La sicurezza di sempre più ampie zone di mare e di coste, dato il pericolo della pirateria, è diventata una priorità per il traffico marittimo mondiale e per le attività economiche sulla terraferma, tanto da imporre il ricorso a team di difesa armata, sia con personale delle proprie Forze Armate, come accade, per esempio, per il Belgio, Francia e Italia, almeno sino ad ora, oppure a security contractors privati, come deciso da Spagna, Germania, Regno Unito, Giappone e Sud Africa (mentre l’India, sembra per via dell’affare dei nostri Marò, vi ha rinunciato alcuni giorni fa), registrando non solo un’intensa attività delle PMSC al riguardo, ma dimostrando come il pericolo piratesco non sia affatto contenibile se non con il ricorso alla minaccia armata, sia in alto mare che nelle zone costiere.
Ciò vale a prescindere dal tipo di minaccia piratesca: ciò che caratterizza il modus operandi, infatti, della pirateria somala non è presente in altri contesti, come nelle acque del mar Cinese Meridionale, negli stretti di Malacca, o in un altro scenario ad alto rischio pirateria, sia in mare che in terraferma, ossia il Golfo di Guinea. Se, in generale, si può parlare di attività criminosa più o meno organizzata e potente, e dalle forti connessioni con la realtà politica, economica e sociale interna ai Paesi in cui è protagonista, per alcune realtà come quella cinese, ad esempio, intervengono implicazioni di natura soprattutto geopolitica e geostrategica, che vanno ben al di là dell’urgenza della sicurezza di mercantili e dei loro equipaggi.
Negli ultimi 25 anni, nelle sole acque dal mar Meridionale della Cina sino agli stretti di Malacca, sono state attaccate 17mila unità, con una prevalenza di aggressioni in quelle cinesi e indonesiane. Si tratta per lo più di assalti, a volte anche notturni, in acque territoriali o, addirittura, nei porti stessi (la fama più sinistra al riguardo è quella di Johore a Singapore e Vung Tau in Vietnam), al solo scopo di rapina dell’equipaggio o per la sottrazione della merce. Quasi mai si tratta di rapimento a scopo di riscatto, come invece avviene nelle acque somale. L’azione piratesca, però, può anche risolversi, una volta liberato l’equipaggio e saccheggiata la merce trasportata, nel sequestro della nave, poi camuffata e rimessa in circolazione con documentazione falsa, ossia quel fenomeno noto come ghost ship che è l’incubo degli armatori di tutto il mondo. Tuttavia, a differenza dei somali, i pirati del mar Cinese Meridionale sono meno armati e peggio organizzati, da cui un loro raggio operativo è più limitato: non disponendo di protezione mafiosa, da cui dipendono invece i jiin somali, è molto difficile che i pirati orientali riescano a rapire l’equipaggio di una nave e a portare avanti trattative con l’armatore. Sia i servizi di intelligence, come pure l’attività di contrasto delle forze di polizia locali, fanno fallire ogni tentativo in quel senso. Ciò a dimostrazione che la lotta al fenomeno piratesco può e deve avvenire anche sulla terraferma con una buona struttura anticrimine, là però dove esista uno Stato stabile e forte da poterla gestire.
Il fenomeno piratesco nelle acque dell’Estremo Oriente è andato, infatti, diminuendo proprio grazie alle azioni armate di pattugliamento e di difesa, soprattutto da parte di quei Paesi rivieraschi, ma anche del Giappone e di Taiwan, e che avrebbero portato, nel 2012, a 85 attacchi nel mare cinese e 22 nelle acque degli stretti di Malacca, mentre sino a giugno 2013 sarebbero stati “solo” 57. Il condizionale è d’obbligo, dato che non tutti gli atti criminosi vengono denunciati, soprattutto nelle acque cinesi pattugliate dai mezzi militari navali di Pechino perché circondano le isole Paracel e Spratly, oggetto di contesa fra Cina e, rispettivamente, Filippine e Vietnam. Tuttavia, da una decina d’anni, per via dei forti interessi economici che sono presenti attorno a quelle isole e per il desiderio di controllarli ma anche conservarli e garantire loro la sicurezza, l’attività di intelligence e quella militare di numerosi Paesi dell’area sono diventate, stando al commento di alcuni osservatori, “più intense, invadenti, controverse e soprattutto pericolose”.
