che avevano l’accesso ad arsenali ubicati strategicamente su tutta la Libia. Non è un caso che, proprio nei primi giorni delle operazioni Nato, Gheddafi avesse ordinato alla propria aviazione di bombardare non solo i ribelli ma gli stessi arsenali, per evitare che cadessero in mano ai rivoltosi.
In essi vi erano soprattutto fucili mitragliatori, mortai, lanciagranate, sistemi anticarro fino a missili antiaerei in gran parte utilizzati dalle forze tuareg a sostegno del regime durante la guerra del 2011, in parte caduti in mano alle forze dei ribelli, poi cedute ai combattenti delle milizie che ancora le stanno utilizzando o, in parte, vendendo per autofinanziamento. A giovarne maggiormente sono state, inizialmente, le milizie fondamentaliste operanti nel nord del Mali (Ansar Dine, Mujao e Aqmi): con l’arrivo delle forze francesi e il respingimento di costoro, il flusso di combattenti si è spostato nuovamente verso la Libia e con essi quel che resta dell’arsenale dell’esercito regolare gheddafiano. Da tutto ciò ne deriva che il problema maggiore, dalla fine del sistema di sicurezza e difesa del regime di Gheddafi, sia proprio il monopolio della forza.
Questa forza sembra essere ora frammentata su innumerevoli fronti, attraverso katiba armate (chi parla di 40, ma c’è chi ne ha contate oltre 70) più o meno potenti e determinate, aggregate per appartenenza tribale, religiosa o regionale ma, quel che più stupisce, anche “ufficialmente” stipendiate e, quindi, “riconosciute”. Vi appartengono attualmente 250mila uomini, suddivisi fra la stessa milizia che ha rapito Zeidan, la Camera della Rivoluzione alle dipendenze del Ministero degli Interni, la milizia di Misurata che “comanderebbe” le zone centrali del Paese e la Marina, e quella di Derna a forte ispirazione islamista, spalleggiata da quella di Zintan che controlla invece l’aeroporto. A queste bande si affiancano quelle dal ruolo minore benché potenti, come a Bengasi quella del Martiri della rivoluzione di febbraio, in Cirenaica il battaglione di Rafallah e quella composta da ex appartenenti alla Brigata “Scudo” a cui è stata affidato l’ordine pubblico, e poi la Brigata Sadum al-Suwayli, i Martiri di Abu Salim, solo per citare le più note ed attive. E a dominare questo fosco e agitato caos nella sicurezza di uno dei Paesi più strategici del Nord Africa vi sarebbe quella Ansar al-Sharia che spadroneggia soprattutto in Cirenaica.
Il problema della sicurezza della Libia si caratterizza, quindi, per questa duplice caratteristica: l’avanzamento e il radicamento di al Qaeda su gran parte del territorio, a cui fa da sfondo, a livello politico, il contrasto fra Fratelli Musulmani e i salafiti, e la gestione di ruoli e comparti strategici in mano a bande armate, a cui ufficialmente il governo di transizione libico ha dato il potere. Il caso più eclatante è quello della milizia di Ibrahim al Jathran, giovane ex detenuto delle carceri di Gheddafi, liberato e poi combattente nella fila dei ribelli, a cui il governo provvisorio ha affidato le guardie armate della sicurezza nei terminali petroliferi (Petroleum Defense Guards) ossia una milizia “governativa” di 17mila uomini per garantire la protezione dell’ export del greggio della Cirenaica. Un ruolo così importante, tuttavia, non gli ha impedito, lo scorso luglio, di utilizzare quella milizia per occupare e bloccare le forniture, ricattando il governo centrale, secondo alcuni per il suo desiderio di garantire una maggior autonomia politica per quella regione (appartiene, infatti, al gruppo politico Consiglio transitorio della Cirenaica), secondo altri per farsi riconoscere un controllo territoriale maggiore, tanto da cambiare il nome di questa milizia in Forza di autodifesa della Cirenaica. Quella di Jathran è una pericolosa ambizione da non sottovalutare, date soprattutto le alleanze che costui avrebbe con elementi jihadisti.
