Per una volta a fare la differenza per la comprensione di quanto potrebbe accadere nell’ Egitto del dopo Mubarak emergono fattori cruciali che non riconducono solo ed esclusivamente alle forniture di greggio e gas o al rischio del fondamentalismo islamico, ma a due corridoi d’acqua, il Nilo e il Canale di Suez, così strategici da aver già scritto pagine e pagine di storia.
Al Nilo è legata la storia millenaria dell’Egitto, mentre al Canale quelle vicissitudini anche belliche più vicine negli anni; dal primo dipendono lo sviluppo e la sopravvivenza della nazione, dal secondo derivano notevoli introiti da un traffico marittimo che ha un’incidenza sull’economia mondiale pari, se non addirittura superiore, a quella di Panama.
Oltre una ventina di anni fa, l’allora ministro degli esteri egiziano Boutros Boutros-Ghali ebbe ad affermare che “la sicurezza nazionale dell’Egitto è nelle mani di almeno otto paesi africani”, con chiaro riferimento a quelle nazioni in cui scorre il Nilo. E già nel 1995 il Cairo aveva pianificato un raid aereo –annullato all’ultimo momento - per bombardare Karthum che aveva annunciato la costruzione di una diga a monte del Grande fiume. Insomma, due soli aspetti di complesse relazioni che hanno dato vita ad una vera e propria water diplomacy.
Lungo il Canale di Suez, invece, un corridoio di 160 km tra Mediterraneo e Mar Rosso, già oggetto di una crisi diplomatica e una guerra memorabile, passa il 10% del commercio internazionale e il 4,5 % della produzione mondiale di greggio.
Questi due binari d’acqua paralleli hanno, quindi, una valenza geostrategica che coinvolge la politica e l’economia di un’ampia fetta di Africa orientale: il Nilo, con i suoi 6700 chilometri, interessa Burundi, Ruanda, Tanzania, Uganda, Repubblica Centroafricana, Kenya, Etiopia, ma soprattutto Sudan ed Egitto, appunto; mentre il Canale di Suez permette all’ Europa di immettersi nel Mar Rosso e da qui, sfiorando Yemen e Somalia, di raggiungere direttamente il Golfo di Aden, ossia la porta d’accesso all’Asia e al resto dell’Africa orientale.
Lungo il Nilo egiziano si concentra l’intera economia produttiva della nazione: oltre al turismo, vi sono industrie pesanti, per la lavorazione di acciaio e alluminio, l’assemblaggio di manifatture d’auto e di armamenti, fabbriche tessili, chimiche e per la raffinazione del petrolio, a cui si aggiungono depositi di greggio e ferro, mentre nell’area offshore del suo Delta l’Egitto ha scoperto di recente ricchi giacimenti di gas. Dal Nilo dipende l’agricoltura, ma anche le turbine delle centrali elettriche situate presso la diga di Assuan. In pratica, un paese desertico al 98%, dipende per il 95% del suo fabbisogno idrico dalle sole acque del Nilo.
Lungo Suez, e secondo le ultime statistiche disponibili sul suo traffico marittimo (2009), vi transitano oltre 17mila navi l’anno (a Panama, lo stesso anno poco più di 14mila), responsabili dell’8% del trasporto delle merci nel mondo, con un valore di 7 milioni di dollari al giorno, diventando così la terza fonte di ricchezza dell’Egitto, dopo il turismo e il gas.
Inoltre, dal canale dipende, manco a dirlo, il tracciato di oltre 200 km dell’oleodotto SuMed (Suez-Mediterraneo), e dalle petroliere transitano 1,7 milioni di barili al giorno, ossia il 4,5 % delle forniture mondiali di greggio e il 14% del gas.
