Sarà per l’affare Marò, sarà che finalmente, seppur con la lentezza propria dei tempi della politica e della burocrazia italiane, qualcosa si sta decidendo a livello ufficiale, sembra che l’annosa e complessa questione delle scorte armate ai mercantili italiani stia arrivando a una svolta. O almeno, questa è la speranza della Confitarma che rappresenta gli interessi dei nostri armatori, alle prese con l’obbligo di salvaguardare i propri mezzi in aree fortemente a rischio, dagli stretti di Malacca, all’Oceano Indiano fino a quel Golfo di Aden e lo stretto di Bab el-Mandeb, e da lì lungo il Canale di Suez sino al Mediterraneo, messi al momento in sicurezza solo con largo impiego di mezzi militari navali. Le cifre sono notevoli, se si pensa che il 90% dei traffici mondiali avviene per mare, di cui il 50% passa da quei key hotpost come lo stretto di Malacca o il Canale di Suez che, da solo, registra 23mila navi l’anno, di cui 1300 solo italiane.
E’, infatti, di questi ultimi mesi il primo provvedimento attuativo, tanto atteso, della legge 130/2011 e del DM 266/2012 che prevedono, appunto, la possibilità per gli armatori di rivolgersi a compagnie di sicurezza private, solo e quando la Marina Militare italiana non possa essere in grado di offrire il servizio di quei Nuclei Militari di Protezione (NMP), a cui appartengono i due Marò. Nel 2012 sono stati impiegati 15 NMP, con personale della Marina Militare e il supporto di altre Forze armate, per oltre 150 missioni di quella che viene definita “sicurezza sussidiaria”, sventando alcune incursioni (dal 2005 al 2012 sono state attaccate 41 navi italiane e 4 sequestrate), ma senza le garanzie necessarie che sarebbero, invece, previste nel recente decreto attuativo.
Il decreto prevede, infatti, che il numero di vigilantes privati imbarcati su una nave non sia inferiore a 4 unità che, preferibilmente, abbiano prestato servizio nelle forze armate (missioni militari internazionali) e che abbiano superato prove tecnico-pratiche e un corso, coordinato dal Ministero, di addestramento di base sulla sicurezza sussidiaria, di familiarizzazione degli ambienti-nave, di conoscenza delle convenzioni internazionali, oltre ad uno stage finalizzato al contesto specifico d’impiego operativo; naturalmente, la formazione e l’ addestramento dovranno essere certificati e con esiti positivi. Il decreto, inoltre, specifica il tipo di armi (solo portatili individuali anche a funzionamento automatico), di calibro pari o inferiore a 308Win, mentre ancora si aspettano indicazioni sulle norme di comportamento dei componenti dei security team relativamente all’uso della forza a difesa delle navi, sia per quanto concerne avvertimenti dissuasivi di tipo “non cinetico” (lampeggianti, messaggi radio etc) sia per l’utilizzo di colpi di avvertimento con armi da fuoco, sino all’azione letale vera e propria, giustificata solo dall’ipotesi di esercizio del diritto di difesa legittima, così come previsto dall’art.52 del codice penale.
Il tutto è regolato da un contratto fra privati, ossia armatore e agenzia di sicurezza. Ciò dovrebbe ovviare a inconvenienti sia giuridici che operativi che sono emersi prepotentemente con l’affare dei Marò. Infatti, sebbene le NMP offrano una prestazione di servizio finalizzata alla protezione delle navi battenti bandiera italiana, i loro militari sono comunque funzionari di un Paese e operano per esso. Ed è lo stesso Paese che deve rispondere delle loro azioni, come appunto nell’incidente nelle acque indiane. Inoltre, a differenza delle scorte private vincolate dall’art. 52 del codice penale, le scorte dei militari sono soggette al solo codice militare di pace: ciò significa che, nell’azione necessaria di protezione del naviglio commerciale, possono operare invocando una causa di giustificazione che va oltre la legittima difesa strettamente intesa.
Ciò che, comunque, ha reso difficoltosa l’azione delle NMP è la definizione della c.d. catena di comando: infatti, per i militari debbono essere seguite le regole di ingaggio così come predisposte dal Ministero della Difesa, e il team è sottoposto agli ordini del militare più alto in grado che, a sua volta, risponde al proprio comando con base a Gibuti. Le agenzie private, invece, dovranno seguire le istruzioni di chi è stato designato a coordinare il team di sicurezza, e sempre sotto autorità del comandante della nave. Non si tratta solo di uno snellimento nelle procedure operative, quanto una migliore definizione dei soggetti e delle loro responsabilità in azioni comunque armate e in contesti considerati ad alto rischio.