Le 100 miglia di coste del mar Cinese Meridionale appartengono, infatti, a realtà nazionali importanti commercialmente: oltre a Cina e Hong Kong, si affacciano su quelle acque anche Taiwan, Vietnam, Malesia, Singapore, Indonesia e Filippine, per un totale di 500 milioni di persone, la cui dipendenza dalla pesca in quei ricchissimi fondali è di vitale importanza, così come dalle formidabili risorse di petrolio e gas di cui abbonderebbero le loro rispettive Exclusive Economic Zones (EEZ). Dal possesso e per il controllo di quelle risorse derivano le contese di Cina con vari Stati su isole, appunto, come le Paracel e le Spratly e, più a nord, le Senkaku, da anni oggetto di scontro fra Pechino e Tokyo. Ciò ha imposto, da tempo, il pattugliamento continuo con navi da guerra, e sebbene la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS) sembri condivisa e sottoscritta da numerosi Paesi della regione, rimangono troppe zone d’ombra “legali” e notevole confusione circa le norme che regolano il passaggio di quelle navi, con il relativo pattugliamento armato antipirateria, a sostegno delle navi mercantili civili in acque proprie della EEZ di uno Stato costiero.
Negli ultimi anni, poi, Pechino ha sviluppato una sua più robusta presenza nelle rotte marittime, diventando la quarta potenza commerciale con le sue 3300 imbarcazioni commerciali, per circa 85 milioni di tonnellate di capacità di trasporto e 40mila uomini imbarcati. La pirateria moderna, nelle acque solcate dalle sue navi, rappresenta, quindi, una delle sfide non convenzionali alla sua sicurezza e minaccia non solo quella burgeoning ocean economy da cui dipende la sua espansione economica, ma anche quell’immagine di potenza responsabile che la Cina vuole trasmettere fuori dai suoi confini, per contrastare quella aggressiva descritta, invece, dai suoi principali antagonisti commerciali, Stati Uniti in testa.
Negli stretti di Malacca, inoltre, vi transita l’80% del petrolio importato dalla Cina, tanto che il rischio pirateria può diventare un pesante fardello per la stessa energy security cinese. In quegli stretti passano annualmente 60mila navi (ossia 1/3 del traffico mondiale, e il 60% dei mercantili sono cinesi), con una rilevanza per il trasporto marittimo di petrolio e gas di ben 3 volte quello viaggiante nel canale di Suez e addirittura di 15 volte quello in transito a Panama: è evidente l’importanza strategica come energy lifeline per realtà come Cina, appunto, ma anche Giappone, Corea del Sud e Taiwan. Inevitabile, quindi, l’impegno cinese degli ultimi anni nel contrastare il rischio piratesco. Con la stessa determinazione, Pechino si è concentrata anche nella difesa armata dei suoi cargo marittimi nelle acque a ridosso dello Yemen, dove passa quel 20% del totale di importazioni di petrolio che la Cina effettua dall’Arabia Saudita, che poi proseguono verso l’Oceano Indiano e, appunto, gli stretti di Malacca. Ed è proprio la sicurezza delle importazioni di petrolio via mare, da cui dipende l’intera politica economica nazionale, a preoccupare Pechino: per ora si tratta del 40% di tutto l’ import energetico, ma vi sono previsioni fra il 65 e l’80% entro il 2030.