Gli avvenimenti di piazza Tahrir hanno sollevato preoccupazione presso gli analisti sul futuro dell’Egitto, in particolare per le conseguenze politiche delle prossime elezioni e la possibilità che il Paese cada in mano di forze radicali islamiche, con le inevitabili preoccupazioni di numerose realtà regionali, fra le quali Israele. Tuttavia, non possiamo sottrarci dal considerare anche le possibili ripercussioni di quegli avvenimenti su alcuni aspetti economici, fortemente dipendenti dalla garanzia di stabilità del futuro governo centrale egiziano, come appunto la continuità in tutta sicurezza del traffico marittimo lungo il Canale di Suez e la pacifica collaborazione regionale nella gestione delle acque del Nilo.
Già nel 2004, i paesi rivieraschi del Grande fiume avevano minacciato di rimettere in discussione il trattato con l’Egitto del 1959 (un aggiornamento del vecchio accordo del 1929) che ne regola lo sfruttamento delle acque ad esclusivo vantaggio, però, del Cairo (il 55%, e al Sudan il 22%). Si tratta, infatti, di un accordo fatto sotto gli auspici inglesi, quando l’Africa, da Suez al Capo di Buona Speranza, era sotto l’ala protettrice della Gran Bretagna, e che ha garantito all’Egitto sfruttare al massimo i suoi diritti su quelle acque, sebbene circondato da una trascuratezza globale favorita dal lungo percorso avviato dagli altri Stati rivieraschi per l’indipendenza politica e lo sviluppo economico.
Il calo della portata di acqua del fiume, in seguito ai cambiamenti climatici (diminuzione delle piogge e estensione della desertificazione), e l’aumento demografico vertiginoso registrato in quella regione, senza un adeguamento degli accordi per lo sfruttamento da parte degli altri paesi rivieraschi, hanno alimentato le tensioni fra questi ultimi e l’Egitto.
Il Sudan, in particolare, in cui la presenza economica e finanziaria della Cina è andata consolidandosi dopo l’embargo imposto dagli Stati Uniti a quel paese per il prolungarsi del conflitto in Darfur, sta procedendo alla costruzione di almeno 5 grandi dighe, è già in attrito con l’Etiopia – in cui nasce il Nilo Blu e alimenta l’86% del volume delle acque nel Nilo in Egitto - che rivendica anch’essa il diritto di costruire sbarramenti per proprio uso idroelettrico e per l’irrigazione. Lo stesso accade per la Tanzania.
E proprio nei progetti di nuove dighe a monte del Nilo, in cui gioca un ruolo strategico una massiccia partecipazione finanziaria della Cina, che si gioca il futuro economico della regione e quella stabilità politica di una delle aree più a rischio del continente africano. Il nodo cruciale dell’intera questione risiede nelle decisioni del governo centrale sudanese: proprio a Khartum, infatti, il Nilo bianco e il Nilo Blu si uniscono per poi proseguire congiunti lungo tutto l’Egitto. E il Sudan ha in progetto la costruzione, nell’area verde a nord della capitale, di una serie di dighe in grado di limitare enormemente la portata d’acqua al resto del tragitto egiziano.
Una di queste, la diga Merowe, è già stata completata due anni fa, con la partecipazione di aziende cinesi, francesi e tedesche, e rappresenta il più importante progetto idroelettrico africano. Ha, infatti, raddoppiato la disponibilità di fornitura di energia elettrica al Sudan, sebbene a un costo sociale di oltre 50mila persone (i Nubia, a suo tempo già penalizzate dalla costruzione della diga di Assuan) allontanate dall’area interessata al progetto, sollevando poche rimostranze internazionali.
Queste opere, se e quando completamente attuate, rischiano, quindi, di travolgere l’economia e, di conseguenza, la stabilità politica e sociale dell’Egitto: il Nilo si trasforma così in una questione di sicurezza nazionale.