Inoltre, proprio la presenza di personale straniero armato rappresenta la questione più delicata su cui si muove l’intera vicenda delle scorte sulle navi una volta che queste raggiungono acque territoriali e porti: è su questo tema che si presentano i maggiori ostacoli ad un’azione congiunta internazionale alla lotta alla pirateria da parte di numerosi Paesi, soprattutto nell’area del sud-est asiatico, a rischio non solo di pirati ma anche di lotta armata da parte di gruppi terroristici.
Il decreto appena approvato ha così aperto le porte per la sicurezza antipirateria alla moltitudine di agenzie private nel nostro Paese (850 con 52mila dipendenti), ma anche straniere, visto il pronto accreditamento della londinese Triskel (ora presente anche con una sede a Roma) e un suo primo contratto con una compagnia mercantile italiana.
Nel frattempo proseguono, almeno sino al 2014, sia la missione Ocean Shield della Nato che la EU-NAVFOR Somalia-operazione Atalanta di pattugliamento delle acque dal Golfo di Aden all’Oceano Indiano. D’altronde, i risultati di cinque anni di operatività sono stati più che positivi, visto il crollo degli attacchi (dai 228 del 2009, ai 3 del 2013), dovuto anche al continuo incremento di forze e dei loro poteri d’intervento, a cui ora si è aggiunta la possibilità per quelle unità di agire direttamente anche sulle coste somale (per la missione europea che opera su mandato delle Nazioni Unite è possibile inoltrarsi sino a una profondità massima nell’entroterra di 2km) o su richiesta degli Stati rivieraschi del Golfo di Aden (per quanto riguarda la missione Nato), al fine di porre in sicurezza l’intera area anche del mar Rosso.
A queste missioni navali dell’Unione Europea e della Nato si sono affiancate unità militari cinesi, giapponesi, russe, iraniane, indiane e persino pachistane, tutte connesse nel monitorare il traffico marittimo, nell’agire con operazioni di intelligence coordinata, così come nel rispondere in maniera univoca ad eventuali attacchi. La demarcazione, poi, di un International Recommended Transit Corridor, nel Golfo di Aden, ha permesso alle navi militari di posizionarsi e di garantire il transito tranquillo dei mezzi mercantili. Ciò vale, però, solo per quella parte di mare e sembrerebbe ormai non più sufficiente, dato che l’area oceanica da coprire è di 8,3 milioni di kmq: garantire la sicurezza in una così vasta zona operativa attraverso il dispiegamento di unità militari militari sta diventando, però, un impegno esageratamente gravoso, dai 1,5 ai 2 miliardi di dollari annui per ogni singola flotta, a fronte anche di notevoli tagli ai budget militari di molte nazioni.
La possibilità di operare anche sulla terraferma, però, risulta essere un buon supporto nel contrastare il fenomeno in mare, anche se si tratta di un aspetto del tutto anomalo dato che per pirateria si intende, di fatto e secondo la Convenzione di Montego Bay del 1892, un’azione fatta in alto mare, in cui non vi è giurisdizione di alcun Stato (quindi acque internazionali), perpetrata da soggetti privati per fini privati come il lucro, escludendo totalmente il movente politico. Si tratta, infatti, di un mutamento del fenomeno così come lo si era conosciuto e inquadrato storicamente.
L’azione di contrasto di un fenomeno all’apparenza prevalentemente marittimo ma decisamente evoluto negli ultimi anni si sta, quindi, attrezzando anche con operazioni sul territorio: se l’azione di pattugliamento armato nelle acque ha dato i suoi frutti è stato, infatti, anche grazie all’azione di intelligence e analisi svolta a ricostruire collegamenti e connessioni che l’intera faccenda dei pirati somali o jiin ha mostrato di possedere. Ciò è stato necessario per comprendere i mandanti e i finanziatori di quel fenomeno dalle forti interconnessioni e dipendenze dalla criminalità organizzata somala, che prospera anche grazie al sistema di “protezione” dal marcato accento mafioso, dell’attività piratesca: nulla accade in quelle acque e in quei porti che i capi “mafiosi” non controllino, dal “pedaggio per l’attracco” ai porti sino alla decisione di quanto debba venir richiesto come riscatto, oltre allo smercio del materiale sottratto dalle navi.