Il mar Cinese Meridionale si sta, quindi, rivelando, per le cifre coinvolte, come la più trafficata rotta marittima al mondo, ma soprattutto un hub cruciale per la rivoluzione industriale asiatica e quel link strategico fra gli oceani Pacifico e Indiano, con inevitabile interesse di due altri grandi protagonisti economici mondiali, ossia Stati Uniti e Giappone. Non è un caso che quest’ultimo sia molto attivo nel contrastare la pirateria soprattutto attraverso il coordinamento dell’ agenzia di guardiacoste della regione asiatica (Heads of Asian Coast Guard Agency, HACGA), così come in altre attività di lotta antipirateria, con la protezione militare o armata dei propri mezzi commerciali, e che coinvolgono tutte le nazioni della vasta regione orientale, dal Giappone, appunto, sino agli stretti di Malacca, e che si spingono sino alle acque del Golfo di Aden.
La sicurezza degli stretti di Malacca è, però, una responsabilità propria dei tre Stati rivieraschi, Indonesia, Malesia e Singapore, che si accollano i costi per contrastare il fenomeno piratesco attraverso un’ attiva cooperazione intergovernativa di pattugliamento dei loro mari che, negli ultimi anni, ha dato i suoi frutti: a parte qualche sporadico caso in acque malaysiane (2 navi assaltate in queste ultime settimane) l’Indonesia risulta essere la più vulnerabile, soprattutto per via della forte corruzione che permette flussi di informazioni fra autorità portuali e criminali circa i beni di valore trasportati dai cargo in transito e, soprattutto, le navi meno protette. Attorno all’arcipelago indonesiano vi sarebbero una miriade di traffici illeciti, per via del fiorente mercato nero delle merci rubate, ma anche di droghe e di armi, dovuto al controllo governativo pressoché nullo dei porti più lontani dai centri abitati importanti, che diventano spesso rifugio per organizzazioni e cellule terroristiche che, con quei traffici, si autofinanziano.
Proprio la corruzione degli apparati statali e l’alto livello di violenza che accompagna gli atti pirateschi in quel tratto di mare farebbero dell’Indonesia l’anello più debole dell’intero arco di sicurezza negli stretti di Malacca. Non è un caso, quindi, che periodicamente vengano diramate, dalle autorità portuali di tutti e tre i Paesi, raccomandazioni a rimanere vigili alle migliaia di navi in transito.
Inoltre, permangono notevoli rischi al di fuori delle acque degli stretti e di loro competenza, e che riguardano quelle internazionali dall’ Oceano Indiano (26 incidenti nel 2012) sino al Mar Arabico (28). In pratica, quanto si riesce ad assicurare in termini di sicurezza al passaggio delle navi su acque territoriali, o per via di pattugliamento attraverso guardia costiera o altre forze navali, non è così scontato in acque internazionali e nelle c.d. “zone contigue”, ossia in quelle acque neutre in cui nessun Stato può essere giudicato più competente di un altro, ma sono “affidate” al più vicino per attività come la pesca e dove, ad esempio, secondo le autorità indiane (ma non per il governo italiano), si trovava la Enrica Lexie del caso Marò. Sono, quindi, le acque internazionali e quella vasta zona grigia di “zone contigue” a rappresentare la sfida per la sicurezza delle navi mercantili di tutto il mondo contro la pirateria e le attività criminose di varia natura.
I forti interessi alla sicurezza della navigazione dal mar Cinese Meridionale, gli stretti di Malacca sino alle acque del Golfo di Aden sono dovuti soprattutto all’importanza e alla quantità delle merci trasportate, come il petrolio e il gas, ossia la fornitura energetica da cui dipendono fortemente le potenze economiche, non solo della regione. Proprio per questo la pirateria, in quella vasta estensione di acque, e tutto ciò che riguarda il suo contrasto armato, finiscono per inserirsi anche nel confronto “navale” fra potenze economiche, come Cina, India e Giappone, e addirittura gli stessi Stati Uniti.
