Global Trends & Security Politica internazionale e Sicurezza, di Germana Tappero Merlo
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Liu Huaqing, il sea power cinese e il confronto con gli USA, 21/1/2011

Il 16  gennaio 2011, il New York Times, il Boston Globe e il Los Angeles Times  davano l’annuncio , con ampi commenti, della scomparsa del generale Liu Huaqing, considerato il Mahan cinese, ossia quell’ammiraglio statunitense che, alla fine del XIX secolo,formulava la dottrina del dominio marittimo, commerciale e militare, degli Stati Uniti, con elementi strategici poi adottati anche dai teorici dell’air power e su cui si sarebbe fondata la politica della grande potenza d’oltreoceano per tutto il secolo seguente.
Il generale Liu Huaqing, già nel corso degli anni ’80, aveva fatto propri i principi delle teorie di Alfred Thayer Mahan, a partire dal semplice assioma che “chi domina i mari domina la terra”, per   far raggiungere alla Cina, attraverso il controllo militare delle vie marittime e dotandola di un’ adeguata flotta,  una superiorità strategica tale da non dover sottostare a nessun ricatto di altre potenze, Giappone e Stati Uniti in testa. 
Sotto la sua direzione come Capo di Stato maggiore della Marina e dati i suoi timori  per la nazione data la vulnerabilità delle sue coste,  la Cina ha iniziato a dotarsi di  una flotta consistente (almeno stando al rapporto del 2010 del Pentagono),  lo sviluppo di  nuovi missili balistici capaci di coprire lunghe distanze, a cui si è aggiunta, in seguito, l’intenzione di dotarsi di portaerei entro il 2020. Tutto ciò avverrebbe in quell’ottica di “informatizzazione” (xinxihua) del sistema militare cinese che enfatizza il ruolo della tecnologia informatica sui cicli di decisione militare e di impiego di armi e che richiama il concetto occidentale di revolution in military affairs , già un po’ datato (nacque nel ’91 durante l’operazione Desert Storm) e che ha mostrato ampiamente i suoi limiti (guerra in Iraq), ma  che pone la strategia cinese al centro di un rinnovato interesse per gli analisti.
Fu  Liu Huaqing ad allertare i vertici cinesi della necessità di proteggere non solo le migliaia di miglia di coste nazionali di fronte al manifesto desiderio statunitense di affermare un containment in quella regione - essendo ancora aperte dispute come le due Coree e Taiwan - ma anche, ed in particolare, per salvaguardare le rotte marittime strategiche per i loro intensi traffici commerciali, data la dipendenza di Pechino dai mercati emergenti (come quelli africani o latinoamericani) per la realizzazione del suo socialismo di mercato.
A metà degli anni ’80, la Cina poneva così le basi della sua attuale far sea defense strategy, con una velocità tale da allertare i vertici militari delle nazioni straniere, e non solo quelle confinanti.
In questa logica di controllo dei mari – ed in particolare della volontà di garantire la sicurezza delle proprie rotte commerciali, e delle materie prime strategiche - si inserisce la partecipazione della flotta cinese, dal dicembre 2008, al pattugliamento antipirateria nel Golfo di Aden: la prima uscita della Marina cinese oltre il Pacifico, dopo 600 anni dai viaggi della formidabile flotta di Zheng He, a salvaguardia degli innumerevoli e proficui scambi commerciali e di materie prime con l’Africa.
Sebbene non vi siano intenzioni aggressive e desiderio di rivaleggiare, in particolare con l’egemonia navale statunitense, tuttavia, vecchie questioni rimaste insolute, proprio nel Mar Giallo, accanto a dichiarazioni di volontà di far emergere la propria superiorità,  fanno immaginare scenari di crisi e tensioni di non facile soluzione.
Il tallone d’Achille del dominio  regionale cinese dei mari sta nella decennale questione, mai risolta appunto, della gestione delle ricche acque (pesca, ma anche petrolio e gas) del Mar Giallo o della divisione coreana, alimentata da esercitazioni navali che hanno allertato gli Stati Uniti,  al punto da far schierare la portaerei George Washington e ad avviare l’operazione Invincible Spirit con Seul; a ciò si è aggiunta una lunga lista di rivendicazioni da parte di nazioni come il Vietnam (la gestione della ricca pesca attorno alle isole Paracel e Spratly), il Giappone (le pretese su Senkaku- Diaoyu, ma anche il controllo delle giapponesi Ryukyu-Nansei così vicine a Taiwan ),  o della stessa India, allarmatasi di quella che è stata definita “ la strategia del filo di perle” quando la flotta cinese è giunta sino alle coste del Myanmar.
Contemporaneamente  all’annuncio della scomparsa di Liu Huaqing, avveniva lo scambio di visite ai massimi livelli politici e militari fra Cina e Stati Uniti, in un contesto apparentemente cordiale, sebbene il Segretario di Stato Hillary Clinton, nel luglio del 2010, avesse dichiarato - e ciò, nell’ambiente diplomatico, equivale ad un monito - “la libertà di navigazione nel mare della Cina meridionale è interesse nazionale statunitense”. Ne è la prova il trasferimento di sottomarini statunitensi dall’Atlantico al Pacifico, a dimostrazione, quindi, di una continua osservazione ed allerta di possibili manovre cinesi in quelle acque.
Ciò che preoccupa maggiormente i vertici militari statunitensi relativamente alle aumentate potenzialità militari cinesi, riguarda non solo le irrisolte questioni territoriali e marittime nel Mar Giallo, quanto il posizionamento di Pechino al secondo posto per spese militari dopo gli Stati Uniti, unito ad un suo frenetico attivismo  in settori strategici, come quello spaziale e telematico. E’ necessario, infatti, sottolineare alcuni aspetti che, nella loro evoluzione, sono ben più significativi e che vanno ad aumentare la valenza strategica di dottrine come quella del sea power così come voluto da Liu Huaqing.
Un’inchiesta del New York Times di inizio anno, ha sottolineato l’inversione della tendenza dei flussi tecnologici, non più dall’Occidente verso l’Oriente, ma da ogni dove si sia grandemente investito nella formazione universitaria e nella ricerca nell’alta tecnologia, dall’India, al Brasile o alla Cina appunto.
Il know how è arrivato dalle multinazionali, che vi hanno investito e hanno iniziato a produrre per i loro mercati d’origine; con il tempo, i prodotti  sono stati migliorati e nuovi manufatti, anche originali, sono stati resi più commerciabili per realtà a reddito procapite minore rispetto a quelli occidentali. Da qui l’invasione di prodotti cinesi, che non ha risparmiato neppure il mercato delle armi leggere.
Ma il trend ha assunto aspetti inquietanti perché ha iniziato a minacciare la supremazia tecnologica ed industriale occidentale, che è andata perdendo terreno anche in settori dove, al momento, può ancora ritenersi superiore come, appunto, nei settori della difesa, dello spazio e delle comunicazioni satellitari.
Se alla produzione viene associata anche la ricerca, lautamente finanziata dalle multinazionali presenti in loco, e il ritorno di studenti laureati presso le università americane può succedere che in Cina, nel solo 2009, siano state presentate 300mila domande di brevetti di nuove invenzioni e altrettante per migliorie di prodotti già esistenti. Lo stesso documento ufficiale del governo cinese, nella sua traduzione presentata dal NYT parla di 2 milioni annui di nuovi brevetti a cui intende arrivare la Cina entro il 2015. Non a caso, le stesse imprese cinesi che ora non operano solo ed esclusivamente più per il mercato interno, ma che si sono aperte alla competizione globale, hanno scoperto il diritto alla protezione della proprietà intellettuale e, quindi, dei loro brevetti. Questa ondata di innovazioni è andata ad abbracciare anche settori sensibili, come quelli dell’industria militare, di difesa e aerospaziale, ossia quelli che più utilizzano tecnologia dipendente  da quelle terre rare così preziose da essere oggetto di ricatto nelle contese internazionali e di cui la Cina dispone di oltre il 95% della produzione mondiale.
Questi dati dovrebbero ridimensionare certi pregiudizi che vogliono solo e sempre il  prodotto cinese scadente e “copiato” da un altro più sicuro e più funzionale,  e sebbene vi sia ancora una certa riluttanza ad accettare il sorpasso cinese anche della potenza tecnologica asiatica per eccellenza, ossia il Giappone,  alcuni analisti prospettano il superamento degli Stati Uniti nella registrazione dei  brevetti da parte della Cina già entro il 2011.
Cosa hanno, quindi, in comune, Liu Huaqing, il Mahan Cinese, i nuovi brevetti e il sorpasso della Cina? 
E’ l’estrema abilità di Pechino nell’acquisire  concetti, sia militari che industriali, e di saperli adattare alla sua realtà e al suo obiettivo di crescita e che mira a garantirsi gli strumenti, le risorse e lo spazio strategici per il proprio sviluppo. Di certo, l’ampio risalto dato da quei prestigiosi quotidiani americani  alla scomparsa del generale Liu Huaqing solleva qualche dubbio circa la solidità della convinzione statunitense di essere ancora una potenza  tecnologica, mentre riafferma la certezza di Washington dell’inevitabilità del confronto e della necessità di una più incisiva politica di controllo e di contenimento della potenza cinese, anche se celata da desiderio tutto americano di garantire la stabilità nella regione del Mar Giallo.
 21/1/2011
 