Non vi sarebbero, quindi, altre finalità per i pirati che il guadagno facile con un giro di affari che, si presume, dal 2008 al 2013, sia stato di 170 milioni di dollari annui (per poi scendere a 30, grazie al contrasto in mare) a fronte di una spesa, dagli iniziali 900 milioni agli attuali 5 miliardi di dollari annui da parte delle compagnie armatrici mondiali per fronteggiare il fenomeno in quelle acque, per la sicurezza delle navi e dei loro equipaggi e relative assicurazioni che ne derivano, con l’inevitabile ricaduta dell’aumento dei costi di trasporto sul prezzo finale delle merci. I costi per le NMP imbarcate sulle navi mercantili italiane, ad esempio, sono a carico dei singoli armatori, per una cifra attorno ai 3000 euro giornalieri per equipaggio, e per un periodo, mediamente, di 10-15 giorni, con aggravi, solo per la scorta armata, di 45mila euro a viaggio.
Il giro d’affari non è profittevole, quindi, solo per i pirati. Stando all’ultimo rapporto delle Nazioni Unite e del working group su crisi e diritti umani, a fronteggiare esclusivamente il fenomeno somalo sarebbero ingaggiate, attualmente, oltre 140 società private (PMSC) e, una stima, di 2700 elementi armati: si tratta di un numero destinato comunque a salire e che vede una vasta partecipazione soprattutto di personale inglese e statunitense, a cui ultimamente si sono aggiunti anche neozelandesi ed australiani, per via di un addestramento militare che risulta molto simile, per cui è più facile l’interoperabilità fra elementi. Una società britannica di sicurezza ha aumentato del 150% l’impiego dei suoi uomini sul mare, arrivando da sola a occuparne 1000 nella scorta alle navi, senza contare il supporto logistico su terraferma che ciò comporta. A ciò, ultimamente, si sono anche aggiunte le scorte armate attraverso battelli privati (se ne contano attualmente 18) in un giro di affari di decine di milioni di dollari, tanto che la pirateria è stata definita dal management della G4S, la più potente agenzia di sicurezza privata al mondo, come “una grande opportunità commerciale”. Quello del contrasto alla pirateria sarebbe, comunque, solo una piccola parte di un giro di affari dell’impiego della sicurezza privata mondiale in aree di crisi, conflitto e postconflitto, il cui aumento è del 7,4% l’anno, tanto che è prevista che diventi, entro il 2016, un’industria da circa 245 miliardi di dollari annui.
Nel caso somalo non si tratta, comunque, solo dei rischi per i mercantili derivanti dall’ attività armata criminale nelle acque antistanti l’Africa orientale.
L’azione di intelligence, sebbene con notevoli difficoltà che ancora sussistono in quella regione, ha permesso di individuare addirittura collegamenti fra i capi dei jiin e della malavita locale con investitori al di fuori del territorio somalo che, in una specie di “Borsa valori” parallela e attraverso il sistema hawala, proprio della finanza islamica, operano con scommesse su possibili azioni, come in una sorta di futures e per puro business. L’arresto in Belgio, il mese scorso, di Mohammed Abdi Hassan, considerato un capo della pirateria somala e trafficante di qat, ossia una droga locale a forte effetto psicotropo e di dipendenza, ha evidenziato parte dell’aspetto “economico” dell’attività di sostegno alla pirateria, organizzata da questi capi come una grande azienda finanziaria dai collegamenti internazionali e dal forte sostegno politico interno somalo, che ha permesso, ad esempio, ad Hassan di ottenere l’appoggio, per la sua liberazione dalle carceri malesi in cui era rinchiuso nell’aprile del 2012, dell’ex presidente Sharif Sheikh Ahmed, di cui era addirittura consulente per la politica antipirateria e negoziatore fra Stato, clan locali e jiin, a cui, parallelamente, vendeva qat e, nel contempo, garantiva finanziatori per le spedizioni in mare.