Gli elevati e diffusi investimenti cinesi oltremare, come quelli in Africa, hanno imposto ai vertici politici e militari di Pechino una vera e propria strategia di intervento armato a salvaguardia dei mezzi navali commerciali ma anche della forza lavoro civile impiegata nelle grandi opere infrastrutturali in vaste zone, a rischio di rivolte e guerre, come è accaduto nel 2011 per la Libia: l’evacuazione del personale cinese, presente negli impianti petroliferi di quel Paese (oltre 30mila persone) avvenne attraverso navi militari operative nel Golfo di Aden. Inoltre, il pattugliamento militare continuo di rotte a rischio permette a tutti i suoi mezzi mercantili in movimento di evitare zone a rischio grazie alla rapida allerta che parte dalle proprie navi militari, a cui sono collegate attraverso il sistema Mercury, ossia una rete internet esclusivamente cinese e gestita direttamente dai comandi militari di Pechino.
Ecco perché di fronte al pattugliamento armato di vie così strategiche, in cui è in gioco la leadership economica, industriale e commerciale di potenze così rilevanti, si senta parlare di “militarizzazione delle rotte”, che porta a una lettura più complottista dell’intera vicenda della pirateria, mettendone persino in dubbio la reale pericolosità. Insomma, la minaccia piratesca dall’Estremo Oriente sino al Golfo di Aden sarebbe solo un pretesto per imporre la presenza di mezzi navali militari e come giustificazione per giochi a più ampio contesto strategico, in cui il controllo di rotte commerciali come quelle verso il Medio Oriente e, soprattutto, l’Africa, diventata da tempo area a dominio economico e commerciale cinese (nel solo Golfo di Aden transitano annualmente 2000 navi mercantili cinesi), si rivela il perno su cui muovono ruoli e interessi di grandi potenze, dall’influenza regionale e mondiale.
Sebbene rivali commercialmente, nel settembre 2012 e nell’agosto 2013, si sono svolte esercitazioni antipirateria congiunte fra Stati uniti e Cina, a dimostrazione di come non sia affatto sottovalutato da queste due potenze il fenomeno piratesco nelle acque antistanti l’Africa orientale: le simulazioni di attacchi sono avvenute con mezzi come la USS Winston Churchill e la Yiyang (2012) e la USS Mason e la Harbin (2013), e i rispettivi equipaggi coinvolti nella cattura, nella messa in sicurezza della nave e nella loro liberazione attraverso mezzi come forze speciali, elicotteri e sorveglianza aerea continua, anche notturna. Sebbene destinate a ripetersi, queste esercitazioni congiunte non significano affatto una totale apertura di Pechino verso una collaborazione militare multilaterale al contrasto piratesco, soprattutto con gli Stati Uniti. La Cina preferisce operare, in quel campo, attraverso accordi bilaterali che risentono, comunque, della situazione politica e militare contingente; tuttavia, è prevista la sua partecipazione, il prossimo anno, alla Rim of the Pacific Excercise (RIMPAC), ossia la più importante esercitazione militare marittima al mondo (sono coinvolte 18 nazioni), a dimostrazione di quanto stia cambiando l’atteggiamento di Pechino al riguardo.
D’altronde il pattugliamento armato di rotte strategiche si è dimostrato l’unico sistema in grado di debellare il fenomeno piratesco: i risultati dell’esperienza del mar Cinese Meridionale e delle acque del Golfo di Aden è significativa al riguardo. Al contrario, là dove non vi è ancora un sistema di controllo e di pattugliamento armato organizzato e ben coordinato, il fenomeno piratesco ha preso vigore, con caratteristiche del tutto differenti sia rispetto a quello somalo che a quello asiatico.
Si tratta, infatti, della pirateria fluviale e marittima che si è diffusa nell’ampia regione che va dal Togo al Gabon, ossia il Golfo di Guinea, con particolare intensità nella regione del Delta del Niger: nel primo semestre del 2013 si sono registrati circa 140 casi di assalto di navi e la cattura di 334 ostaggi (il rapimento dura al massimo un paio di giorni), sebbene il trend sembri registrare un calo del fenomeno e, pare, appunto grazie all’azione armata sia delle PMSC imbarcate sulle petroliere, che è l’ obiettivo preferito degli attacchi pirateschi, sia dell’azione congiunta dei Paesi dell’ ECOWAS.
