Global Trends & Security Politica internazionale e Sicurezza, di Germana Tappero Merlo
  • Home
  • Geopolitica & Sicurezza
  • Middle East & North Africa
  • AFRICA
  • ASIA
  • TERRORISMO & JIHAD
  • Estremismo violento
  • Intelligence & Cyber
Home » Intelligence & Cyber » Libia: Washington vs Beijing consensus. Che altro? 24/3/2011
stampa pagina
  • <<
  • >>
 

Libia: Washington vs Beijing consensus. Che altro? 24/3/2011

Libia: Washington vs Beijing consensus. Che altro? 24/3/2011 - Global Trends & Security
“From the Halls of Montezuma, to the shores of Tripoli, we fight our country’s battle…”
Dalle prime parole dell’inno dei Marines vi è un accenno alle spiagge della libica Tripoli che, dinnanzi a ciò che sta succedendo in questi giorni, può apparire un audace presentimento: si rifà, infatti, alla Barbary war, combattuta già nel 1805 fra il sultanato del Marocco, le reggenze di Algeri, Tunisi e Tripoli, e gli Stati Uniti, appena nati. Fu la prima guerra combattuta da questi ultimi  fuori dai confini nazionali per la difesa delle rotte dei loro traffici commerciali dalle incursioni barbaresche dei sultanati del Nord Africa. Già allora la difesa degli interessi economici muoveva flotte ed eserciti della neonata nazione americana, anche se lontano dalle loro coste atlantiche.
Quel che è successo e sta succedendo, a nostro avviso, in queste settimane in Libia non si discosta molto dagli atteggiamenti pirateschi che portarono a quella guerra; vi è stato solo un cambio di ruolo fra i protagonisti e un più sfrontato progetto che risale a ben prima della presidenza Obama. 
Sebbene l’intervento armato in Libia da parte di forze congiunte statunitensi, inglesi e francesi e con il supporto logistico di altri paesi Nato, Italia in testa, abbia il benestare di un mandato delle Nazioni Unite e tutti i requisiti giuridici indispensabili richiesti dal diritto internazionale per intervenire a sostegno della rivolta popolare libica  contro Gheddafi, da cui una guerra a fini “umanitari”, l’intera vicenda, dal suo nascere, appare confezionata male e raffazzonata peggio.
Con il passare dei giorni, vi è un unico punto chiaro dell’intera operazione Odyssey Dawn: si è partiti con azioni aeree francesi contro le forze di Gheddafi e in appoggio ai ribelli, scoprendo, nel frattempo, che non vi è una chiara distinzione di ruoli e di gerarchie di comando fra le forze militari e politiche della coalizione internazionale.
E per quanto “compromesso”, per le passate relazioni fra Berlusconi e Gheddafi, il governo italiano, bisogna riconoscerlo, è stato, fino ad ora, l’unico che ha sostenuto fortemente l’obbligo di una direzione strategica militare della Nato, senza cedere in allettanti tentazioni di facile protagonismo. Ed è anche l’unico Paese che, oltre a proporre una mediazione con il colonnello ed evitare il prolungamento dell’intervento militare, da tempo sta anche cercando di scuotere l’Unione Europea di fronte ad una vera e propria emergenza umanitaria, come quella che si sta abbattendo sulle nostre coste più meridionali.
Il risultato più immediato, almeno per ora, è che persino un’operazione a fini umanitari sta facendo perdere consenso popolare fra gli europei; nemmeno George W. Bush era riuscito a fare peggio e, per lo meno, nella condivisione degli intenti nella guerra al terrorismo era riuscito a coalizzare e tenere unita la comunità internazionale.
Lo scenario che si presenta è un’ Europa che litiga per giorni su quelle che Obama ha definito “piccole beghe burocratiche”, ma che rappresentano il fulcro della buona riuscita di un’operazione bellica, ossia chi decide quale obiettivo politico perseguire e chi deve essere al posto di comando militare. Se vale ancora il motto che “la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi”, sembra che, stando a quanto sta accadendo, l’unica cosa chiara sia la volontà di armarsi e guerreggiare, mancando clamorosamente l’intesa su tutto il resto, ossia l’obiettivo politico da perseguire.