L’Egitto ha mal utilizzato il suo monopolio, sprecando la grande disponibilità di acqua della diga di Assuan: la salinizzazione della terra e l’aumento della sua popolazione hanno ridotto la disponibilità idrica per abitante dai 922 metri cubici del 1990 ai 335 previsti per il 2025. Ma quel che è peggio, l’Egitto moderno non ha saputo trarre insegnamenti dal suo passato e ha permesso che una cattiva gestione di quella ricchezza, gratuita ma sprecata, trasformasse l’antico granaio dell’impero romano nel quarto importatore di grano al mondo (per un valore di oltre 2miliardi e mezzo di dollari annui).
L’incapacità del vecchio regime di Mubarak di trovare un accordo equo sulla ripartizione delle acque del Nilo e la sua convinzione che solo una guerra avrebbe potuto mutare lo status quo nella loro gestione potrebbero, ora, ritorcersi contro ad un Egitto ancora instabile e dal futuro politico molto incerto.
Il 31 maggio 2011, infatti, è il termine previsto per l’entrata di nuovi Stati al Cooperative Framework Agreement del Nile Basin Initiative che si propone, sotto gli auspici della Banca Mondiale e di alcune agenzie delle Nazioni Unite, di regolamentare appunto la gestione delle acque del Nilo fra tutti i paesi rivieraschi, a cui dovrebbe partecipare anche il nuovo stato del Sud Sudan. Una risposta sovranazionale agli accordi internazionali separati di molti paesi, anche europei, e la Cina, in particolare, con singole entità africane, in particolare il Sudan che non riconosce, come l’Egitto, l’iniziativa della Banca Mondiale. Senza questi due protagonisti, tuttavia, risulta abbastanza improbabile raggiungere un accordo utile e duraturo.
Rimane un ulteriore interrogativo che riguarda l’altro grande protagonista dell’economia egiziana, ossia il Canale di Suez. Sebbene gran parte delle compagnie marittime sia ormai dotata di navi cargo in grado di circumnavigare il continente africano, una sua chiusura, come misura precauzionale in seguito all’incremento dell’instabilità politica interna egiziana, porterebbe ad un innalzamento vertiginoso del prezzo del greggio, come già accadde dal 1967 al 1975 in seguito alle guerre arabo-israeliane, che obbligarono le petroliere a circumnavigare il Capo di Buona Speranza. I costi elevati dovuti all’aumento dei giorni di navigazione e delle relative assicurazioni andrebbero ad incidere pesantemente sulle produzioni industriali e di conseguenza sull’economia internazionale. Lo stesso accadrebbe con un blocco dell’attività dell’oleodotto SuMed.
La chiusura del Canale porterebbe quindi a danni irreparabili all’economia, in particolare a quella europea - non proprio in perfetta forma dopo i tracolli finanziari del 2008 – con effetti pari se non maggiori di quelli avuti con l’intensificarsi dell’azione dei pirati nel Golfo di Aden, che ha imposto una presenza massiccia di forze navali multinazionali a sostegno della sicurezza della navigazione marittima. Come nel caso dei primi attacchi pirateschi – in parte contenuti, ma a costi finanziari elevatissimi – una chiusura del Canale avrebbe un impatto a cascata sui prezzi delle materie trasportate, e non solo il greggio, ma anche beni alimentari, manufatti e quant’altro navighi attraverso i container dall’Asia all’Europa, e viceversa.
Non è un caso, infatti, che ai primi segnali di rivolta, lo Stato Maggiore egiziano abbia rafforzato misure di controllo militare lungo tutto il Canale e gli Stati Uniti abbiano dimostrato la loro preoccupazione attraverso le parole del gen. James Mattis,al comando dell’United States Central Command e responsabile delle operazioni militari nella regione.
Secondo l’alto ufficiale statunitense, se necessario, gli Stati Uniti si sentirebbero in dovere di considerare “diplomaticamente, economicamente e militarmente” l’eventuale chiusura del Canale per motivi di sicurezza, sebbene si possa concepire quella chiusura come un’ipotetica misura estrema.
