Le guerre di Obama. Le guerre di Bush. Molte volte i due ultimi presidenti sono stati accostati in un paragone (per molti) impietoso e che è diventato pressoché scontato. Di certo Obama ha posto, e sta ponendo fine, a guerre iniziate da G.W. Bush, come quella in Iraq e quella in Afghanistan, tanto sofferte e odiate, ma non certo concluse in quei territori, e meno che mai vinte dagli Stati Uniti. E la sua posizione, in favore della pace, l’ha ribadita nel suo discorso inaugurale del suo secondo mandato “Crediamo che una sicurezza e una pace durature non richiedano una guerra permanente”.
Di sicuro, rispetto al suo predecessore, il presidente Obama ha cambiato approccio ma non ha certamente posto fine all’impegno bellico statunitense: la sua amministrazione, infatti, sta conducendo azioni militari al di fuori degli scenari di guerra dichiarata e più conosciuti, anche perché il nemico da combattere rimane quella minaccia terroristica che si rifà ad al Qaeda, nelle sue innumerevoli sigle e realtà geografiche. Allora, forse, quel passaggio del suo discorso è più un chiarimento e l’ennesima nuova definizione di come potrebbe evolversi la guerra del suo secondo mandato, non certo – e non bisogna illudersi al riguardo – la fine delle responsabilità militari della superpotenza americana.
Infatti, e si sa, l’impegno militare statunitense è drasticamente aumentato con la presidenza di Obama: non si tratta di un maggior impiego di soldati sui campi di battaglia, quanto del ricorso massiccio all’uso di droni, in operazioni il cui scopo è l’eliminazione del pericolo talebano e al qaedista. Da tempo, infatti, i droni statunitensi operano soprattutto nelle Fata del Waziristan pachistano – santuario della guerriglia talebana e dei membri del Movimento islamico dell’Uzbekistan (IMU), che agiscono a nord dell’Afghanistan, e del Tehrik-i-Taliban Pakistan (TTP), così come di numerosi gruppi legati al terrorismo jihadista turco e del sud-est asiatico – e in quelle aree che si suppone vi siano capi di al Qaeda, dallo Yemen alla Somalia e ora in Mali.
E’ strana, infatti, l’evoluzione di questa minaccia: da una esigua presenza di fanatici religiosi nota, all’inizio degli anni ’90, solo all’interno dei più ristretti ambienti dell’ intelligence e della difesa dei Paesi più avanzati, dieci anni dopo quell’11 settembre che la rese famosa e due guerre sanguinose e lunghissime per debellarla, al Qaeda è sempre più dinamica, autorevole, sparpagliata in ogni angolo del mondo, e soprattutto in grado di addensare intorno a sé tutta una galassia di movimenti per la jihad, far traballare governi e stringere alleanze con le organizzazioni criminali più pericolose e potenti, come testimoniano le preoccupazioni manifestate da politici ed esponenti degli organismi sovranazionali - seppur tardivamente rispetto a tanti segnali di allarme lanciati da alcuni analisti e non adeguatamente considerati– riguardo a quanto sta avvenendo in Algeria e in Mali.
Non è l’unico elemento contraddittorio che circonda la storia più recente di al Qaeda: se alcuni rapporti dell’ intelligence prevedono una sua scomparsa come sfida alla sicurezza mondiale nell’arco temporale di pochi anni, altri ne sottolineano la coesione interna e il rischio di un’intensificazione della sua minaccia in regioni come l’intera area sub-sahariana, imponendo interventi armati da parte dell’Occidente. Infatti, nonostante l’ottimismo circolato nel 2011 - all’indomani dell’uccisione di Osama bin Laden, suo capo storico - circa una sua spaccatura interna e il suo relativo declino, proprio là dove si combatte da oltre un decennio, come l’Afghanistan-Pakistan o l’Iraq, il pericolo al qaedista, non solo non è stato eliminato ma si è rinvigorito, ampliandosi a macchia d’olio verso nuove realtà confinanti territorialmente e instabili politicamente (dall’Uzbekistan allo Yemen, per citare i più noti).