Non sono credibili le affermazioni di voler agire a scopi umanitari quando, di fronte all’emergenza degli sbarchi di migliaia di disperati sulle coste meridionali, l’Europa dimostra esitazioni e chiusure, che stridono con la rapidità con cui si è agito militarmente.
Poi vi è una Lega Araba che prima accetta di partecipare all’intervento militare e poi si allontana, preoccupata da possibili ripercussioni all’interno dei suoi vari paesi membri. E come dargli torto, quando da un paio di mesi sembra che non vi siano più riferimenti politici, economici, sociali e fra un po’  nemmeno religiosi, su cui fare appiglio per garantire stabilità e continuità alla gestione quotidiana di quelle nazioni.
Di sicuro le passate vicende irachene e l’inasprirsi del conflitto afgano hanno impartito una lezione così sofferta che impone cautela o addirittura un vero e proprio rifiuto nell’imbarcarsi in avventure militari a fianco degli Stati Uniti. Se poi Obama si dimostra tardivo nel prendere decisioni – tanto da far stizzire la stessa Hillary Clinton per la sua indecisione –Sarkozy insegue sogni di grandeur in vista delle presidenziali del 2012, Cameron è così preveggente in politica internazionale da inviare in Libia, in appoggio ai ribelli, le Sas, le sue forze speciali un mese prima dello scoppio della guerra civile, e Berlusconi è combattuto fra la vecchia alleanza con Gheddafi e il sostegno alla lotta del suo popolo, tutta questa confusione fra obiettivi da raggiungere e ruoli di leadership  nell’azione politica e militare potrebbe  compromettere proprio il buon esito della rivolta libica.
Non si tratta di un giudizio “a caldo”, quanto piuttosto la logica deduzione  scaturita da eventi  che sono conosciuti perché diffusi ampiamente  dai mass media o anche solo  perché basta conoscere un po’ di storia politica, economica e militare contemporanea per comprendere l’attuale incapacità di quei leader a cogliere un’occasione per impostare su nuovi parametri i rapporti con quella parte di mondo e di quel grande continente che è l’Africa.
Iniziamo, infatti, a chiarire alcuni punti dati per scontati  tanto da diventare pregiudizi veri e propri.
Innanzitutto, la Libia non è la Tunisia o l’Egitto; certamente questi paesi hanno  condiviso ampie manifestazioni popolari duramente represse dai rispettivi governi centrali   che, nel caso della Libia, sono degenerate in vera e propria guerra civile. L’unico elemento comune è che anch’essa, come gli altri, è stata guidata per decenni da un unico leader, quasi sempre accompagnato da una famiglia e una ristretta élite di collaboratori poco inclini a soddisfare le richieste del popolo. Ma le similitudini finiscono qui.
La Libia è, infatti, un paese ricco, forse il più ricco d’Africa, un primato che si sta contendendo con il Sud Africa; lo ha dimostrato la presenza di 300mila stranieri, fra tecnici, ingeneri, ma anche operai e maestranze generiche, che hanno abbandonato quel paese ai primi segnali di repressione. Basta ciò per eliminare l’etichettatura di “rivolte per il pane” o addirittura per “il cous cous”, come sono state definite le manifestazioni popolari tunisine ed egiziane contro il malgoverno e la povertà di quei paesi.
La Libia non ha una valenza geostrategica come l’Egitto: non controlla vie d’accesso fluviali o marittime, come Nilo e Canale di Suez; non confina con paesi, come Israele, la cui sicurezza è minacciata da sessant’anni da irrisolte questioni territoriali con i palestinesi e da pericolose irrequietezze arabe o musulmane.
Possiede, invece, a differenza degli altri, ancora una forte connotazione politica tribale che solo l’amministrazione coloniale italiana era riuscita a contenere in quei confini e a trasformare quell’immensa distesa di deserto in una nazione.
E’ una differenza che la contraddistingue solo dal resto dei Paesi del Nord Africa, perché per quel che rimane di quel continente si tratta, infatti, di una condizione comune e più che mai diffusa.