Tuttavia, l’elevata violenza che caratterizza le azioni criminali di questi elementi, che sembra provengano dal Niger e dal Benin, ha aumentato notevolmente la preoccupazione circa un fenomeno che mette a rischio gli interessi delle grandi compagnie petrolifere ma anche dei governi degli Stati in cui questi gruppi armati veri e propri agiscono con il sostegno di militari corrotti, di ex combattenti delle numerose guerre fra etnie e di personale locale di sicurezza degli impianti più dedito al crimine che alla protezione degli stessi. Non è un caso, infatti, che molte compagnie petrolifere abbiano affidato la protezione dei loro impianti a personale di PMSC statunitensi ed europee, soprattutto britanniche (una decina, in totale, con le più attive la Control Risks e Erinys), registrando un’impennata di contratti nell’ultimo anno.
L’obiettivo dei pirati del Delta del Niger è l’accaparramento del greggio e di prodotti petroliferi, sottratti sia agli impianti sulla terraferma che alle petroliere stesse, e destinato al mercato nero che è una delle attività più fiorenti, e pericolose, dell’Africa occidentale, a cui si sommano quello della pesca illegale, traffico di armi, di droghe e di esseri umani. Nel 2012 sono state calcolate perdite annuali per 1,3 milioni di dollari a causa degli attacchi, e di 30 milioni di dollari per le tonnellate di combustibile andato perso. L’azione piratesca nel Delta del Niger si limita appunto all’attacco alla petroliera e alla sottrazione del greggio trasportato: finito il furto, la nave viene rilasciata. Non vi è altro scopo: non è un caso che l’azione non avvenga in alto mare, dove il pompaggio di greggio richiede una tecnica che i pirati non dispongono, quanto nei porti lungo le coste.
La cooperazioni fra gli Stati della regione per contrastare il fenomeno è alquanto attiva, come si è visto con l’incontro a Yaoundé del giugno scorso, in cui rappresentanti degli Stati africani e delle Nazioni Unite, oltre a organismi economici regionali, hanno affrontato il problema al fine di armonizzare e coordinare una politica antipirateria mirata alla salvaguardia dello spazio marittimo in quella parte di Africa e fermare così la destabilizzazione politica, economica e sociale che ne deriva. Perché le perdite economiche (il Benin nel biennio 2011-2012 ha registrato un calo di attività del 70%, e relativo -28% degli introiti dal petrolio) finiscono, inevitabilmente, per riversarsi sull’intero ciclo di vita economica, politica e sociale di un Paese, soprattutto se dipende da quella risorsa.
L’obiettivo degli Stati della regione, nell’affrontare la minaccia piratesca è, comunque, quello di evitare la militarizzazione del Golfo di Guinea, soprattutto con presenza di flotte straniere, così come avviene nel Golfo di Aden. Lo stesso sostegno dato dall’AFRICOM alle forze locali, al fine di aumentare le loro capacità operative e conoscenza delle leggi marittime, non è sempre ben visto da quelle nazioni ed è, infatti, considerato come un’ennesima intromissione di potenze straniere negli affari locali o regionali di quel continente. Anche l’esperienza francese della missione CORYMBE, presente nel Golfo di Guinea dal 1990, oltre a non aver garantito la sicurezza sperata, è stata per lo più interpretata come un’ingerenza militare di forze militari della Francia (con basi in Senegal e Gabon) per fini esclusivamente di protezione di interessi occidentali e non contro il rischio piratesco.
Come nell’Africa orientale, la risposta antipirateria in quella sua parte occidentale sembra dipendere anche da un’azione sulla terraferma: non si tratta solo di coordinare iniziative congiunte di pattugliamento armato delle coste, e nemmeno di sperare di risolvere a breve il male endemico di quel continente, ossia la corruzione. Si tratta, infatti, per lo più di sostenere politiche economiche e sociali in grado di far beneficiare maggiormente vasti strati della popolazione di quelle che sono le risorse proprie dei loro Paesi, e coinvolgerli, come è accaduto nel Delta del Niger, in programmi occupazionali e di inserimento delle fasce più disagiate. Non è un caso, infatti, che l’ultimo atto piratesco del mese scorso e che ha portato al rapimento di due tecnici statunitensi di un impianto petrolifero, sembra sia stato “giustificato” come un’azione contro l’arricchimento delle società straniere di estrazione, l’alto livello di benessere che caratterizza la vita dei compound petroliferi a fronte della miseria delle zone che lo circondano, e soprattutto la mancanza di un adeguato tornaconto per le comunità locali. Queste, infatti, oltre a soffrire del forte contrasto di livelli di qualità di vita, patiscono dell’inquinamento delle loro acque dovuto alla vicinanza di quegli impianti ai loro villaggi.