Anche solo in termini economici, il blocco di export di Jathran, del luglio scorso, sarebbe costato alla Libia più di 5 miliardi di dollari in entrate perse negli ultimi mesi. Inoltre, non sarebbero chiare le fonti di finanziamento che hanno permesso all’ex galeotto di circondarsi di consulenti politici e creare un canale satellitare: il timore che sia in contatto con l’ex vice ministro della Difesa Saddiq al-Gheiti, ex combattente in Afghanistan e, pare, colpevole di aver sottratto 150 milioni di dollari destinati al suo ministero, ma soprattutto filo alqaedista, è ciò che maggiormente preoccupa il governo di transizione libico.
Ciò che più allarma Tripoli è che il “sistema Jathran” sarebbe diventato un modello per altre milizie, come quelle presenti a Zintan, nell’ovest della Libia, e per quelle che si muovono nei territori desertici a sud. Ed è da quella parte del Paese che si sta giocando un’altra partita fra katiba e governo centrale.
Sempre nell’estate scorsa, infatti, vi sono state azioni di sabotaggio e di interruzione da parte di milizie nel sistema di raccolta e distribuzione delle acque fossili nubiane, quel Great Made Man River costruito da Gheddafi che, nell’oasi di al-Kufrah ha visto confrontarsi, per il suo controllo, dapprima le differenti tribù che la abitano, poi, una sola di queste contro le forze regolari ed, infine, vede ora gli scontri fra le varie milizie armate, desiderose di accaparrarsi la custodia di questa infrastruttura strategica. E’ stata tolta l’acqua a Tripoli per alcuni giorni, e tutto è passato come un normale razionamento, anche se mai avvenuto in passato, proprio perché il sistema libico era così efficiente da non creare mai problemi alle grandi città della costa, nemmeno nella stagione più calda. Non da meno, il 30 settembre, bande di berberi hanno assaltato l’impianto Eni di Nalut, provocando dapprima un blocco e poi un forte calo del flusso di gas che, attraverso la conduttura Greenstream, da Melillah veicola verso Gela, 8,5 miliardi di mc di gas per il nostro approvvigionamento. Si è trattato dell’ennesima interruzione di idrocarburi dalla Libia, la quale soffre anche di un drastico calo di produzione come ai tempi della guerra civile: da 1,5 milioni di barili di greggio al giorno, di inizio 2013, si è ora a poco più di 260mila, con punte al ribasso anche sino a 100mila.
Tuttavia, se nel caso delle acque si è trattato di un’azione per puro ricatto economico, con l’assalto al gasdotto i berberi rivendicavano l’azione come una protesta perché la loro lingua non è inserita nella nuova Costituzione libica: ciò dimostra non solo quanto quel Paese sia fortemente in ostaggio delle milizie ma anche avversato da richieste molto distanti fra loro e soprattutto difficilmente conciliabili. Il fatto stesso che la Libia sia in piena fase costituente implica una maggiore debolezza per il suo governo centrale, alle prese con il difficile compito di arrivare a compromessi con rivendicazioni etniche, claniche e linguistiche, se non addirittura territoriali che risalgono alla storia pre-coloniale di quella nazione, a cui si aggiungono anche componenti proprie della tradizione religiosa, da quelle delle frange “moderate” dei Fratelli Musulmani a quelle più estreme jihadiste.