Ed è forse in questa somiglianza che è necessario partire per capire quanto sta succedendo: la Libia è il più africano dei paesi di quell’arco che va dal Maghreb a quella parte di Mashreq che è l’Egitto, per connotazione politica-tribale e sociale, ma soprattutto per ricchezza economica. Infatti, è necessario liberarsi di un pregiudizio che, in cinquant’anni di storia ex coloniale, è diventato verità assoluta ed indiscutibile ma che, in realtà, è stato solo frutto di lucrosi interessi.
L’Africa non è povera; al contrario, è un continente fra i più ricchi al mondo. Un’affermazione che potrebbe venir smentita dai rapporti degli organismi sovranazionali incaricati di monitorare e amministrare gli aiuti e le politiche di intervento: fra i 50 Paesi più poveri al mondo (con un reddito da 1 a 2 dollari al giorno) oltre la metà sono africani.
Tuttavia, una nazione come la Libia possiede petrolio da soddisfare esigenze europee e extracontinentali, Cina in testa; le si affianca la Nigeria, che possiede riserve di petrolio (e gas) per oltre 30 miliardi di barili, o l’Algeria con i suoi 12 miliardi, sino a quelli più “poveri “ come Angola, Congo, Guinea Equatoriale, Ciad, Senegal, Sudan, Niger, Tunisia e Mauritania, tutti in grado di sopravvivere con la sola esportazione di greggio.
Ma c’è di più: l’intero continente africano produce il 57% di cobalto, il 46% di diamanti, il 39% di manganese, il 31% di fosfati, il 21% di oro e il 9% di bauxite, a cui si aggiungono ferro e rame. Eppure gran parte dei Paesi africani è in fondo alla classifica della lista redatta dal Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo: su 177 paesi, la Guinea è al 160° posto e la Nigeria al 158°, sebbene i loro redditi dipendano dal 97,8% dalle esportazioni del petrolio.
La spiegazione sta solo in quel modello distorto di governo e di sfruttamento, esteso a tutto il continente, e accettato così passivamente da fare dell’Africa un mendicante seduto su una montagna d’oro: i proventi e gli utili, infatti, dell’estrazione di greggio  sono stati per anni gestiti non dai governi di quei paesi – in cui la corruzione era la forma più diffusa di gestione della cosa pubblica – ma dalle grandi compagnie petrolifere multinazionali, dalla Shell, l’ExxonMobil, Chevron Texaco etc. etc.
La stessa sorte è toccata a quant’altro abbonda in quei paesi, soprattutto cacao, caffè, zucchero e frutta solo per citare una piccola parte di ciò che possiede e che permetterebbe a quel continente di soddisfare la sua endemica fame, mai risolta dagli interventi sovranazionali.
Liberalizzazioni e privatizzazioni delle ricchezze nazionali, nella perfetta logica neoliberista diffusa a spron battuto dagli organismi sovranazionali e nota come Washington consensus, hanno, di fatto, consegnato le sorti politiche, economiche, ma soprattutto sociali e di sicurezza, della ricca Africa a interessi esclusivamente stranieri.
Sono, infatti, scoppiate guerre per il greggio e l’acqua (Sudan, Darfur, Etiopia) o per i diamanti (Liberia e Sierra Leone) solo per citare gli esempi più noti a noi occidentali, a cui si sono affiancate guerre decennali, come quella somala, degenerata in conflitto fra “signori della guerra” per il controllo e la gestione di traffici ben più loschi, dallo sfruttamento, attraverso la pirateria marittima, dei proventi della pesca di frodo, sino all’occultamento di rifiuti tossici, dal traffico di armi a quello di droghe di cui l’Africa sub sahariana rappresenta il corridoio di transito verso l’oceano Atlantico.
Mentre l’Occidente si perdeva in inutili consessi per il peacekeeping, fra interventi umanitari carichi di compassionevole e pietoso senso di aiuto ad un Africa povera e lacerata da cruenti conflitti, qualcosa, tuttavia e nel frattempo, stava cambiando.