Inoltre, ed è uno degli aspetti più allarmanti di cui non si è ancora preso coscienza adeguatamente, proprio in Siria, dove la diplomazia mondiale non è stata in grado di proporre un’alternativa valida al regime di Bashir Assad e alla guerra civile che sta massacrando quella gente, al Qaeda è penetrata, con la sua brigata “irachena” al Nusra li-Ahl al-Sham, nelle fila dei miliziani antigovernativi, formando adepti fra i più giovani, ai quali quella forma estrema di credo e di lotta sembra garantire un futuro, da combattente se non addirittura da martire per la sharia e le sue leggi, e rappresenterebbe, comunque, l’unica alternativa auspicabile rispetto all’inerzia e alle mancate promesse occidentali.
C’è da chiedersi, quindi, cosa c’è che non funziona, se guerre a lungo combattute contro un nemico (al qaedista o talebano o jihadista), questo finisce per prosperare e per rafforzarsi tanto da ampliare la sua presenza in altri scenari di crisi che, fra l’altro, sono aumentati in maniera esponenziale nell’ultimo anno, dopo le rivolte arabe e la guerra in Libia.
Sicuramente vi è una incapacità a gestire le crisi locali e il passaggio di poteri: vi è un’ampia letteratura al riguardo – che parte dal fallimento statunitense in Libano, negli anni ’80, e arriva alla recente guerra in Libia, passando dalla disfatta in Somalia nel 1993 - che finisce con il puntare il dito sull’ignoranza dell’Occidente rispetto a realtà non così lontane geograficamente e che si vogliono far adeguare a schemi culturali che non gli appartengono, fallendo però in questo compito e trasformandole, quindi, in un pericolo così prossimo da far temere per la propria sicurezza. Non è un caso che, sempre nel suo discorso inaugurale, Obama abbia affermato “Rinnoveremo le istituzioni che aumentano la nostra capacità di gestire le crisi all’estero, perché nessuno vuole un mondo pacifico più della sua nazione più potente”. Che si tratti di un nuovo corso e di rinnovati impegni che dovranno sostenere sia la diplomazia che l’intelligence statunitensi, è quanto si augurano molti analisti disincantati dagli slogan e dalla retorica tutta statunitense che ha circondato le vicende delle rivolte arabe ma che non ha visto concretizzarsi quel passaggio dai vecchi regimi a nuovi governi democratici.
E non c’è nemmeno da esultare quando si leggono rapporti che parlano del calo dei conflitti negli ultimi anni: sono solo cambiati i modi per contrastare le crisi e per intervenire in scenari a rischio. E la tecnologia, per ora, sta aiutando l’Occidente ad avere una superiorità strategica sul campo: ma, appunto, ciò non significa necessariamente avere la vittoria in pugno e, quindi, meno che mai evitare il prolungarsi di uno stato di belligeranza che ha finito per diventare “guerra permanente” per la sicurezza internazionale.
La guerra con i droni, però, sta cullando questa illusione: basta una breve disamina del loro impiego per comprenderne i successi ma anche i limiti che, come sempre, sono dovuti all’elemento meno considerato dagli strateghi militari protagonisti di quella revolution in military affairs che domina dalla fine della guerra fredda, ossia l’estrema rilevanza e, nel contempo, la considerevole vulnerabilità del fattore umano.
