E’ dalla repressione dei monaci buddisti e dalla loro “rivoluzione zafferano” del 2007 che Myanmar, o vecchia Birmania, non otteneva così tanto spazio sui mass media internazionali. La visita del capo della diplomazia statunitense, Hillary Clinton - la prima in 50 anni - e il suo incontro con il premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi, in cui sono state profuse parole di stima nelle missive di Obama, piene di speranze per il futuro dei rapporti fra i due Paesi, hanno nuovamente attirato l’attenzione dei commentatori e degli analisti di tutto il mondo. Per alcuni, infatti, essa ha avuto lo stesso significato storico di quella di Richard Nixon in Cina nel 1972, che pose fine a decenni di allontanamento nei rapporti fra Pechino e Washington.
Che questa nazione sia strategica non solo per il Sud-Est asiatico ma anche per l’intera gestione dei rapporti in Asia centrale fra grandi potenze, come Cina e Stati Uniti, è una scoperta un po’ tardiva dell’amministrazione Obama che, a un anno da fine mandato, in un impeto di rinnovate relazioni internazionali, ravviva con una buona dose di promesse e di strette di mano i propri rapporti con un’area da sempre appannaggio delle amministrazioni democratiche, ossia l’Asia orientale e il Pacifico.
Non è un caso che la visita del capo del Dipartimento di Stato americano segua di pochi giorni lo scambio di incontri fra i massimi vertici militari birmani con quelli politici cinesi, ossia il capo di Stato Maggiore gen. Min Aung Hlaing con il vice premier Xi Jinping. E che la superpotenza militare statunitense si muova attraverso il capo della sua diplomazia dimostra chiaramente come consideri Myanmar un possibile avamposto cinese da osservare con molta attenzione e valutare con estrema cautela per il futuro dei delicati equilibri orientali, in cui sono in ballo la sicurezza dell’ultimo baluardo alleato degli Stati Uniti nella regione, ossia l’India.
Myanmar – così venne chiamata la Birmania dai generali che presero il potere nel 1989, e che rimane Burma per Washington, proprio in segno di rottura con quel regime – è da anni nell’occhio del ciclone per via dei suoi stretti rapporti con la Cina e la Corea del Nord, in particolare per le loro forniture militari, a cui si aggiunge la violazione dei diritti umani, di cui la decennale detenzione di San Suu Kyi e la rivolta dei monaci sono state le espressioni più efferate e note all’Occidente. E quest’ultimo, attraverso le Nazioni Unite e l’Unione Europea, ha solo e sempre risposto con sanzioni ed embarghi che hanno finito per penalizzare la popolazione civile che, esausta, ha reagito al regime militare, subendo di conseguenza repressioni di volta in volta più crudeli, in un circolo vizioso che caratterizza da sempre questo tipo di interventi sovranazionali.
E che le sorti delle popolazioni civili siano una priorità asservita all’opportunismo politico del momento, vale anche per questa parte di mondo: anni di pacifiche manifestazioni in Occidente a sostegno della protesta di quelle genti non hanno scalfito il regime al potere ma nemmeno scosso i massimi vertici politici mondiali quanto il rendersi conto, da parte di Washington, che Myanmar-Burma poteva effettivamente giocare un ruolo strategico di primaria importanza nel rilanciare la potenza americana in Asia e Estremo Oriente.
Ma procediamo per punti. Stando alle dichiarazioni ufficiali di Hillary Clinton, gli Stati Uniti si sono decisi al grave passo di riavvicinamento a Myanmar in quanto desiderosi di aiutare il paese verso quel processo di riforme avviato dal governo centrale e per lo sviluppo di nuove e più proficue relazioni, in cui i diritti umani – coerentemente con il corso avviato dall’amministrazione Obama all’inizio del 2011 con il sostegno alle rivolte arabe - giocano un ruolo determinante per la rimozione delle sanzioni, la riapertura di relazioni diplomatiche, aiuti economici da parte del Fmi, e così via. La stessa liberazione di Aung San Suu Kyi ha fatto parte di un primo rilascio, da parte del governo centrale di prigionieri politici (200 dei 2000 presenti in quelle carceri); ma una seconda tornata è stata posticipata a data da definire.