Liu Huaqing, il sea power cinese e il confronto con gli USA, 21/1/2011 - Global Trends & Security

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Analista di politica e sicurezza internazionale, opero attualmente presso enti privati in Israele, Giordania, Stati Uniti e Venezuela. Ho svolto attività di consulenza sul terrorismo per organismi governativi e privati in Libano, Siria, Iraq, Afghanistan, Somalia, Egitto, Sudan, Etiopia, Eritrea, Libia, Tunisia, Niger, Messico e Brasile.

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18 febbraio 2022. Uscita del mio volume "Dalla paura all'odio. Terrorismo, estremismo e cospirazionismo", Tangram Edizioni Scientifiche. Trento. " Il volume è il risultato di analisi e operatività sul campo che l’autrice ha condotto negli ultimi due anni circa fenomeni globali legati all’eversione e al terrorismo, sia di matrice islamista jihadista che dell’ultradestra violenta. Vengono analizzati soggetti e dottrine in un contesto di evoluzione delle relazioni internazionali e dei nuovi conflitti ibridi e identitari, in cui il terrorismo è tattica dominante. Sono inoltre delineati i processi, personali e collettivi, di radicalizzazione sia religiosa che politica, da cui derivano educazione e cultura alla violenza. Queste ultime acquisiscono un ampio pubblico attraverso la rete internet, anche nei suoi meandri più oscuri e tramite forme di comunicazione, qui analizzate, che trovano ampio utilizzo da parte delle nuove generazioni di nativi digitali. A ciò si sono aggiunti i toni aggressivi delle più recenti narrazioni cospirazioniste, originate sia da eventi interni a Stati democratici occidentali che da quelli emergenziali da pandemia. A vent’anni dalla paura del terrore proprio dell’11 settembre 2001, si sta procedendo velocemente, quindi, verso un livore generalizzato, a tratti vero e proprio odio, da cui una cultura di violenza politica dai legami transnazionali e che mira all’eversione, con i relativi rischi per la sicurezza nazionale."

  • 24/03/2023 02:48 pm
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