Fu proprio all’inizio degli anni ’90 che gli Stati Uniti iniziarono a sperimentare i droni, ossia quegli Hunter di fabbricazione israeliana, utilizzati per la ricognizione dei confini con il Messico per via dell’immigrazione clandestina, e ora pattugliati con oltre 450 droni; in seguito, vennero sperimentati nella guerra nell’ex Jugoslavia e in Iraq. Non è nemmeno un caso che Israele – stando al rapporto del Sipri - dal 2001 al 2011 abbia dominato le esportazioni mondiali in tecnologia di questo settore (il 41% del totale) verso 24 paesi, inclusi gli Stati Uniti. Quella israeliana è un’esperienza che risale almeno agli anni ’70, che si è caratterizzata con un loro ampio utilizzo nell’invasione del Libano nel 1982 e si è radicata nel continuo pattugliamento dei Territori, tanto che i droni vengono definiti dalla popolazione locale “zenana”, che suona come il ronzio caratteristico di questi velivoli e la definizione popolare araba di “moglie petulante”.
Le operazioni statunitensi con i droni, ed in particolare i c.d. “omicidi mirati”, in scenari che non sia quello afgano, ossia di impegno operativo sul campo (solo nel 2012 vi furono, in Afghanistan, oltre 350 attacchi e, dal 2009, congiuntamente alle forze inglesi, oltre 1500) sono diventate strategicamente così determinanti da monopolizzare l’intero approccio alle crisi da parte della nazione americana.
Si tratta, infatti, di distinguere fra le covert campaignes e le open military campaignes, ossia fra un fronte non di guerra aperta e dichiarata, in cui si stanno ampliando le operazioni con i droni da parte dell’intelligence statunitense, e uno di guerra vera e propria come il fronte afgano.
I dati parlano chiaro: nel corso del primo mandato di Obama (2009-2012), vi è stato l’impiego di droni in covert campaignes circa 6 volte tanto l’ultimo mandato di Bush (2004-2008), 296 contro 52, con una punta di 110 operazioni nel solo 2010.
Le attuali operazioni con i droni, tuttavia, rappresentano il programma covert più conosciuto e trasparente – almeno secondo i suoi fautori – della storia e sotto le leggi statunitensi, dato che vi è il controllo di due committees del Congresso, l’ US House Permanent e l’ US Senate Select Committees on Intelligence.
L’incremento di questi interventi, soprattutto in Pakistan, è stato dettato non solo dalla preoccupazione di Obama circa l’appoggio alla guerra afghana di gruppi filotalebani e al qaedisti, presenti su quel territorio, quanto per la possibile caduta di quel Paese in mano a elementi destabilizzanti come, fra i tanti ma certamente il più attivo, il Tehrik-i-Taliban Pakistan (TTP). Fu proprio in un campo di addestramento di questo gruppo che venne formato Faisal Shahzad (cittadino statunitense di origini pachistane), responsabile del tentato attacco terroristico a Times Square, nel 2010. Nel corso del suo processo, giustificò la sua azione come rappresaglia proprio all’offensiva dei droni statunitensi sul territorio pachistano e all’uccisione di numerosi innocenti. In queste parole, pronunciate da quel soggetto, sembra realizzarsi e sintetizzarsi l’intero ciclo del warfare dell’amministrazione Obama contro la minaccia terroristica, dentro e fuori i confini statunitensi.
Ma quanto è proponibile, giustificabile e vittorioso questo nuovo modo di fare le guerre, che hanno portato l’amministrazione Obama ad essere fra le più “interventiste” nella storia degli Stati Uniti?
La guerra dei droni statunitensi in Pakistan è giustificata come un intervento esterno - sebbene non richiesto, almeno ufficialmente, ma tollerato e a tratti supportato dalle autorità di quel Paese - per evitare la “caduta” politica di una nazione già alquanto instabile, che significherebbe, per gli Stati Uniti e l’Occidente, una catastrofe nel delicato equilibrio di potenza in Asia centrale soprattutto dopo il ritiro delle truppe statunitensi previsto per il 2014.