Si tratta di cauti segnali del passaggio dall’isolamento all’apertura internazionale di Myanmar contraddistinto, tuttavia, da una circospezione rimarcata più volte nel corso degli incontri, in cui lo spettro delle relazioni con la Corea del Nord e l’interesse birmano per la sua tecnologia nucleare, aleggiavano minacciosi sul futuro dei rapporti fra Washington e Naypyidaw. Che poi la Clinton si sia anche affrettata a smentire che alla base di quegli incontri vi fosse l’intenzione statunitense volta a contenere l’influenza della Cina nella regione, lascia perplessi gli analisti anche alla luce della potente influenza di Pechino sui vertici militari al governo a Naypyidaw. E da una rapida osservazione dei rapporti fra queste due nazioni, emergono accordi, dati e traffici economici e militari che non possono che sconfessare il capo del Dipartimento di Stato americano.
Myanmar, infatti, è molto di più che violazione dei diritti civili. La sua posizione geografica e le sue caratteristiche geologiche fanno di questo Paese del sud-est asiatico una pedina strategica per la Cina, non solo come partner dell’Asean (5,3 miliardi di dollari il valore dei rapporti commerciali fra questi due paesi nel 2010 e 15,8 miliardi di dollari gli investimenti cinesi in Myanmar), ma soprattutto per la realizzazione di quel filo di perle che spinge Pechino a intessere rapporti con nazioni le cui coste sono bagnate da mari strategici.
Myanmar si affaccia sull’oceano Indiano e precisamente sul Golfo del Bengala: nelle sue acque territoriali, quindi a pochi chilometri dalla costa, Myanmar possiede riserve di gas su cui Pechino ha dimostrato interesse e per le quali, dal 2004, sta lavorando a un progetto con il governo centrale birmano per il loro incanalamento (12 miliardi di metri cubici l’anno) in un gasdotto che, unitamente a un oleodotto in grado di raccogliere il petrolio (12 milioni di tonnellate annue) destinato alla Cina e proveniente dal Medio Oriente e dall’Africa attraverso le navi cisterna ancorate nel porto di Kyaukpyu, raggiungono la città di Kunming nella regione cinese di Yunnan. Il greggio acquistato dalla Cina eviterebbe così il passaggio nel congestionato stretto di Malacca, con una riduzione di tempi di navigazione e di stoccaggio che risulta strategico anche per lo sviluppo di due altre regioni occidentali cinesi, Guizhou e Guangxi, con un tragitto totale, dall’oceano Indiano alla destinazione finale, di poco più di 2800 chilometri. Un risparmio di tempo e una maggior sicurezza che non potevano non essere considerati da Pechino.
Myanmar, quindi, rappresenta per la Cina un ulteriore sbocco alle acque dell’oceano più strategico per i propri interessi nei rapporti con l’Occidente e l’Africa.
Vi sono, poi, altre acque che giocano una partita ancora più importante per entrambi questi paesi: si tratta dei fiumi Mekong e Salween. Il primo nasce nell’altipiano tibetano cinese con il nome di Lancang e, passando da Myanmar, prosegue la sua discesa verso l’oceano attraverso Laos, Tailandia, Cambogia e Vietnam, con un tragitto di circa 5000 km. Il Lancang-Mekong , o Golden Channel, è uno dei fiumi più inquinati al mondo; sebbene cariche di arsenico, da quelle acque dipendono l’industria ma anche l’agricoltura e la pesca per 60 milioni di persone.
Il birmano Salween, nasce anch’esso in Cina con il nome Nu, sul cui corso Pechino ha in progetto una quindicina di dighe. A vedere la mappa della dislocazione di queste dighe dal territorio cinese a quello birmano lungo il Nu-Salween c’è da stupirsi di quanto la Cina abbia investito nella potenza delle sue acque per garantirsi l’energia necessaria al suo sviluppo. In un prevedibile effetto traino anche Myanmar ha deciso di investire pesantemente, con tecnologia e finanziamenti per la maggior parte cinesi, proprio nella costruzione di numerose dighe lungo il corso del suo Salween. Le manifestazioni di opposizione interne al Paese – sovente represse brutalmente dalle forze dell’ordine - e le innumerevoli critiche internazionali non hanno mai sortito alcun effetto sulla decisione del governo centrale birmano di realizzare quelle costruzioni. E la questione delle dighe sul Nu-Salween rimane confinata a semplici accordi commerciali fra Pechino e Naypyidaw.
