Global Trends & Security Politica internazionale e Sicurezza, di Germana Tappero Merlo
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Lotta al terrorismo: terreno scivoloso per Biden, 13/11/2020

Lotta al terrorismo: terreno scivoloso per Biden, 13/11/2020 - Global Trends & Security

L’unico riferimento effettivo del pensiero di Joe Biden circa il terrorismo è riportato in un discorso fatto a luglio 2019 in New York, e in seguito con sparsi e vaghi riferimenti nel corso di interviste durante la campagna elettorale. Di fondo, e al momento, la nuova amministrazione  non avrebbe intenzione di trattare la questione terrorismo come ‘una minaccia esistenziale’ degli Stati Uniti, anche se, stando a Biden, non esiterebbe ‘a difendere gli americani e l’integrità dei loro interessi con l’uso della forza’. In pratica, ‘abbiamo il più potente esercito del mondo  e rimarrà tale’, e se le minacce dovessero arrivare da al-Qaeda e Stato Islamico (IS), la risposta sarà militare, ossia con droni e bombardamenti mirati. Insomma, non molto distante da quel ‘military dominant approach’  che già fu di Barack Obama. Quindi più un contrasto al terrorismo con l’uso di corpi speciali e intelligence che un approccio da contro-insorgenza, ossia l’ampio uso delle forze armate (per intenderci i  ‘boots on the ground’) com’ è stata la strategia posta in atto da George W. Bush in Afghanistan e Iraq contro al-Qaeda dopo l’11 settembre, e poi ripresa con alterne vicissitudini anche da Barack Obama in Afghanistan. Una strategia di contro-insorgenza che, anche nelle parole di Biden, si è rivelata decisamente molto costosa, troppo anche in termini di vite di soldati americani, dai risultati non sempre vittoriosi e certamente non immediati. Sicuramente, secondo Biden, è stata anche controproducente nella lotta al terrore, riferendosi al crescente antiamericanismo che le guerre al terrore avrebbero alimentato negli animi di molti musulmani. Porre fine quindi ai conflitti infiniti, in Afghanistan e Medio oriente, è l’obiettivo di Biden. Guerre che originano e alimentano il terrorismo. Ma il problema centrale, anche per un presidente americano, resta  quello di  comprendere la natura  mutevole della minaccia terroristica.

Nell’ottobre   del 2019,  in occasione dell’eliminazione del Califfo al-Bagdadi Trump aveva trionfalmente affermato che il terrorismo era stato sconfitto. Quel trofeo l’aveva fatto esultare, dopo anni di denigrazione dell’ operato di Barack Obama nell’operazione di eliminazione di Osama bin Laden nel 2011, perché il suo predecessore si sarebbe  limitato a dare  solo ‘vaghe indicazioni’, come riportato in un suo tweet di esaltazione del vero artefice di quel blitz, l’amm. William McRaven. Il gioco di squadra, d’altronde, non è certo una prerogativa della politica trumpiana, e lo ha dimostrato più volte. Ma Trump è incorso in un errore più grave: ha semplicemente ridotto l’intera questione di minaccia dello Stato Islamico alla pericolosità di al-Bagdadi. Banalmente ma pericolosamente per un presidente degli Stati Uniti, è   caduto nel tranello della ‘decapitation strike strategy’, ossia pensare che, eliminato il capo di un’organizzazione terroristica, la minaccia scompaia.

Peccato che non funziona con  un’IS che è soprattutto un progetto  identitario per un Islam radicale, intellettualmente molto vivo e pericolosamente vegeto, dove la sconfitta militare è importante ma non sufficiente. Perché all’IS  è necessario contrapporre anche una guerra culturale,  perché è Islamic State of mind, e quindi significa anche fare una guerra a quelle menti istruite nella violenza contro il ‘diverso da sé’ e con una visione distorta dell’Islam. Oppure, con un ragionamento più terra terra ma pragmatico,  come piace agli americani, la decapitation strike strategy non funziona con un’Idra a più teste come  il sedicente Stato Islamico che, sebbene senza più il suo potente  Califfo - sostituito da un personaggio di  pressochè nulla  carica carismatica -  è purtuttavia ancora in grado di agire militarmente in Iraq e Siria, senza parlare degli affiliati nel resto del mondo, dalle Filippine, Somalia, Nigeria, Libia, Yemen ed anche in Afghanistan. Tutto ciò perché è sempre un errore ridurre lo Stato Islamico ad un solo leader, come anche ridurre quell’intera organizzazione ad un marchio fermo, stabile. E’ invece una minaccia fluida, estremamente adattabile al contrasto che gli viene frapposto, tanto da aver cambiato strategia ancora una volta, l’ennesima dal 2014 ad oggi, per la propria salvaguardia.

Quello posto in essere oggi dallo Stato Islamico è infatti un nuovo terrorismo insurrezionale, con un ennesimo cambio di tattica, laddove invece che all’insorgenza della massa della popolazione musulmana contro i propri governi ‘infedeli’, l’IS si rivolge al singolo individuo come strumento di eversione. L’IS lo ha adottato in Iraq e Siria, lo ha esportato nei  territori controllati dai suoi affiliati in tutto il mondo e lo esalta ora anche per i suoi ‘soldati’ in Europa e nel mondo non musulmano, Stati Uniti compresi. E la rivendicazione dell’atto terroristico di Vienna ne è la prova più recente.