Tuttavia, qualcosa sta sfuggendo loro di mano, perché comunque, dopo anni di omicidi mirati, il Pakistan continua ad essere uno dei Paesi più instabili della regione asiatica e la minaccia talebana e al qaedista non è stata affatto eliminata e meno che mai delimitata, e gli stessi sforzi internazionali per raggiungere la stabilità in Afghanistan e Pakistan, come i colloqui di pace con i militanti afghani, risultano compromessi.
Gli obiettivi colpiti in Pakistan, sino ad ora, non sono stati esclusivamente i più pericolosi capi delle formazioni terroristiche, ma anche elementi di basso profilo tanto da creare forti spaccature sia nel sistema di comando che in quello di comunicazione, a vari livelli, oltre a distruggere e a smantellare campi di addestramento, con un totale solo nel 2012, di 300 terroristi uccisi(nel 2010 erano state 801) e da inizio 2013, di 30 elementi, a fronte di 2500-3000 vittime civili non coinvolte in attività terroristiche. Ma le cifre, che si tratti di militanti jihadisti o di civili, variano in modo consistente da fonte a fonte.
Vi è, però, la certezza della presenza, in quei campi di addestramento – in particolare quelli dell’area MirAli controllata da gruppi dell’Unione della Jihad islamica – di elementi occidentali, soprattutto tedeschi e inglesi, per l’istruzione ad attacchi terroristici sul territorio europeo. Da questo tipo di informazioni nasce l’emergenza per la sicurezza internazionale alla base dell’impiego statunitense dei droni.
Si tratta di quella che viene definita “deradicalizzazione” del fenomeno terroristico che, tuttavia, dovrebbe compiersi parallelamente all’accrescimento della capacity building sul luogo. Ma i dati non sono così concordi con i piani e le speranze dei vertici militari di Obama.
Se fino al 2007, in Pakistan, vi erano stati 10 attacchi suicidi, imputabili prevalentemente al TTP, già nel 2009 erano saliti a 87, con oltre 2500 attacchi terroristici di varia natura e con scopi destabilizzanti solo in quell’anno, poi scesi a poco più di 2100 l’anno seguente, ma saliti drasticamente a oltre 2700 nel 2011, per poi ridiscendere a 2200 nel 2012. In pratica, un’instabilità costante che non smette di scuotere politicamente un Paese che, comunque, possiede testate nucleari – ed è l’unico Paese islamico ad averle − e in un’area fra le più turbolenti al mondo per innumerevoli questioni, da quelle territoriali-indipendentiste a quelle alimentate dall’estremismo religioso di varia natura.
Da queste preoccupazioni nasce la definizione di Obama, circa l’uso di droni in Pakistan, di “guerra giusta” e di “necessità strategica”: e per completare il tutto, ecco la nomina, scontata, a capo della Cia di John Brennan, stratega per eccellenza della guerra dei droni (tanto da essere definito Drone Boss), e che, come advisor di Obama all’antiterrorismo, definì gli omicidi mirati ai capi dell’Aqap in Yemen “non il problema, ma parte della soluzione”, con un linguaggio reminiscente di personaggi del passato fra i più criminali ed odiosi.
Questo tipo di guerra, negli ultimi otto anni, è passata da esperimento marginale, durante l’era Bush, ad arma polivalente con Obama; è stata codificata con la Disposition Matrix (che ha sostituito le kill-lists) e che coinvolge direttamente il Presidente circa dove e quando colpire, dopo l’esame di numerosi documenti provenienti da molteplici fonti informative; è gestita dal National Counterterrorism Center, per cui è più trasparente nel suo processo decisionale e nelle regole di ingaggio, ed è stata burocratizzata da Brennan tanto da renderla una tattica ormai permanente nel warfare statunitense. Lo stesso Pentagono sta addestrando più operatori alle consolle dei droni che piloti per i suoi aerei; e con la nomina al Pentagono di Chuck Hagel, grande sostenitore della nuova guerra aerea, si può immaginare quale sarà il trend per i prossimi anni.
