A leggere le cronache di quanto sta accadendo quotidianamente in Libano è come tuffarsi a capofitto nelle profonde e agitate acque di pagine di una storia vecchia di almeno trent’anni, dando la falsa illusione che in quella parte del Medio Oriente poco o nulla sia cambiato.
A dimostrare, infatti, esattamente il contrario, ecco apparire due navi da guerra iraniane nel Canale di Suez: non accadeva dal 1979, con gli accordi di Camp David fra Israele e Egitto e con la rivoluzione a Teheran, anche a sottolineare, ma non solo, la valenza strategica militare oltreché economica, di quel corridoio d’acqua che collega l’Oriente al Mediterraneo.
E proprio su quelle acque mediterranee che sembrano essersi posate le ambizioni iraniane, come se Teheran volesse dimostrare che la sua influenza fisica può estendersi non solo ai paesi suoi vicini (Siria e Iraq in testa), ma a tutto quell’universo sciita che, nel solo Medio Oriente che si affaccia sul Mediterraneo, si rifà a movimenti come Hezbollah e Hamas, ossia ai due elementi che più preoccupano Israele perché minacciano la sua sicurezza, rispettivamente a nord e a sud del suo territorio.
Le due navi da guerra iraniane sono una fregata, la Alvand, e una nave di supporto, la Kharq che – sostengono le autorità iraniane – non dispongono di armamento né nucleare né chimico, e il cui obiettivo è raggiungere la Siria per “esercitazioni atte a fronteggiare la pirateria somala nel Golfo di Aden”. Il Consiglio militare, che governa provvisoriamente l’Egitto del dopo Mubarak, afferma che ha concesso all’Iran il permesso di navigare nel Canale di Suez, in base agli accordi internazionali e nel rispetto di quelli con Israele; ma il tempismo di queste manovre navali ha sollevato le ire di Tel Aviv e qualche preoccupazione presso gli analisti.
Per chi conosce quella regione è inevitabile collegare l’azzardo dell’ azione iraniana a possibili ricadute su quanto sta accadendo in Libano, da anni oggetto di interesse ma soprattutto di influenza di una Siria più vicina ad un Iran che ad un’ Arabia Saudita filoamericana, e il cui premier sunnita Rafiq Hariri venne ucciso nel 2005 in un attentato le cui responsabilità, così come di numerosi altri che hanno sconvolto la nazione dei cedri fino al 2007, sono state imputate agli sciiti filoiraniani Hezbollah, rappresentati a larga maggioranza nel governo libanese.
Proprio l’uccisione di Hariri, obbligò Damasco ad allentare il suo controllo politico e militare sul Libano, quella pax siriana imposta per anni in seguito alla sanguinosa e complessa guerra civile, di cui il conflitto israelo-palestinese era stato nel contempo detonatore e catalizzatore.
Il Libano sta, infatti registrando al suo interno un aumento della tensione e - complice anche la complessa divisione dei ruoli istituzionali prevista dalla sua Costituzione e che rappresenta quell’antica contrapposizione confessionale fra gruppi religiosi – sta riproponendo i soliti noti nomi di veterani della scena politica che avevano infiammato la lotta per il potere in quel paese. Sono rimasti immutati, infatti, dopo trent’anni dalla guerra civile, le famiglie o i clan protagonisti di allora, come i cristiani maroniti Gemayel, Geagea e Frangieh, anche se quest’ultimo, a capo del partito Marada, stringe alleanze con l’ex generale Aoun, vicino, ora alla Siria e spalla degli Hezbollah, a cui si avvicina, con presenza altalenante fra i diversi schieramenti, il druso Walid Jumblatt.
Proprio l’istituzione di un Tribunale speciale internazionale, con il sostegno dell’Onu, per la definizione delle responsabilità nell’omicidio di Hariri, hanno portato alle dimissioni in massa degli esponenti Hezbollah da quel governo libanese di unità nazionale, che era stato garanzia di stabilità dal 2009. La decisione, a fine gennaio, del presidente libanese Michel Suleiman di eleggere, come primo ministro in pectore, Najib Mikati, sunnita, moderatamente filosiriano ma sostenuto da sciiti come Hezbollah e i drusi di Jumblatt, ha però pregiudicato il sostegno dell’altra anima sunnita, proprio quel Hariri, figlio del premier ucciso, che rivendica il diritto di decidere sul primo ministro al solo gruppo sunnita, senza altre interferenze.