In quest’ottica debbono intendersi gli spostamenti della V Flotta statunitense verso il Canale, segnalati già alcuni giorni fa da fonti di intelligence israeliana, e posizionata ad Ismailia, per un più facile accesso alla capitale egiziana e alla penisola del Sinai. Le stesse fonti parlavano anche dell’intenzione dello Stato Maggiore israeliano di occupare militarmente il “Philadelphia corridor”, ossia quella striscia di 14 km di confine fra Egitto e Gaza, per fronteggiare eventuali ondate migratorie verso i Territori palestinesi e Israele dovute all’incertezza politica egiziana. Le stesse fonti sottolineavano, tuttavia, dubbi circa la possibile tenuta dello Tsahal nell’eventualità di un’apertura di un fronte di guerra nei confini meridionali di Israele.
Se l’eventualità di un conflitto nel Sinai, come risultato dell’aumento dell’instabilità politica egiziana, unito a possibili fermenti a Gaza, risulta remota, rimangono, comunque, fondati timori circa la sicurezza dei depositi e delle raffinerie di greggio ubicate lungo il Canale. La loro vulnerabilità è data dalla loro appetibilità come obiettivi di attacchi terroristici.
Le conseguenze economiche più immediate della rivolta egiziana e della caduta del regime di Mubarak si registrano, per ora, solo all’interno dell’Egitto: forti dimostrazioni, astensioni dal lavoro di ampie categorie di lavoratori e dipendenti che reclamano maggiori retribuzioni, e soprattutto l’assenza di turisti, stanno mettendo a dura prova l’economia di uno fra i più popolosi paesi arabi del Mediterraneo, con una perdita giornaliera di oltre 300 milioni di dollari al giorno e una previsione di diminuzione di crescita dal 5,3 al 3,7 % nel 2011.
E’ sulla stabilità politica ed economica di quella nazione che poggiano anche le opportunità di ripresa anche per i Paesi europei: oltre al rischio di ondate migratorie incontrollate di disperati lungo tutto il Mediterraneo, il blocco delle forniture di petrolio e gas, così come dei prodotti alimentari e manufatti trasportati dai cargo di tutto quel mondo che passa attraverso il Canale di Suez, fanno sì che quanto sta accadendo in Egitto non sia un problema interno a quella nazione ma dell’intera comunità internazionale.
E’ necessario prendere coscienza di questo fatto, così come della fragilità di quella regione dell’Africa orientale interessata alla gestione delle acque del Nilo, così appetibili perché insostituibili per le opportunità di sviluppo e crescita di nazioni africane fra le più povere al mondo e già stressate da anni di guerra, come il Sudan, o da interventi finanziari sovranazionali inconcludenti.
Il futuro della water diplomacy legata alle acque del Nilo e a quelle del Canale di Suez non dipenderà, comunque, solo da quanto accadrà nei prossimi mesi in Egitto: chi governerà al Cairo dovrà necessariamente giungere ad accordi stabili e duraturi con chi già governa il Sudan, l’Etiopia, la Tanzania e tutti quei paesi water stressed che hanno affidato alle acque del Grande fiume tutte le speranze di sviluppo e di crescita.
In pratica, il popolo egiziano dovrà decidere per il proprio futuro economico anche in base a inclinazioni politiche e religiose dei propri rappresentanti che possano sortire un gradimento globale regionale, dato che è anche a monte del Nilo che si definisce il destino di questa nazione per la sua quasi totalità desertica.
Una maggiore valenza mondiale è data, invece, alla pacifica navigazione lungo il Canale di Suez, tanto cruciale quanto la sicurezza dell’altro punto d’accesso al Mar Rosso, quel Golfo di Aden minacciato dalla pirateria marittima, ma soprattutto dalle vicissitudini interne di due nazioni strategiche, come lo Yemen e la Somalia, non certo immuni da fattori destabilizzanti e da irrisolti conflitti interni.
16/2/2011