Obama, infatti, l’ha scelta come forma di intervento militare a bassa intensità per contrastare il terrorismo, perché, oltre alle nobili cause a cui è votata – ossia guerra al terrore e per la stabilizzazione/democratizzazione - ha un’apparenza asettica e una presupposta precisione chirurgica, non fa vittime fra i militari statunitensi e, cosa non da poco, non costa eccessivamente.
Per questi motivi, la guerra Pakistani model è diventata ormai un brand di esportazione, e lo confermano i dati delle operazioni condotte da altre forze armate come, ad esempio, quelle britanniche, con le oltre 350 azioni con droni solo sui cieli afghani, con il raddoppio del numero dei Reaper in servizio e l’avvio, quest’anno, da parte della BAE System, della produzione di un drone interamente britannico, il Taranis.
Dal punto di vista strettamente strategico-dottrinale, gli attacchi con i droni a obiettivi considerati pericolosi per la sicurezza nazionale statunitense, vanno a inserirsi in quel nuovo filone di guerre altamente tecnologiche, chirurgiche, no boots on the ground, a cui appartiene anche la cyberwar, che si sta imponendo nella strategia operativa fuori dai confini statunitensi e che garantiscono il mantenimento di una superiorità militare e strategica, dato l’alto livello di conoscenza tecnologica che si presume sia un’esclusiva del mondo occidentale.
Fin qui nulla da eccepire: tutto appare logico, coerente e soprattutto ben accetto da quell’opinione pubblica che, nel nome del cambiamento, aveva voltato pagina con l’elezione di Obama anche per porre fine a uno stato di guerra permanente proprio dei due mandati di G.W. Bush.
Tuttavia, a fronte della tanto acclamata infallibilità e asetticità di questo nuovo modo di condurre le guerre future, qualcosa non sta funzionando.
Non mancano, infatti, le critiche, a cui hanno dato voce anche ex presidenti come Jimmy Carter e lo stesso Bill Clinton, non solo per via delle vittime civili e quanto ne consegue, ma perché i droni rappresenterebbero dei flying killer robots, con uso “eccessivo” della forza rispetto agli obiettivi da colpire, a testimonianza del carattere di questa guerra fortemente asimmetrica. Si tratta, infatti, dell’utilizzo di mezzi estremamente sofisticati contro un nemico affatto tecnologico, come la minaccia terroristica.
Questa superiorità, infatti, si può rivelare come un gioco a somma zero, dato che non è immune da falle: fare vittime anche civili, colpevoli solo di essere vicini a obiettivi da annientare per via della loro provata pericolosità, in realtà, alimenta quell’opposizione antiamericana e antioccidentale che, secondo numerosi critici, favorisce l’espandersi proprio di quegli elementi che si vogliono combattere, come il terrorismo.
Come avvenne a suo tempo con la comparsa dell’arma aerea, anche con i droni si discute se il bombardamento aereo e, ora, anche gli attacchi mirati dal cielo portino non alla vittoria ma alla rappresaglia. E al di là delle altalenanti dichiarazioni ufficiali, tre quarti dei pachistani si sono dichiarati antiamericani. Lo stesso sta avvenendo in Yemen, dove l’impiego massiccio di droni contro l’Aqap (oltre 360 attacchi negli ultimi 8 anni con un numero di vittime dai 2600 ai 3500) ha di fatto ottenuto, come primo risultato, un pericoloso indebolimento del rapporto di fiducia fra istituzioni locali e tribù, ossia di quel processo di trust-building frutto di anni di lavoro per stabilizzare il Paese e, come secondo effetto, l’aumento dal 2009 di tre volte il numero degli appartenenti ad al Qaeda.
Si tratta di un fenomeno che sta caratterizzando la storia recente di al Qaeda, e di cui non si è presa ancora chiara coscienza della sua possibile evoluzione.
