Non è la solita guerra quella che si sta combattendo fra israeliani e palestinesi. Non è nemmeno una nuova intifada. Solo le parti contrapposte sono le stesse, con lo stesso squilibrio nel numero di vittime. Per il resto, invece, è tutto inedito.
È quella rete di tunnel, dopo gli edifici di comando e di propaganda, oltre che le prestigiose residenze dei capi di Hamas, ad essere oggetto degli ultimi e pesantissimi attacchi da parte dell’IAF, le forze aeree ebraiche. È la battaglia in superficie di quella che è da parecchio tempo considerata la ‘underground warfare’, combattuta fra quegli estremisti di Gaza e le forze di contrasto ebraiche. Il risultato è una Gaza che sprofonda nel suo sottosuolo, in quell’intreccio di tunnel costruito con il supporto di ingegneri di Hezbollah, ormai considerati mastri in quella tecnica e responsabili nel rendere il sottosuolo del Vicino oriente una sorta di gruviera, dal Libano sino al confine fra Siria, Iraq e Turchia. Una rete in Gaza costata milioni di dollari, con finanziamenti provenienti da ignari aiuti umanitari internazionali e quelli, più consapevoli, dell’Iran. È storia nota. È storia quotidiana in questa parte di Medio Oriente.
La convivenza dimenticata tra arabi-israeliani e israeliani
Questa guerra non è nemmeno una nuova Intifada. Potrebbe diventarlo, oppure no. Si tratta di un’etichetta per uno scontro che richiede una vasta partecipazione che, per ora, pare non esserci, mentre l’intensità e la diffusione geografica degli scontri fra cittadini arabi-israeliani (circa il 20% della popolazione e discendenti dei palestinesi che rimasero nel paese dopo la guerra del 1948) ed israeliani in luoghi come Lod, Ramla, Acri, Jaffa, Nasiriyah, sino addirittura Tiberiade e Haifa, è del tutto inconsueta. Luoghi in cui la coesistenza fra le due anime di quel Paese era addirittura un modello, anche se con disagi quali droga e povertà fra i più giovani. Una pacifica convivenza che si era rinsaldata nel corso dell’emergenza da pandemia, abituandoci a scene di quotidiana collaborazione e sostegno reciproco fra medici, infermieri, paramedici e forze politiche ed economiche locali di entrambe le parti.
Che cos’è successo allora? Questa nuova guerra, che potrebbe diventare civile a tutti gli effetti, ha un fondamento negli estremismi di entrambi. Minoranze aggressive, ostili, restie già alle rigide regole del lockdown (una lotta quotidiana da parte delle forze di polizia a far indossare le mascherine agli ebrei haredi, quelli ortodossi, per capirci, o per il divieto di assembramenti e il rispetto, anche lì, del coprifuoco) e che fanno capo a giovani dell’estrema destra ebraica, come Lehava, oppure teppisti del calcio noti come La Familia (tifoseria più calda e razzista del Beitar Gerusalemme) e gruppi di coloni che, tutti costoro rigorosamente vestiti di nero e al grido ‘morte agli arabi’, decisi a vandalizzare e linciare, seminano terrore. Messaggi sui social che invitano i propri sostenitori a recarsi a Jaffa dove vengono indicate le strade in cui potrebbe essere possibile entrare nelle case arabe e pugnalare gli occupanti, approfittando della poca polizia presente. Una lacuna a cui il ministero della Difesa, guidato dall’ex generale e vice primo ministro Benny Gantz, ha provveduto colmare con ‘un rafforzamento massiccio’, inviando forze di frontiera a presidiare quelle strade.
Violenza e linciaggi, brodo di coltura degli estremisti di destra ebrei
Non da meno, insieme alle notizie provenienti da Gaza, questi fatti alimentano reazioni di arabi-israeliani. Così è accaduto a Lod, ad esempio, dove si è assistito alle scene più violente tra cui l’accoltellamento di un ebreo mentre si recava alla sinagoga, ma anche tentativi di linciaggio, da cui reazioni convulse, con vittime i più deboli, bambini e donne, anche fra gli stessi arabi. Da parte israeliana, un fattore chiave di responsabilità in ciò che sta accadendo è stata la crescente normalizzazione, per un lungo periodo di anni, dell’estrema destra, in cui leader come Benjamin Netanyahu e Avigdor Lieberman hanno usato la politica del razzismo per fare appello agli elettori, creando aperture politiche a figure più estreme. Questo, secondo osservatori anche israeliani, ha permesso a gruppi violenti di estrema destra di prosperare.
Un Paese con un governo di transizione, dopo la quarta tornata elettorale in due anni, e che stava per sperimentare un maggior coinvolgimento del mondo politico arabo-israeliano, dapprima con il supporto esterno – ma era comunque un inizio – e poi in un governo di centrosinistra, con la partecipazione di 4 deputati del Partito Arabo Unito di Mansour Abbas. Sembrava, quindi, che vi fosse la possibilità di un maggior coinvolgimento degli arabi-israeliani nella politica, anche con il benestare dello stesso Netanyahu, forse come estremo appiglio per ottenere ancora sostegno e sopravvivere al potere, nonostante i suoi problemi con la giustizia. Quei razzi da Gaza, ma ancor prima le proteste per il quartiere di Shimon HaTzadik (Sheik Jarrah) e, da sempre, i disordini nella spianata delle moschee, e poi di nuovo i razzi, i bombardamenti in risposta, sino ai linciaggi e alle devastazioni sui civili, hanno fermato il tutto, in nome dell’unità per l’emergenza.
Difficile ora pensare di tornare indietro. È la politica che sbaglia, da entrambi i fronti e nei loro massimi vertici. Non è la loro gente, la cui maggioranza, e da tempo, mostra segni di voler voltare pagina. Sono presenti, numerosi, ogni giorno, nella quotidianità della vita in Israele. Basta volerli vedere e non temerli. Sono l’unica arma vincente contro gli estremismi, di entrambi, e basta crederci.