Le stesse problematiche vennero sollevate già negli anni ’90 dal Movimento per l’emancipazione del Delta del Niger (MEND) in Nigeria, nato nell’ambito di conflitti locali proprio per lo sfruttamento delle risorse petrolifere e per la mancata equità da parte del governo centrale nella redistribuzione degli introiti. Fu solo grazie ad accordi fra i membri del MEND e le autorità centrali e che portarono a maggior occupazione negli impianti di personale locale e una maggiore redistribuzione ai capi dell’organizzazione dei proventi della vendita del greggio (dai 3 ai 6 milioni di dollari annui), in cambio della cessazione dell’attività armata, che si arrivò alla fine delle azioni criminose, anche se non si pose di certo fine all’inquinamento e allo sfruttamento di quel territorio. Ma a quanto pare più che sensibilità circa la salvaguardia del territorio si trattava solo di pretesti per avere l’appoggio dell’opinione pubblica ecologista internazionale alla loro lotta armata.
Come allora, tuttavia, si tratta della stessa povertà e disperazione, così come della corruzione della classe politica, alla base ora dell’altro flagello della Nigeria, ossia l’elevato reclutamento di giovani da parte del gruppo terroristico Boko Haram, responsabile di violenze sulla popolazione di quel Paese, in nome di un jihad e per l’imposizione della sharia. Il rischio più volte evidenziato dagli osservatori internazionali è che, in contesti come questo, così altamente a rischio di instabilità politica e sociale, ad alta corruzione e soprattutto con forti introiti economici per via delle ricchezze possedute, la presenza di elementi armati, soprattutto se appartenenti a società di sicurezza private straniere, non essendoci un adeguato controllo da parte di un governo centrale, alimenti traffici illegali e addirittura aumenti la violenza criminale, ossia vi sia il passaggio di certi elementi dall’attività di addetto alla sicurezza vera e propria a quella di mercenario.
Al contempo, la presenza di forze militari regolari come quelle statunitensi, britanniche e francesi, è auspicata da più parti ma è a rischio di critica, appunto, di militarizzazione del continente africano. Comunque lo si inquadri, il problema della sicurezza di zone strategiche comporta sempre soluzioni non completamente condivise. Tuttavia, non è nemmeno possibile rimanere inerti e aspettare che quella parte di mondo risolva problemi endemici che sembrano non trovare soluzioni pacifiche e a breve termine.
Di certo si sta assistendo a una forte presenza di personale armato, regolare e privato, in vaste aree marittime, come le acque dall’Estremo oriente, dell’Oceano Indiano sino al continente africano: l’obiettivo è la sicurezza dei traffici commerciali e delle rotte a fronte di un problema, la pirateria, che è propriamente di natura criminale, così come lo sono innumerevoli altre attività che la affiancano, come la pesca intensiva illegale, il trasporto e il commercio di droghe, di uomini e di armi, in un denso intreccio di soggetti, attività e interessi, non solo economici, dal carattere ormai transnazionale. E tale dovrebbe essere una coordinata risposta sia di contrasto del fenomeno criminale che di azione di intervento economico e politico in certi Paesi. In attesa che tutto ciò accada, ben venga l’intervento anche di professionisti privati, a cui è richiesta certamente un’adeguata preparazione, e in grado di contenere i rischi per quel personale civile impiegato sui mercantili o negli impianti di estrazione di petrolio, quotidianamente in pericolo nello svolgimento delle loro mansioni.
14/11/2013
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