Obama interviene, quindi, con strumenti più “politically correct” rispetto a quelli del suo predecessore nonostante l’eventualità che vi siano vittime civili, intese come “danni collaterali”: questa definizione, tuttavia, placa solo le coscienze degli strateghi statunitensi. Quest’evenienza, infatti, che sembra essere una questione marginale per l’amministrazione statunitense, può rivelarsi un potente volano di quel sentimento antiamericano e antioccidentale che, a sua volta, è alla base di quell’opposizione fanatica e armata che, invece, si voleva eliminare. Ed ecco uno degli elementi, fra i tanti, che finisce per alimentare le fila di quei gruppi terroristici dalle svariate sigle geografiche.
Di conseguenza, per quanto la guerra con i droni abbia aspetti tattici più accettabili eticamente rispetto a quelli di una guerra tradizionale, questi vantaggi finiscono, però, per frantumarsi di fronte all’aumento del rischio per la sicurezza interna anche degli stessi Stati Uniti.
Ancora una volta, quel che sembra mancare agli amministratori di cose militari statunitensi, è quell’empatia che invece è fondamentale nell’attuare interventi bellici o tattiche operative così invasive: si tratta di una mancanza costante nella storia militare soprattutto statunitense.
Una strategia di impiego di droni, soprattutto se utilizzata fuori dai propri confini e in ambienti così diversi, necessita più che mai di un’intelligence attiva sul territorio: ed è la vera sfida a cui è chiamato a confrontarsi il secondo mandato di Obama se intende proseguire nel loro impiego ed essere coerente con il suo desiderio di porre fine alla “guerra permanente”. Brennan, infatti, ne è più che mai consapevole, conoscendo le possibilità ma anche i limiti della guerra dei droni: e non è un caso che, appena eletto a capo della Cia, abbia sottolineato come sia necessario per l’agenzia tornare a fare informazione, più che la guerra con i joystick, in modo da agire su quei territori, anche con l’invio di forze speciali in stretta collaborazione con gli operativi dell’ intelligence. Insomma, per Brennan si tratta di una limitazione dell’uso eccessivo della tecnologia e un ritorno alla conoscenza del territorio nemico, per meglio fare quella targeted, surgical pressure fondamentale, secondo il nuovo capo della Cia, per sconfiggere definitivamente al Qaeda.
E’ il compito più difficile che spetta alla superpotenza statunitense con il nuovo modo di combattere, soprattutto nei fronti, come il Medio Oriente, l’Asia centrale, il Nord Africa e l’area subsahariana, in cui è chiamata a operare a difesa dei propri interessi e della propria sicurezza, ora che sono caduti quei regimi laici più affini ai modelli di governo politico ed economico statunitense e occidentale, e non sono stati sostituiti da poteri democratici e in grado di garantire la loro stabilità interna.
Per gli Stati Uniti di Obama, si tratta, tuttavia, di superare, in modo definitivo, quella radicata incapacità di visione strategica che più volte ha impedito loro di vedere il rapporto causa-effetto e, nuovamente, causa, dovuto alla convinzione – non più solo americana, ma in generale, del mondo occidentale - di poter eccellere solo perché tecnologicamente superiori rispetto al nemico. Non si tratta, infatti, solo ed esclusivamente di evitare bagni di sangue, stando in disparte e facendo operare questi formidabili strumenti tecnologici: la potenza militare americana, perché rimanga tale ma soprattutto perché si riconfermi una potenza anche politica, non può delegare il suo impegno ai droni ma deve trovare quel giusto equilibrio che le permetta anche di agire localmente in una migliore comprensione di realtà differenti e complesse, e mediare con successo nelle situazioni di crisi, con il ritorno, ad esempio, alla shuttle diplomacy, affinché non alimentino ulteriori minacce alla sicurezza internazionale.