Da questa contrapposizione, che vede fortemente divisi i sunniti, emergono elementi di preoccupazione per la stabilità interna libanese.
Vista in questi termini, tutta la vicenda sembrerebbe ruotare attorno ad un normale gioco di forze al potere in uno dei tanti paesi dell’area mediorientale, dove il fattore religioso incide più di quello ideologico – se ancora esiste e ha un valore – al contrario di quello che accade in altre realtà, come quelle, ad esempio, dei paesi occidentali.
In quel contesto regionale, tuttavia, e non è un mistero, proprio il fattore religioso, ed in particolare quando espressione di estremismi, ha un’incidenza decisamente superiore a quello ideologico: ecco perché la presenza delle navi iraniane si trasforma in un elemento fortemente destabilizzante, che va ad alimentare quella precarietà dello scenario politico dovuto alle rivolte che stanno scuotendo il Nord Africa e che possono accrescere la vulnerabilità del Libano e, di conseguenza, la preoccupazione di Israele, perché nazione confinante ma soprattutto l’antagonista per eccellenza dell’estremismo iraniano sciita.
Bisogna, infatti, fare dei distinguo importanti, che fanno la differenza e che confermano le preoccupazione di molti analisti.
Se il Libano si ribella, la sua rivolta non ha nulla a che vedere con quanto fino ad ora è accaduto a Tunisi, al Cairo, ad Algeri o a Tripoli. Non vi è un despota da rimuovere e quella nazione conosce già, seppur fra mille tormenti, o proprio in virtù di essi, cos’è la democrazia. Il pericolo per la destabilizzazione del Libano viene da altri fattori, più complessi e propri della sua travagliata storia di ex colonia, a cui si sono aggiunti elementi regionali più devastanti, come il conflitto israelo-palestinese, dapprima e, in seguito, la sua guerra civile.
A parte le zone ricche di Beirut, infatti, il Libano sembra non aver superato i suoi atavici problemi sorti per effetto dei lunghi anni di guerra civile, come la disoccupazione giovanile, l’assenza dello Stato nei servizi pubblici come l’istruzione e la sanità, indispensabili per una vita decorosa: una situazione di abbandono e di precarietà economica che alimenta quella cultura delle milizie ereditata dalla guerra civile e da quel fragile equilibrio che ne è nato, la cui continuità sembra essere diventata essa stessa il fine ultimo dell’intera azione dei politici libanesi al potere.
Si tratta di milizie legate a gruppi islamici che si sono sviluppati enormemente con l’allentarsi del controllo siriano sul Libano e che hanno costituito l’unica alternativa all’immobilismo economico e sociale del governo centrale, in particolare verso le periferie del paese. Tuttavia, e non è una novità nella storia politica e militare di quella regione, le milizie sono espressione di un clientelismo verso potenze esterne che usano conflitti locali per confrontarsi sulla loro influenza e che vedono protagoniste la Siria piuttosto che l’ Arabia Saudita, o un Iran anziché qualsiasi altra nazione che abbia interesse a destabilizzare per meglio controllare militarmente un’area strategica del Mediterraneo o per attrarre un importante supporto esterno, che venga da Stati Uniti o dalla Russia o dai nuovi protagonisti della scena mondiale.
Secondo fonti di intelligence israeliane, quelle navi, dirette in Siria o addirittura a Beirut, sarebbero infatti cariche di armi per gli hezbollah libanesi e sono poco credibili le giustificazioni siriane che parlano di manovre congiunte per arginare gli attacchi pirateschi somali.
Infatti, è proprio Israele ad accusare l’Iran di sfruttare la crisi egiziana per aumentare la sua influenza in Medio Oriente, partendo però dal bacino mediterraneo, ossia da quelle acque che, al momento, sembrano sopportare maggiormente il peso delle rivolte in Nord Africa, con i loro flussi di barconi di disperati e quella presenza militare iraniana che riporta il Mediterraneo a quel ruolo strategico, specifico degli anni della guerra fredda, di fianco sud dell’Alleanza Atlantica.