Non è un caso, infatti, che già da alcuni anni la maggior parte dei Paesi africani abbia deciso di sottrarsi agli obblighi previsti dai contratti con le industrie estrattive private, siglati in seguito alle politiche di privatizzazione attuate negli anni ’90, e si sia accorpata in strutture politiche unitarie ed economiche di libero scambio per dare risposte univoche e non penalizzanti i propri interessi.  
E’ un cambio di direzione della gestione dei propri affari economici che determina una svolta radicale rispetto a quell’impianto imposto da Fondo monetario e Banca mondiale per ottenere aiuti allo sviluppo e che, di fatto, ha legato a doppio filo il destino di quell’Africa a interessi per lo più stranieri e privati.
Non è un caso, inoltre, che questo cambiamento sia intervenuto nel momento in cui in Africa, lentamente, cautamente, ma invasivamente si presentava un’altra grande potenza, la Cina.
Gli investimenti cinesi in Africa, dagli stentati 1,6 miliardi di dollari annui del 2005, hanno raggiunto i 6 miliardi di dollari annui nel 2008, per poi calare per via della crisi finanziaria mondiale, compensati però dai proventi delle esportazioni cinesi verso quel continente, per un valore di 80 miliardi di dollari, con un aumento del 700% dall’inizio degli anni ’90.
Lo scambio è pressoché alla pari: forniture di greggio, materie prime e persino prodotti agricoli in cambio dell' apertura del mercato africano ai manufatti cinesi e, a un livello un po’ più sofisticato, investimenti delle proprie aziende a partecipazione statale in grandi progetti infrastrutturali che vanno dalle dighe agli aeroporti (come nel caso del Sudan del Nord) sino all’acquisto, sfruttamento congiunto ed equa distribuzione dei proventi di miniere di quei metalli rari di cui la Cina necessita per lo sviluppo futuro dell’alta tecnologia di cui sembra voler strappare l’egemonia agli Stati Uniti.
Si tratta di quello che è ormai noto come Beijing consensus, chiaramente opposto per metodi e obiettivi finali, a quell’altro, quel Washington consensus che è caduto miseramente in rovina a causa dei suoi eccessi. In pratica, la Cina ha invaso economicamente l’Africa attraverso accordi commerciali e investimenti esteri diretti con la semplice formula che “gli affari sono affari” e non permette ingerenze nelle rispettive scelte politiche interne. Per questo motivo l’approccio cinese, che per noi occidentali esula da qualsiasi schema limitativo morale, permette a Pechino di fare contemporaneamente lucrosi affari con paesi africani anche in lotta fra loro.
La Cina non vincola, infatti, i suoi partner economici africani all’accettazione di quegli interventi di “aggiustamento strutturale” alla base del Washington consensus e degli aiuti economici elargiti dagli organismi sovranazionali: neppure si pone oneri morali di fronte all’esistenza o meno di strutture democratiche. E’ la pura e semplice applicazione delle leggi del mercato libero, concorrenziale, totalmente affrancato da political strings, tanto da etichettare la Cina come principale supporter dei regimi totalitari africani, a qualsiasi credo politico appartengano.
Un’accusa, quella di sostenere dittatori, che perde l’esclusività cinese e, con essa, anche la credibilità dei suoi detrattori occidentali, dopo le vicende nord africane e il tardivo risveglio dell’opinione pubblica europea sulla vera identità di quei governanti che, in nome del progresso e del fabbisogno energetico occidentale, venivano saldamente mantenuti al potere.
Pechino ha quindi dimostrato di saper pianificare le sue relazioni con l’Africa, subentrando ad un Occidente che, agendo in modo discontinuo e non sforzandosi di trovare alternative valide, ha continuato a perseverare in interventi di puro sfruttamento, dannosi per i paesi africani, ma soprattutto, dall’effetto boomerang negativo in un contesto internazionale in transizione, come quello del dopo guerra fredda.