Un ruolo diverso assumono, invece, le numerose dighe sul Lancang-Mekong.
L’impatto di questi impianti sul territorio cinese e i loro effetti sulla quotidianità delle popolazioni locali sono già stati devastanti: disboscamenti, scomparsa di microeconomie come la pesca e l’agricoltura lungo quelle rive, e relativa dislocazione di quelle genti verso centri urbani già sovraffollati e con poche opportunità lavorative, inquinamento e scomparsa di specie di pesci alla base dell’alimentazione di quelle genti, sono gli effetti più evidenti e ampiamente documentati dall’opposizione ai piani di Pechino. Inoltre, non mancano i timori espressi dai geologi circa il rischio sismico di molte aree bagnate da quelle acque.
Il Mekong, inoltre, il più lungo del sud-est asiatico e la maggior rotta fluviale dell’area di libero scambio dell’Asean, da alcuni anni è diventato un disaster prone area, a causa delle azioni di brigantaggio, rapimenti e traffico di droga a ridosso di tutto il suo percorso. E’, infatti, l’arteria principale di quel Triangolo d’oro (Myanmar, Laos, Tailandia e Vietnam) della produzione e traffico di droghe che fa di Myanmar una potenza di illegalità al pari delle aree afgane di coltivazione di oppio e di quelle pachistane per la sua lavorazione e lo smercio. La situazione è diventata così critica che Cina e Myanmar hanno deciso di comune accordo di far sorvegliare il tragitto sino-birmano da marinai cinesi in un’azione di pattugliamento che prevede la costruzione di presidi in grado di controllare e garantire la sicurezza di quel fiume. All’azione di vigilanza militare con proprie forze hanno aderito anche Laos e Tailandia, in modo da poter riprendere la navigazione dopo che era stata interrotta per via dell’uccisione di 13 marinai di un’imbarcazione cinese a inizio ottobre 2011.
Ma gli effetti a valle della costruzione delle numerose dighe cinesi e birmane sul Lancang-Mekong assumono una valenza politica ancora maggiore rispetto a quella economica.
E’ possibile, infatti, ipotizzare le conseguenze negative della riduzione del flusso di quelle acque verso i paesi a valle, così dipendenti dal Mekong per la sopravvivenza della loro agricoltura e della pesca, se tutti i progetti di dighe dovessero essere realizzati. Inoltre, l’acqua si rivelerebbe ancora una volta uno strumento chiave nei rapporti diplomatici fra la Cina e gli altri paesi rivieraschi, in cui Pechino gode la posizione privilegiata propria di tutti i Paesi a monte. A determinare, infatti, i rapporti fra Paesi rivieraschi è proprio la spartizione di risorse idriche che sembrano non essere più sufficienti di fronte all’aumento demografico e al conseguente innalzamento della domanda di derrate alimentari. E ciò vale non solo per le acque del Mekong, ma anche per quelle del Nilo o del Giordano, del Tigri e dell’ Eufrate e persino del Rio delle Amazzoni, in una condivisione di problematiche simili che è trasversale alla posizione geografica e che conferma il ruolo cruciale della water weapon nei rapporti fra Paesi costieri.
Infatti, da alcuni anni, vi sono tensioni fra Pechino e Laos, Cambogia, e Vietnam, proprio per queste dighe sul Lancang-Mekong, a cui si è sottratta Myanmar per una serie di accordi che prevedono, oltre al gasdotto e all’oleodotto citati più sopra, anche il massiccio intervento finanziario e tecnico di Pechino nella costruzione di una diga, quella di Myitsone sul fiume birmano Irrawaddy, la sesta più alta al mondo, e delle due dighe Dapein, sul fiume birmano Taping, destinate però tutte a fornire, per il 90% della loro potenza, l’ energia elettrica alla Cina.