Il mancato controllo dei territori desertici a sud alimenta quel fenomeno di “porosità” dei confini – oramai una caratteristica di gran parte dei Paesi del Maghreb – che permette al jihadismo e al proselitismo islamico di prosperare ampiamente. Tuttavia, non si tratta solo del continuo passaggio di combattenti e di armi dalle fila di gruppi affiliati al terrorismo islamico alqaedista a quello più estremo. Ad alimentare grandemente la pericolosità di quei gruppi armati, infatti, non è solo il fanatismo quanto la partecipazione di disperati, per lo più criminali fatti fuggire dalle carceri attraverso veri e propri assalti armati di tipo militare. E’ un fenomeno che è apparso ampiamente con il caos che è seguito non solo alle primavere arabe (Mohammed Abu Jamal Ahmed, a capo del commando che uccise Stevens era fuggito dalle carceri egiziane), ma anche in Paesi, come l’Iraq del dopoguerra, in pieno caos sicurezza. Nel solo distretto di Bengasi, a luglio 2013, sono stati liberati circa 1200 delinquenti, in uno strano fenomeno che ha visto, nel contempo, la liberazione in Iraq dai 700 ai 1000 elementi e in Pakistan di 250 talebani. Se parte di costoro è andato, comunque, a cercare rifugio presso bande criminali, il resto, pare, si sia aggregato ai combattenti jihadisti e alqaedisti che stanno scorrazzando dal Centro Asia al Maghreb passando, appunto, dal corridoio Yemen-Sinai-Africa Subsahariana.
Ciò che sta accadendo in Libia non è, dunque, più un mistero; è certamente complesso l’intreccio di interessi e lo scontro fra visioni, ossia quella che vuole la spartizione del Paese nelle sue originali province sino a quella che pretende la creazione di quel califfato islamico che tanto piace ai jihadisti e che riguarda un progetto ben più ampio di matrice alqaedista. Quel che è certo, è che la responsabilità di quanto sta accadendo in quel martoriato Paese, e di quelli che lo circondano, è di una comunità internazionale che ha limitato la sua azione di forza contro un regime, quello di Gheddafi, lo ha smembrato ma non più rinsaldato attraverso un appoggio adeguato nella sua fase di ricostruzione. I tempi della politica occidentale, in particolare europea, si sono dimostrati fortemente lenti rispetto al precipitare di una situazione confusa, precaria, violenta, a cui sono andate affiancandosi la guerra in Mali, le relative rivendicazione dei tuareg, ex alleati di Gheddafi, così come di quelle autonomiste e dei jihadisti dalle sigle più disparate.
L’aver concentrato, inoltre, l’attenzione sulla sicurezza – peraltro poi mancata – sulle zone più abitate, ossia i grandi centri delle coste o i siti petroliferi, lasciando al loro destino aree desertiche che si pensava “al sicuro” solo perché, per noi occidentali, con una forte presunzione di desolazione e, quindi, considerati inospitali, o perché dall’enorme vastità da controllare, hanno portato conseguenze gravissime per le sorti della Libia intera e, come si comprende dai fatti di Lampedusa, del destino di molti disperati con, non in ultimo, la nostra stessa sicurezza.
Non si tratta, però, di un’esclusiva responsabilità occidentale, dato che quel poco che rimane delle forze armate libiche si è sempre rifiutato di intervenire laggiù: solo di fronte ad una cospicuo incentivo economico offerto dal governo centrale, le forze del Nord avrebbero accettato un loro maggior coinvolgimento nelle zone soprattutto ai confini con il Ciad. E sebbene tutto ciò sia parte di una strategia dapprima di messa in sicurezza delle città e dei porti e, solo in seguito, delle zone desertiche più periferiche, Tripoli sembra non essere riuscita ancora nel primo step, esaurendo così i suoi già limitati interventi per la sicurezza del suo intero territorio.
E’ lo stesso sbaglio che si è compiuto con il Sinai, considerato periferico alle sorti del governo centrale egiziano e ai suoi mutamenti più o meno pacifici, e lasciato così alla mercé di quanti ora vi trovano rifugio, come santuario, dai gruppi di jihadisti ai trafficanti e criminali di varia natura.