La Cina ha semplicemente pianificato, come è nella sua più intima tradizione politica che risale a ben prima dell’esperienza maoista, i suoi rapporti con l’Africa. Ha impostato le sue relazioni ai massimi livelli politici, dimostrando un maggior rispetto per la persona dei rappresentati africani e facilitando, in tal modo, l’istituzione di reti interpersonali, come testimonia la storia degli incontri del Forum per la cooperazione sino-africana (Focac), istituito già nel 2000 con l’intento comune di promuovere lo sviluppo e la pace globali in un’ottica di cooperazione Sud-Sud, fra “il più grande Paese in via di sviluppo” (Cina) e il “più grande continente con più Paesi in via di sviluppo”, nel rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite e dell’Organizzazione dell’Unione Africana.
Sicuramente anche il Beijing consensus non è privo di aspetti negativi e contraddizioni: è prevista  una collaborazione in campo militare per l’addestramento delle forze armate e per lo scambio di “conoscenze” tecnologiche che, a una lettura libera da suggestioni eccessivamente ottimistiche circa il nuovo corso intrapreso dall’Africa, può solo significare vendita da parte della Cina di armi leggere e di armamento decisamente pesante e tatticamente rilevante per la posizione geostrategica assunta da quei paesi, soprattutto alla luce degli ultimi avvenimenti.
Ciò può sembrare contraddittorio circa la dichiarazione cinese di non ingerenza negli affari interni africani: in realtà, la Cina opera, anche in questo caso, nella mera logica degli affari. Lo stesso vale per l’apporto cinese al mondo del lavoro africano, che non si discosta dal più comune e abusato strumento del suo sistema produttivo industriale, ossia salari miseri, al limite dello sfruttamento, ritmi e precarietà delle condizioni di lavoro per operai o minatori africani pari a quelli cinesi. Ciò ha  già portato a sollevazioni operaie e a tumulti che solo dove sussistono governi autoritari non degenerano o non trovano eco presso gli organi di stampa.
Cosa c’entrano, quindi, i due modelli di intervento economico, come il Washington e il Beijing consensus e le vicende libiche  e una reazione  militare internazionale così asimmetrica per la disparità delle forze che si confrontano?  Nell’operazione Odyssey Dawn, infatti,  sembrano non esserci in gioco solo ed esclusivamente i diritti di quella gente, violati dalla dura repressione di Gheddafi, e nemmeno il desiderio di porre sotto controllo esclusivo per l’Occidente il suo greggio, data l’abbondanza della produzione libica e la prodigalità del quel leader a distribuirlo all’Europa e a nazioni come Russia e Cina.
Ed è a questo punto che le parole dell’inno dei marines dovrebbero suonare come un richiamo, per noi, in Europa, a svegliarsi su quanto sta accadendo: una sveglia tardiva, però, in uno scenario ormai compromesso da molti, troppi, interessi divergenti che appartengono a potenze così incompatibili da confrontarsi nell’unico modo che l’Occidente sappia utilizzare, quello dell’intervento armato, anche se giustificato da “scopi umanitari”.
Il bottino dell’intervento “umanitario” in Libia non è, quindi, la liberazione di quel popolo o, nella peggiore delle ipotesi,  il controllo del Mediterraneo quanto la riconquista dell’Africa, secondo canoni e obiettivi ben più vicini agli interessi di questa parte del mondo.
Fu proprio Gheddafi ad inizio 2009, una volta eletto a capo dell’Unione Africana, a proporre  gli “Stati Uniti d’Africa”. Invocando l’ indipendenza ormai matura delle oltre 50 nazioni di quel continente, si auspicava un’unanime risposta alla chiamata per l’unità, attuata con politiche concordate negli interventi economici, monetari (moneta unica) e di sicurezza (forze militari unificate e un passaporto unico per tutti gli africani).
Inutile spiegare quali potrebbero essere le conseguenze della creazione di un siffatto corpo politico ed economico indipendente, aperto ad alleanze alternative con potenze più pronte e meno pretenziose dell’Occidente, come la Cina, appunto.
Il tutto sarebbe dovuto avvenire secondo un panafricanismo che a molti osservatori sembrava stonare perché invocato da un leader, come il colonnello Gheddafi, poco propenso alla libertà di opinione e  al rispetto dei più elementari diritti civili, come le elezioni e una democratica alternanza al potere di interessi differenti dai propri e di fazioni politiche diverse.