Quanto sta avvenendo in Nord Africa, in particolare con la caduta di Mubarak e la fine di ogni remora da parte del governo provvisorio militare egiziano alle manovre siriane ed iraniane, sembra rafforzare, infatti, l’asse Damasco-Teheran a scapito di quello Washington-Tel Aviv, quest’ultimo fortemente penalizzato dall’insicurezza che sovrasta la sorte della dinastia saudita.
Il mare Mediterraneo diventa così “territorio” di contesa per innumerevoli obiettivi strategici che riportano al controllo di traffici economici e commerciali, quelli che passano per Suez o si concentrano – come le fonti di gas – nel delta del Nilo; ma è anche testimone di lotta per il dominio di territori che vi si affacciano, come il Sinai, cuscinetto strategico fra un Egitto instabile e un Territorio palestinese come Gaza, perennemente in fermento e pronto ad esplodere. Senza contare che, sulle sue acque, si affaccia una Turchia, dall’animo musulmano e dalle ambizioni europee, così vicina territorialmente alla Siria e all’Iraq da risentirne dei flussi di cambiamento politico.
Proprio nel Mediterraneo, quindi, e con le rivolte di questi mesi, si sono moltiplicati i fattori in grado di influenzare la sicurezza dei paesi lambiti dalle sue acque: le materie prime, i flussi migratori, il rischio di proliferazione di armi chimiche e nucleari, sono solo una parte della posta in gioco di una competizione regionale a cui a partecipano, però, tutte le potenze mondiali, anche le più lontane e in apparenza estranee, come la Cina che, non solo è presente nelle acque antistanti al Golfo di Aden – sempre per il contenimento dei pirati – e all’imbocco di un Mar Rosso egiziano, ma è fortemente attiva nel Sudan del Nord, come in gran parte del continente africano.
Riprende così quota un concetto come “minaccia da Sud” che non è più un fenomeno definibile chiaramente perché proveniente da qualcuno e diretto contro qualcun altro: si tratta, ora, di un insieme di rischi che provengono da un ambiente instabile, con l’aggravante – chiaramente evidenziata dai recenti fatti in Nord Africa – di un’ imprevedibilità propria degli eventi, per cui non si può dire in anticipo se e quando questi ci investiranno e da quale direzione.
A tutto ciò fa da contraltare l’assenza di un’ unitarietà nella politica estera dell’Unione europea, la più grande regione politica ed economica che si affaccia su quelle acque; o peggio, la sua frammentazione di posizioni è più espressione dell’assenza totale dell’Europa e della sua assoluta irrilevanza politica e diplomatica.
Si aspetta che intervenga un Consiglio di Sicurezza di un organismo, come le Nazioni Unite, imbrogliato nella sua stessa complessa matassa diplomatica che lo trasforma in un elefantiaco ed inutile consesso per nulla in grado di incidere su quanto sta accadendo perché vincolato, suo malgrado e contro la sua stessa natura, a interessi troppo esclusivi ed espressione di poteri particolaristici.
La stessa guerra intrapresa da Israele nel 2006 a sud del Libano ha imposto la presenza della missione Unifil 2 dei 15.000 Caschi Blu - e a cui partecipa anche l’Italia – che sembrava assicurare Israele da possibili minacce a sud del fiume Litani. Con quanto sta accadendo, nelle acque antistanti alla Siria, e da quell’area al resto del Mediterraneo, è inevitabile, però, che nascano dubbi sulla tenuta della missione nel garantire la sicurezza di Israele nell’eventualità di un aumento delle tensioni all'interno del Libano.
Ma sarebbe troppo lungo disquisire sull’efficacia di queste missioni; vi sono altri avvenimenti che necessitano urgentemente di un’attenzione improrogabile e di un’azione tempestiva che, però, sembra ingarbugliarsi nei meandri più tortuosi di un’ esplicita inefficienza diplomatica europea che, con arroganza, riduce il complesso scenario mediterraneo ad un problema di rilevanza solo ed esclusivamente di paesi, come l'Italia, più esposti nel suo bacino meridionale.
23/2/2011
Nella foto (Press Tv) la fregata iraniana Alvand
23/2/2011
Nella foto (Press Tv) la fregata iraniana Alvand