In pratica, Myanmar accoglie la sete di energia della Cina, accettando dighe dalla potenza maestosa sul suo territorio in cambio di tecnologia e finanziamenti per altrettanti impianti idroelettrici, e per un gasdotto e un oleodotto i cui proventi per il loro passaggio garantiranno somme ingenti per lo sviluppo economico birmano.
Si realizza così, ancora una volta, quell’ hydropower che Pechino ha già abilmente trasformato in molte aree del mondo come hydrodiplomacy. La tecnologia e l’abbondante manodopera cinese utilizzata per la costruzione di dighe ha permesso alla Cina di imporsi a livello mondiale (di 48mila dighe al mondo, 22mila sono cinesi) in ogni dove Pechino può trarre beneficio con la fornitura di materie prime, dal gas al petrolio o ai metalli strategici. E una mappa degli impianti previsti o in fase di realizzazione in Africa e in Siberia da parte della Cina è sufficientemente esaustiva di questa politica, più comunemente definita Beijing consensus.
Myanmar, in perfetta condivisione dei piani economici e finanziari con Pechino, ne ha approfittato, concedendo tutto quanto richiesto dai vertici cinesi.
Tutte le altre considerazioni politiche, economiche, ma soprattutto militari fra questi due Paesi dipendono, infatti, da questi accordi sulla gestione delle dighe a ridosso del confine fra Cina e Myanmar e sul relativo controllo delle acque del Mekong birmano.
Infatti, il controllo delle acque sino-birmane e le dighe del Lancang-Mekong, così come la costruzione del colosso Myitsone e delle due Dapein, sono state e sono tuttora foriere di tensioni e conflitti fra governo centrale e popolazioni locali birmane. Si tratta di una vera e propria guerra civile fra forze ribelli delle regioni Kachin e Shan, entrambe al confine con la Cina, e il governo centrale di Naypyidaw, che ha già creato un flusso di profughi verso il confine cinese di oltre 26mila persone.
Il quadro strategico è fra i più complessi: a fare da sottofondo vi sono le rivendicazioni indipendentiste di queste due regioni birmane a ridosso della Cina, su cui, però, intervengono fattori strategici come i bisogni energetici cinesi, il desiderio di riscatto economico birmano, i traffici commerciali da e verso questa parte di sud-est asiatico e il resto del mondo, ma soprattutto la produzione e il traffico di droghe, in particolare gli oppiacei, verso il mercato cinese, e di cui Myanmar è il secondo produttore al mondo dopo l’Afghanistan.
L’area di maggior produzione birmana (il 94%) è proprio quella della regione Shan, a sud di quella Kachin, e ora controllata da gruppi paramilitari addestrati e alle dirette dipendenze delle forze armate regolari birmane (United Wa State Army) dopo che queste sono riuscite a sopraffare le forze ribelli. Da quel momento (2007) e con buona dose di corruzione, stando agli studi di organizzazioni come la Palaung Women’s organization – decisamente più attiva sul territorio rispetto ai funzionari degli organismi quali la Unodc - e pubblicati dalla Shan Herald Agency for News (SHAN) sono aumentate la produzione e la lavorazione di oppio birmano sia per anfetamine che metamfetamine (il 95% di quelle prodotte nel sud-est asiatico), in seguito distribuite principalmente nei mercati cinese, tailandese e australiano.
Dei 21.500 ettari del 2006-2007 dedicati all’oppio birmano, si è passati ai 28.500 del 2008, sino a quota 31.700 del 2009, e 38.100 del 2010, stando a quanto affermato dagli ultimi rapporti disponibili dell’ Unodc.
L’azione dei ribelli delle regioni Kachin e Shan si è andata, quindi, concentrando contro le forze alle dipendenze dell’esercito birmano che controllano la produzione, la lavorazione e, congiuntamente a organizzazioni criminali locali e regionali, anche il traffico di droghe, così come la difesa degli impianti di costruzione delle dighe. Ecco che queste ultime e l’oppio diventano i fattori chiave dell’economia e della sicurezza di Myanmar, così come della sua politica estera.