Non vi sarebbero, quindi, da parte dei pirati velleità terroristiche come si era temuto fin dall’inizio del fenomeno, ipotizzando collegamenti fra jiin e il gruppo al Shabaab, ad esempio, ma si tratterebbe solo ed esclusivamente, per ora, di una nuova dimensione di azione criminale mafiosa alimentata dalle necessità immediate di sopravvivenza per chi abita in quelle zone estremamente povere, disagiate e afflitte dalla corruzione, e per chi , invece, ad un livello più elevato trova in essa una facile fonte di guadagno, speculando fuori da quella regione.
Infatti, i collegamenti di cui si è venuti a conoscenza tramite l’intelligence riguarderebbero capi della criminalità somala e quella organizzata internazionale, fra le quali la ‘ndrangheta calabrese e la sacra corona unita pugliese: i somali utilizzerebbero le loro comunità sparse nel mondo, in particolare nella Penisola Arabica, per far fruttare i proventi dell’attività di pirateria del Golfo di Aden in operazioni speculative, tanto che il giro di affari sarebbe superiore ai bilanci annui della stessa Somalia. Le organizzazioni malavitose italiane, invece, avrebbero ottenuto il lasciapassare dei criminali somali per scaricare rifiuti tossici in quel Paese, a fronte di lauti guadagni (per un giro di affari da 25 milioni di dollari annui) e di approvvigionamenti di armi, provenienti per lo più dal mercato nero dei Balcani, in cui gioca un ruolo determinante la mafia russa, in stretto contatto con finanziatori residenti soprattutto negli Emirati Arabi e nel Regno Unito. In questo contesto e per questi traffici, la pirateria somala assume esclusivamente l’aspetto di criminalità a stretti legami e connessioni internazionali e transnazionali. Secondo alcuni osservatori, e in maniera quasi paradossale, proprio la collaborazione con i malavitosi italiani avrebbe di fatto imposto un freno all’attività piratesca somala, al fine di evitare l’incremento del pattugliamento militare delle acque antistanti le coste da parte delle missioni internazionali e di unità navali di vari Paesi. Insomma, l’attività criminosa necessità di tranquillità e non certo di monitoraggio continuo da parte di forze militari. Tuttavia, per quanto in parte veritiera, questa interpretazione del calo dell’attività piratesca non spiega l’incremento del giro di affari della pirateria somala, ma solo il suo spostamento operativo verso altre acque.
Infatti, il forte giro di affari finanziari che comunque si è venuto a creare con le connessioni criminose internazionali ha permesso di mutare anche le tecniche di abbordaggio e di sequestro, data la possibilità di disporre di più uomini, più e meglio armati di un tempo, dimostrando inoltre più determinazione in negoziazioni rese più difficili a causa delle richieste di riscatto elevate e soprattutto dell’ampliamento della zona operativa che va, ora, dalle acque somale al Mar Arabico, sino alle coste dell’ Oman e dello Yemen e dello stretto di Bab-al Mandeb.
Inoltre, proprio l’azione da parte delle forze militari navali di contrasto alla pirateria-criminalità somale anche sulla terraferma ha però fatto spostare pericolosamente la sua attività verso l’entroterra: i villaggi a ridosso delle coste sarebbero ora i più vulnerabili allo scarico di rifiuti tossici o al traffico di droghe e di armi, con le inevitabili conseguenze sulla popolazione civile. Da qui la necessità di contrastarne ulteriormente l’azione criminosa sulla terraferma, in cui povertà e disperazione convivono con corruzione e malaffare, vista la capacità della pirateria di adattamento e in mancanza di alternative anche economiche valide in grado di togliere terreno fertile al reclutamento di nuovi elementi, per lo più giovani. Infatti, il pericolo è dato dalla sostituzione di questi capi jiin, sempre più potenti economicamente, allo Stato somalo nel sostegno alla primaria sussistenza della popolazione, con relativo appoggio “politico” di capi clan, da cui l’inevitabile aumento dell’ingovernabilità dell’intero Paese.
Proprio per sopravvivere alla miseria e per sfuggire al controllo della malavita organizzata, ex pirati si sarebbero messi al servizio come guardie armate di pescherecci battenti bandiere straniere e a pesca illegale in quelle acque, soprattutto somale. In cambio di denaro in contante o addirittura cibo, costoro offrono protezione armata e una sorta di consulenza nell’indicare le zone di migliore pesca, essendo per lo più ex pescatori. Per costoro, l’alternativa alla povertà è, infatti, solo la lotta armata al servizio di gruppi terroristici: ma si tratta dell’ultima e disperata soluzione, proprio perché i rapporti fra la popolazione somala e il terrorismo sono alquanto contraddittori e l’ attitudine alla lotta armata non è così scontata come è apparsa dalle cronache degli ultimi decenni.