La gestione della guerra in Libia è la prova più evidente di questo limite di fronte al manifestarsi di gravi perturbazioni: è un ostacolo che ha trasformato l’occasione data da quella guerra civile in un fenomeno catalizzatore di crisi decisamente peggiori, come dimostra quanto sta accadendo a sud dell’Algeria e in Mali, e diretta conseguenza dell’incapacità di limitare il proliferare di milizie armate che si sono messe a disposizione di fazioni in lotta da anni per i più svariati motivi. In pratica, una crisi degenerata in guerra civile, mal gestita dall’Occidente nel suo evolversi e nella sua conclusione, che ha finito per alimentare altri fronti di crisi e di conflitto.
Vi sono, inoltre, altre due ultime questioni, sollevate da alcuni critici del ricorso eccessivo alla guerra con i droni: innanzitutto, la segretezza che circonda questo tipo di operazioni e l’aver delegato per alcuni anni la loro direzione alla Cia – che in taluni casi ha fatto ricorso a contractor privati per la loro esecuzione – hanno alimentato, e stanno ancora alimentando, teorie complottiste che finiscono, comunque, per offuscare gli sforzi dell’amministrazione Obama per una trasparenza nelle sue azioni militari fuori area. La disposition matrix, il controllo di organismi congressuali e le dichiarazioni di intenti di Brennan per un nuovo corso della Cia sarebbero, tuttavia, già risposte più che sufficienti date dall’amministrazione Obama a queste critiche.
Nondimeno, ed è la seconda questione critica, ancora più delicata, ci si chiede da più parti se questo ricorso estremo ai droni non costituisca un precedente che potrebbe portare presto gli Stati Uniti e i loro alleati a pentirsi di aver pesantemente investito su questo tipo di guerra.
Ne è un esempio, la corsa al riarmo con droni da parte di Cina e Giappone allo scopo, almeno nelle dichiarazioni ufficiali, di sorvegliare le acque del mar cinese meridionale dove queste due nazioni si stanno contendendo le isole Diaoyu-Senkaku. Non è un caso che all’indomani della sua nomina a premier in Giappone, Shinzo Abe abbia rivisto il programma di difesa 2011 per il suo Paese e abbia ordinato altri droni alla fiorente industria statunitense: si tratterebbe anche del primo aumento nelle spese militari giapponesi dopo 11 anni. Per tutta risposta, vi sarebbe già un drone cinese – clone del più famoso X-47B statunitense – le cui tecnologie di attacco sarebbero già state testate, stando a fonti ufficiali di Pechino, e che si affiancherebbe a quello stealth, chiamato Anjian o Dark Sword che, per le sue capacità, potrebbe superare quelli in dotazione agli Stati Uniti. A sostenere la corsa al riarmo con droni e per renderli operativi, proprio la Cina starebbe costruendo 11 basi dedicate esclusivamente al loro impiego lungo le sue coste e pronte nel 2015.
Non da meno, Pechino starebbe anche testando droni per la ricognizione di aree attorno a Guam, dove gli Stati Uniti con la dotazione di droni MQ-4C Triton – versione più moderna del Global Hawk - stanno rafforzando la loro presenza, secondo quanto previsto nella strategia Asia Pivot. Con la stessa logica, anche la Corea del Sud avrebbe chiesto agli Stati Uniti di aiutarla nel dotarsi di droni per la sorveglianza dei suoi vicini settentrionali. In pratica, si sta registrando l’avvio di una nuova corsa al riarmo, sebbene giustificata da azioni di ricognizione, ma che non cambia la sostanza delle cose: è iniziata una nuova era di dominio dello spazio aereo e, con essa, una corsa ai droni e una forma di guerra – perché, anche se sostenuta da un premio Nobel per la pace, di questo si tratta - estremamente tecnologica e non necessariamente di successo e risolutiva.