La costruzione della Myitsone è stata, infatti, sospesa per via del boicottaggio e degli attentati agli impianti che, elementi armati dell’etnia Kachin (il KIA, Kachin Indipendent Army) hanno condotto contro le aziende cinesi impegnate nella costruzione della diga. La risposta da parte delle forze militari birmane ha assunto più volte i caratteri di sanguinaria repressione, in quanto ad essere oggetto di ritorsione sono proprio le fasce più deboli della popolazione come le donne, a volte anche di etnia cinese, presente in questa regione al confine con la Cina.
La Cina, per salvaguardare i propri lavoratori e soprattutto i massicci investimenti delle proprie aziende, ha imposto al governo birmano di intervenire e imporre una soluzione pacifica che, visto il prolungarsi e l’imbarbarimento degli scontri, non sarà raggiungibile a breve.
Si è risolta, invece, nel nulla l’azione di contrasto dei ribelli contro il controllo della produzione di oppio da parte del governo centrale: il fallimento di progetti di piantagioni alternative, come il te, il tabacco, la gomma o lo zucchero, dovuto al forte aumento dei costi imposti dal governo per la loro coltura, ha indotto gli agricoltori birmani a concentrarsi sulla più proficua e meno rischiosa produzione di oppio. Essa permette loro il pagamento delle tasse ma soprattutto le tangenti ai militari, alle forze di polizia e ai funzionari governativi che, in ogni caso, quegli agricoltori sono obbligati a versare in una sorta di vessazione finanziaria continua, a prescindere dal tipo di prodotto coltivato.
Le entrate delle opium taxes sono diventate, per il governo centrale, così elevate da potersi permettere di non ascoltare le proteste e le richieste internazionali per stroncare quella produzione che, al contrario, continua ad ampliarsi ad altre regioni birmane, come Mandalya, Magwe, Sagaing, Arakan, Kayan e Chin.
Ciononostante, la maggior parte dei colleghi analisti è propensa più a concentrarsi sui rapporti fra Myanmar e Corea del Nord per un feeling nucleare che fa versare loro fiumi d’inchiostro, e facendo ipotizzare scenari da risiko tanto intriganti quanto impossibili, data la povertà di quel Paese per imbarcarsi in una avventura nucleare. E viene quasi il dubbio che si tratti solo di fumo negli occhi abilmente utilizzato per amplificare il ruolo strategico di Myanmar che effettivamente esiste, ma sotto un altro punto di vista, ossia quello del colossale e proficuo traffico di droghe verso l’Estremo Oriente.
Nel sud-est asiatico Myanmar è, infatti, per gli Stati Uniti un enigma quasi al pari del Pakistan. Anche se non alleato di Washington come Islamabad – e meno che mai coinvolto nel terrorismo islamico - questo paese ha assunto un ruolo chiave nei rapporti con la Cina, andando ad influenzare, per i motivi accennati in questa breve analisi, tutti i rapporti con il resto della comunità di quella parte di Asia. Come il Pakistan, Myanmar ha un ruolo chiave nel più potente dei traffici mondiali, quello delle droghe, con le inevitabili implicazioni economiche ma anche sociali che esso comporta.
E’ difficile non collegare il ruolo strategico del controllo del traffico di oppiacei con la posizione di Myanmar e dei suoi rapporti con la Cina e l’ affanno degli Stati Uniti per un avvio di quel paese verso un maggior sviluppo e una più ragguardevole democrazia. E tutto ciò dipende, che piaccia o no, dalla gestione delle acque di quei fiumi che nascono dall’altipiano tibetano e irrigano abbondantemente quella parte di mondo: la hydrodiplomacy cinese, con quelle acque e con quei presupposti economici e di sicurezza visti sino ad ora, si è insinuata nei morbidi flussi del Mekong e ora sta dettando le regole del gioco in quell’area asiatica così strategica anche per gli Stati Uniti.