La mancata sicurezza della Libia, a cui si cerca di correre ai ripari tardivamente e lentissimamente con la creazione di un nuovo esercito regolare, è alla base quindi della difficoltà nel contrastare il fenomeno degli sbarchi sulle nostre coste. Quando le banchine dei porti di Misurata e di altre città della costa sono saldamente in mano a milizie armate che ne gestiscono il movimento, quando non si hanno interlocutori politici “liberi” e non ricattabili – come è successo con Ali Zeidan, laico e moderato, grande oppositore delle milizie e dei Fratelli Musulmani, e per questo sotto minaccia - con cui definire linee di politica di difesa comune, ecco che allora rischiano di fallire anche missioni come quella intrapresa dal nostro Paese e nota come Mare Nostrum.
Si tratta di una sfida difficoltosa e dai risvolti ancora colmi di incognite: da operazione militare umanitaria rischia di tradursi in un prolungato pattugliamento delle nostre acque, dai costi anche elevatissimi, solo per contenere ma non certo fermare il traffico di uomini dalle coste libiche fino a quelle internazionali. Se non si agisce sino al limite territoriale di quelle coste, non è possibile fermare quel traffico e far svanire così le ambizioni di guadagno facile di chi criminalmente lo controlla.
Gli strumenti militari ci sono (dalle navi agli elicotteri sino ai droni) ma è necessario affiancargli anche una buona dose di volontà politica che spetta alle classi dirigenti di quei Paesi che si affacciano sulla ponda sud del Mediterraneo, proprio per permettere che questi mezzi arrivino ad operare anche sul loro stesso territorio e bloccare un fenomeno ormai dalle dimensioni catastrofiche.
Da parte europea, inoltre, sarebbe opportuno definire in maniera coordinata un piano di sicurezza e di cooperazione economica per l’intera area nordafricana, anche se le speranze che ciò avvenga, e magari anche in tempi brevi, sono pressoché nulle. Ed è, comunque, un qualcosa che manca da tempo nella fase di post-conflitto degli ultimi anni: se è vero che, come evidenziavano i vecchi manuali di relazioni internazionali, con le guerre si poneva fine a un ordine e dal suo caos ne rinasce un altro, più idoneo e avanzato e, comunque, sempre di ordine si trattava, pare che questo assioma non abbia più alcun valore, a fronte di guerre devastanti e magari prolungate, con la relativa cacciata di dittatori e tiranni. E lo si sta vedendo in Iraq e si spera non si ripeti in Afghanistan nell’immediatezza del ritiro delle truppe americane.
Ciò che sta accadendo in Libia è la realizzazione di quella nemesi lanciata più volte da Gheddafi, quando nei suoi discorsi ripeteva “Senza di me ve la vedrete con al Qaeda e con gli immigrati di tutta l’Africa”. Per quanto facile da ignorare allora perché convinti che fosse solo un’estrema forma di difesa dei deliri di potenza di un uomo ormai vinto, ora che si stanno concretamente realizzando quelle sciagure ed è tardi per porvi rimedio senza arrecare ulteriori sofferenze, almeno si prenda coscienza dell’obbligo di cercare soluzioni degne di un mondo civile che sembra non voler completare fino in fondo la sua aspirazione ad esportare la democrazia, senza rendersi conto delle terribili conseguenze di un lavoro fatto solo a metà.
La sospensione, tuttavia, a tempo indefinito, del programma di formazione del nuovo esercito regolare libico da parte di istruttori occidentali, decisa in seguito al rapimento di Ali Zeidan, mostra quanto ancora la Libia susciti timori profondi e renda l’Occidente più fragile nelle sue paure di ritorsione che determinato a sostenere un popolo e un territorio allo sbando, senza più una guida e una precisa direttiva verso cui muoversi, e la cui deriva porta a gravi ripercussioni sulla stabilità e la sicurezza dell’intera regione mediterranea.
18/10/2013
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