Ne deriva la preoccupazione di alcuni osservatori, secondo i quali la minaccia più grande alla pace mondiale non deriverebbe da una possibile proliferazione nucleare, ma da quella sicura dei droni. C’è da chiedersi quanto si sia consapevoli di questo e quanto, invece, sia solo l’ennesimo tentativo di dotare gli arsenali di nuovi strumenti (sarebbero operativi già oltre 10.000 nelle più svariate mansioni), il cui uso, tra l’altro – e come accade per la cyberwar - non è ancora chiaramente regolamentato dalle leggi internazionali e la cui violazione dei diritti umani è oggetto di studio da parte degli organismi sovranazionali.
Eppure, il notevole supporto bipartisan all’uso dei droni è così vasto e granitico da rendere plausibile l’equivalenza Obama wars-Bush wars, che tanto scandalizza analisti e osservatori per il paragone azzardato con personalità tanto differenti. A meno che – ma si rischia di essere tacciati di complottismo – tutte queste critiche siano fatte deliberatamente per attaccare Obama e il suo approccio alla minaccia al qaedista. Tuttavia, le cifre parlano chiaro, soprattutto quelle sulle vittime civili: allora non nascondiamo la testa nella sabbia. Si tratta sempre di guerre, di affari legati ai produttori dell’industria bellica dai grandi numeri ma dagli esigui successi sui campi di battaglia, almeno stando all’inefficienza dei droni nel contrastare l’ampliarsi del fenomeno al qaedista.
Allora scordiamoci le critiche alla guerra con i droni e prepariamoci a nuovi fronti che si apriranno e si giustificheranno come interventi “umanitari” o “per la sicurezza nazionale”, anche se combattuti con i droni in acque distanti, come quelle dell’oceano Pacifico o del mar Cinese meridionale, e la lista dei nomi e degli obiettivi si allungherà, ma senza la certezza che, nei vari Paesi che adotteranno la nuova guerra aerea Pakistani model, vi sia una disposition matrix in grado di filtrarli.
E’ l’inizio di una nuova era, di una guerra estremamente tecnologica che si avvale anche di quella cyberwar che, ignorantemente, non si vuole considerare nei suoi effetti o danni collaterali. Entrambe hanno avviato una ennesima rivoluzione negli affari militari e sono, al momento, la massima espressione della guerra asimmetrica ma dagli effetti collaterali di difficile gestione e per i quali non si è ancora trovato una soluzione vincente.
Insomma, i fronti di instabilità così come gli strumenti per il loro contrasto si sono allargati a più soggetti, anche non statali, e appaiono operativi al di là dei confini fisici geografici ma richiedono, quasi paradossalmente, per essere vittoriosi, il ritorno a pratiche antiche che sono state accantonate, come un maggior uso dell’ intelligence e della conoscenza del campo e di realtà differenti che permettano una più incisiva azione di mediazione nelle crisi regionali e internazionali.
Solo con questa consapevolezza gli Stati Uniti di Obama, e con esso l’Occidente alleato che si riconosce in quel modello di cultura e di democrazia, saranno in grado di fronteggiare le sfide future e risolvere quelle più antiche, come la minaccia terroristica, fino ad ora sostenuta e prosperata per via di carenze di visione e per la sopravalutazione di una dotazione tecnologica che si presupponeva superiore ed esclusiva, ma pagate, sul campo, a un prezzo ormai troppo elevato.
Il ritorno, quindi, all’informazione-conoscenza del nemico e del suo territorio, alla diplomazia e alla mediazione è l’unica via percorribile perché non si proponga l’eguaglianza Obama wars-Bush wars. Tutto il resto è sterile retorica, soprattutto quando ci si ostina a non apprendere dai fallimenti del passato.
C’è da chiedersi, però, quanto ci sia consapevolezza di tutto ciò o volontà politica o addirittura possibilità concreta di voltare pagina, in un mondo in continua trasformazione e dai nuovi protagonisti, possibili alternative a un Occidente combattuto fra recessione, declino e, soprattutto, crisi di valori.
22/01/2013
Foto: Reuters
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