I mezzi per condurre quella partita Pechino li possiede, e anche abbondantemente, certamente meno Washington, anche solo per distanza geografica e culturale e, elemento non trascurabile, per una mancanza di fondi che sta appesantendo il fardello americano del mantenimento di una supremazia politica, economica e militare sempre più a rischio quotidiano di spartizione fra nuove potenze emergenti, desiderose di riscatto, come la Cina, ma anche il resto delle nazioni del sud-est asiatico.
Le alternative per Myanmar agli accordi economici e finanziari con la Cina sono, infatti, quegli interventi di organismi come Fondo monetario internazionale e Banca mondiale che non sono più graditi a Myanmar come in molte aree del mondo (dall’America Latina a vaste regioni africane) perché troppo invasivi nelle proprie scelte politiche e oltremisura vincolanti nelle conseguenti relazioni internazionali.
Chi vede nell’avvicinamento degli Stati Uniti a Myanmar il tentativo americano di frantumare gli sforzi della Cina per assicurarsi le vie commerciali verso l’oceano Indiano, per accaparrarsi i porti per gli idrocarburi mediorientali e africani, e per garantirsi quel strategico accesso al mare con la costruzione di basi militari navali, deve però anche prendere coscienza che nessun Paese dell’Asean può permettersi di svilupparsi senza l’effetto traino della crescita cinese. E questa considerazione non gioca certo a favore di qualsiasi tentativo americano di insinuarsi in quei rapporti, per dividere e governare a proprio modo. Ancora una volta, a Myanmar si sta imponendo il confronto fra modelli di sviluppo, ossia tra un Beijing e un Washington consensus che passa attraverso gasdotti, dighe, traffico di droghe e diritti umani.
Ciò che turba gli analisti – o per lo meno, quelli più disincantati verso i grandi propositi democratici statunitensi - del complesso scenario del sud-est asiatico è, infatti, la presenza di fattori disgreganti, di cui la lotta armata di gruppi con rivendicazioni indipendentiste è l’espressione più forte e che va a coincidere con il controllo del potente e ricchissimo traffico di droghe. L’esperienza in Afghanistan e Pakistan è significativa al riguardo e, da decenni, costringe gran parte del mondo a fare i conti con i suoi principali protagonisti e a subire le conseguenze di un fenomeno, come la produzione di oppio, che non ha visto alcun indebolimento con quella guerra infinita; al contrario, i rapporti ufficiali confermano il suo rafforzamento, nonostante il conflitto e i buoni propositi di contrastarlo.
Allora c’è da chiedersi quanto peso abbia il controllo della produzione e del traffico di droghe anche nel nuovo corso dei rapporti di Myanmar con Washington: la minaccia nucleare è un stereotipato richiamo per allodole quando a disposizione vi sono mezzi, come gli oppiacei, dall’impatto sociale fortissimo in grado veramente di innescare un processo di disgregazione collettivo così complesso e rapido da portare all’inevitabile deterioramento dei legami fra gente comune e potere centrale. E’ ciò che la Cina volle fermare con la guerra dell’oppio nel XIX secolo e che la vide soccombere agli interessi e alla autorevolezza delle potenze europee, ma che segnò, per via di un forte sentimento nazionalista xenofobo, anche le rivolte di Taiping e dei Boxer e l’avvio verso la fine del Grande Impero Celeste .
Sono più che condivisibili i grandi progetti statunitensi sulla democrazia delle genti e sui diritti umani: c’è solo da chiedersi, proprio alla luce delle passate lezioni della storia, quanto gli Stati Uniti siano preparati a realizzarli in un’area che non li ha visti certo uscire vincenti da un lungo conflitto che ha segnato intere generazioni di americani.
I presupposti per intervenire pacificamente verso un cambiamento ci sono; sta a Washington non perdersi nella più abusata retorica dei diritti umani e della democrazia e continuare a commettere i soliti errori di valutazione e di azione, traendo spunto e insegnamento dalla sua decennale esperienza in Asia, dal lontano Vietnam al più recente Afghanistan. Solo così, forse, Washington potrà proporre una valida alternativa a quel Beijing consensus che tanto preoccupa il Dipartimento di Stato e lo affanna a ricercare sempre nuove alleanze e a progettare interventi, anche militari, che rischia oramai di non potersi più permettere.
5/12/2011