Biden sembra averne preso coscienza e ha sottolineato come gli Stati Uniti concentreranno la loro attenzione su al-Qaeda e IS, intese come minacce transnazionali, anche se il ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan, voluto da Trump e per ora non smentito da Biden, per molti osservatori significherà consegnare quel Paese ai talebani. I quali, poi, per tattiche e obiettivo finale, rimangono un gruppo di riferimento per il  terrorismo jihadista, con il rischio, quindi, che l’intero Paese centroasiatico ritorni ad essere uno ‘Stato’ terrorista.

E qui subentra un’altra grave questione. Trump ha sempre  legato la minaccia terroristica per gli Stati Uniti all’immigrazione (e anche alle malattie mentali, ma questo è  un altro discorso ancora), per cui bandire immigrati da certi Paesi islamici, allontanare quelli non in regola e diminuire i rifugiati avrebbe garantito l’America dai terroristi (e dai criminali). Biden sembra invece determinato a porre fine al bando dell’immigrazione e dell’entrata negli Stati Uniti di soggetti provenienti da Paesi musulmani che, con la questione del muro con il Messico, sono da considerarsi  misure ‘razziste e veramente in grado di minacciare la sicurezza americana’. Perché l’obiettivo di Biden è quello di  evitare che  al-Qaeda, IS ed altri gruppi affiliati continuino ad indicare quei provvedimenti come la dimostrazione che l’America è islamofobica, e che quindi odia l’Islam attraverso la sua gente. Lo Stato Islamico e organizzazioni  simili si diffondono in stati falliti, zone di guerra, territori occupati ed enclavi che si sentono vittime del governo centrale, ma anche là dove prospera un ampio risentimento contro i musulmani, che si riflette appunto nelle politiche di immigrazione, nei divieti culturali inflessibili (ad esempio contro l'hijab) e nelle azioni violente degli estremisti di destra. Lo Stato Islamico è la massima espressione della polarizzazione di questo risentimento. Ecco perché continuerà ad esistere fintanto che la polarizzazione sottostante rimarrà vigorosa.

Ma vi è un rovescio della medaglia, un’ulteriore sfida per Biden,  perché eliminare e non limitarsi a sospendere l’implementazione di quelle politiche volute da Trump di blocco dell’immigrazione, dai paesi musulmani così come dal confine con il Messico, può avere risvolti anche tragici. Significa dare fiato ai gruppi dell’estremismo di destra interni che detestano i musulmani al pari dei messicani, entrambi rei, a loro parere, di disordine, terrorismo e criminalità. Per loro l’esperimento di convivenza fra diverse etnie, il melting pot, è fallito, e l’alternativa è la secessione oppure sarà il disastro.

In pratica l’obiettivo di ripristinare l’ordine è venuto a mancare, per cui costoro si arrogano il diritto di ristabilirlo, per un sacrosanto dovere verso la comunità, soprattutto se quella bianca, antisemita, e con questo anche anti-islamica, americana. Ecco perché vi è il rischio, non così remoto, che la nuova amministrazione Biden si debba presto confrontare con quest’estremismo interno che come minaccia, per grandezza e radicalità, è ora decisamente maggiore di quella di un terrorismo arrivato in quell’11 settembre di circa vent’anni fa, dal di fuori del territorio americano.

 

13/11/2020

Chi sono

Chi sono - Global Trends & Security

Analista di politica e sicurezza internazionale, opero attualmente presso enti privati in Israele, Giordania, Stati Uniti e Venezuela. Ho svolto attività di consulenza sul terrorismo per organismi governativi e privati in Libano, Siria, Iraq, Afghanistan, Somalia, Egitto, Sudan, Etiopia, Eritrea, Libia, Tunisia, Niger, Messico e Brasile.

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18 febbraio 2022. Uscita del mio volume "Dalla paura all'odio. Terrorismo, estremismo e cospirazionismo", Tangram Edizioni Scientifiche. Trento. " Il volume è il risultato di analisi e operatività sul campo che l’autrice ha condotto negli ultimi due anni circa fenomeni globali legati all’eversione e al terrorismo, sia di matrice islamista jihadista che dell’ultradestra violenta. Vengono analizzati soggetti e dottrine in un contesto di evoluzione delle relazioni internazionali e dei nuovi conflitti ibridi e identitari, in cui il terrorismo è tattica dominante. Sono inoltre delineati i processi, personali e collettivi, di radicalizzazione sia religiosa che politica, da cui derivano educazione e cultura alla violenza. Queste ultime acquisiscono un ampio pubblico attraverso la rete internet, anche nei suoi meandri più oscuri e tramite forme di comunicazione, qui analizzate, che trovano ampio utilizzo da parte delle nuove generazioni di nativi digitali. A ciò si sono aggiunti i toni aggressivi delle più recenti narrazioni cospirazioniste, originate sia da eventi interni a Stati democratici occidentali che da quelli emergenziali da pandemia. A vent’anni dalla paura del terrore proprio dell’11 settembre 2001, si sta procedendo velocemente, quindi, verso un livore generalizzato, a tratti vero e proprio odio, da cui una cultura di violenza politica dai legami transnazionali e che mira all’eversione, con i relativi rischi per la sicurezza nazionale."

  • 24/03/2023 01:27 pm
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