Un consenso, tuttavia, Gheddafi l’aveva ottenuto; in quell’occasione 200 fra sovrani, rappresentanti tribali e politici africani l’avevano dichiarato “re dei re”. Lo stesso consenso che l’Unione Africana si è apprestata a garantirgli, in questi giorni, di fronte all’attacco della coalizione internazionale.
Un consenso popolare ai propri politici che, invece, sembra diminuire o addirittura sciogliersi  come neve al sole in un’Europa sempre più divisa e arroccata nella difesa dei suoi particolarismi, che ha dimenticato la sua storia e quella della sua Africa coloniale, che oggi sembra voltarle le spalle perché più matura e più consapevole della sua ricchezza e di decenni di crediti accumulati fra dimenticanza collettiva, pietismo missionario e, soprattutto, guerre combattute e sofferte per altri e per la spartizione delle sue ricchezze.
Ecco la parola su cui muove tutta la vicenda libica: consenso.
Che si tratti di Washington o Beijing o per alcuni freedom consensus, è necessario ricordare che la Libia è Africa, e una soluzione africana a quanto sta accadendo sarebbe auspicabile. Su questo punto vi è concordanza unanime da parte di tutto quel continente: di questo aspetto i mass media non parlano, preferendo diffondere immagini di massacri di civili da parte di Gheddafi per poi sospettare che si sia trattato di un equivoco. Ma nel frattempo la situazione può pericolosamente degenerare in un richiamo a un conflitto di più ampie dimensioni e soprattutto di più pericolose implicazioni, come quello religioso islamico.
Con l’inganno si perde il consenso. O non hanno insegnato nulla le falsità sulle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein?

24/3/2011


Nella foto: pirata nordafricano, mercenario greco,  William Eaton e un marine americano della Barbary War  del 1805.

Chi sono

Chi sono - Global Trends & Security

Analista di politica e sicurezza internazionale, opero attualmente presso enti privati in Israele, Giordania, Stati Uniti e Venezuela. Ho svolto attività di consulenza sul terrorismo per organismi governativi e privati in Libano, Siria, Iraq, Afghanistan, Somalia, Egitto, Sudan, Etiopia, Eritrea, Libia, Tunisia, Niger, Messico e Brasile.

Chi sono - Global Trends & Security

18 febbraio 2022. Uscita del mio volume "Dalla paura all'odio. Terrorismo, estremismo e cospirazionismo", Tangram Edizioni Scientifiche. Trento. " Il volume è il risultato di analisi e operatività sul campo che l’autrice ha condotto negli ultimi due anni circa fenomeni globali legati all’eversione e al terrorismo, sia di matrice islamista jihadista che dell’ultradestra violenta. Vengono analizzati soggetti e dottrine in un contesto di evoluzione delle relazioni internazionali e dei nuovi conflitti ibridi e identitari, in cui il terrorismo è tattica dominante. Sono inoltre delineati i processi, personali e collettivi, di radicalizzazione sia religiosa che politica, da cui derivano educazione e cultura alla violenza. Queste ultime acquisiscono un ampio pubblico attraverso la rete internet, anche nei suoi meandri più oscuri e tramite forme di comunicazione, qui analizzate, che trovano ampio utilizzo da parte delle nuove generazioni di nativi digitali. A ciò si sono aggiunti i toni aggressivi delle più recenti narrazioni cospirazioniste, originate sia da eventi interni a Stati democratici occidentali che da quelli emergenziali da pandemia. A vent’anni dalla paura del terrore proprio dell’11 settembre 2001, si sta procedendo velocemente, quindi, verso un livore generalizzato, a tratti vero e proprio odio, da cui una cultura di violenza politica dai legami transnazionali e che mira all’eversione, con i relativi rischi per la sicurezza nazionale."

  • 24/03/2023 01:19 pm
  • Nº pagine viste 387481
© Copyright  2023 Global Trends & Security. All rights reserved. |