Paradossalmente, e contrariamente a quanto comunemente viene affermato, i pirati somali, dai capi sulla terraferma alla manovalanza che agisce nelle acque, non hanno un buon rapporto con gruppi armati islamici come al Shabaab: non è un caso che nel momento in cui i gruppi islamisti più radicali controllavano alcune regioni costiere, il fenomeno “pirateria” crollava del 50%, perché l’avidità piratesca mal si concilia con lo Xeer, il sistema giuridico tradizionale somalo, e la Sharia, a cui invece fanno deciso riferimento gli appartenenti all’ al Shabaab. Tuttavia, anche l’evoluzione di questo gruppo, la sua affiliazione ad al Qaeda e l’ampliamento del sostegno popolare alla sua lotta, fanno sì che al Shabaab stia mutando il suo approccio a una fonte importante di guadagno facile come le scorribande criminali in mare. In pratica, sino ad ora, si può affermare che il pirata somalo non è un terrorista e non agisce per scopi politici, ideologici o rivoluzionari; al contrario, però, l’appartenente ad un gruppo terrorista, e non solo somalo (di cui abbonda quella parte di Africa) può diventare un pirata per necessità e per sostenere il suo gruppo e la sua lotta. Ecco che la sfida importante e più urgente, ora, nel contrastare il fenomeno piratesco è proprio la definizione di una strategia di lotta sulla terraferma, sbaragliando le nuove forme con cui si presenta, viste le sue capacità di adattamento alle nuove attività di contrasto.
Rimane, infine, l’incognita circa i risultati dei processi a quella che è la manovalanza della pirateria somala, soprattutto di quella portata in tribunale in Paesi come Stati Uniti, Paesi Bassi, Germania, Francia sino a Kenya e Seychelles (di 1000 pirati catturati in azione sulle navi in acque internazionali, solo 500 sono stati processati, di cui alcuni anche in Italia), data la richiesta di costoro del riconoscimento del diritto di profughi da zona di conflitto, a cui si aggiunge l’effetto deterrente praticamente nullo in Somalia di eventuali condanne, data la distanza geografica che separa quel Paese dalle corti penali europee o statunitensi.
Lo stesso vale per i pirati catturati sul territorio somalo (nel Puntland, 290 condanne, Somaliland 94) di cui non vi è riscontro oggettivo del modo con cui si sono svolti i processi e la fine fatta dagli imputati. Il più delle volte, inoltre, si preferisce rilasciare i pirati una volta catturati al largo delle coste, oppure trattenerli in condizioni di detenzione semipermanente sulle navi stesse, come è accaduto a 71 somali catturati da navi statunitensi.
Ciò a significare che la strada del diritto, a livello internazionale, è pressoché inutilizzabile a fini di deterrenza del fenomeno che non può che trovare una soluzione prettamente sul territorio, e non solo più ed esclusivamente in mare aperto. Qualcosa si sta muovendo in tale senso: non si tratta solo di una migliore organizzazione del pattugliamento delle coste (ed è di questi ultimi mesi la decisione del governo di transizione somalo di affidare a una società olandese, l’Atlantic Marine and Offshore Group, la formazione di personale di guardiacoste, con la dotazione di relativi mezzi e organizzazione) ma anche di attiva collaborazione fra capi clan e governi locali per evitare che i territori da loro controllati diventino quei santuari da cui partono azioni di pirateria in mare e con la popolazione delle coste ostaggio della malavita organizzata. Si tratta di un lungo lavoro di presa di coscienza da parte della popolazione locale e, parallelamente, di messa in sicurezza di zone ad alto rischio di infiltrazioni malavitose, a fronte della minaccia di interventi armati esterni, come è accaduto nel maggio 2012, con un’azione “mirata, precisa e proporzionata” di bombardamento da parte di unità aeree della missione Atalanta, e in accordo con il governo di transizione somalo, di postazioni criminali di sostegno alla pirateria e che ha avuto come obiettivo basi e depositi di equipaggiamento dei pirati.
Quanto deciso circa il prolungamento delle missioni Ocean Shield della Nato e EU-NAVFOR Somalia-operazione Atalanta palesa certamente la consapevolezza che il rischio pirateria permane e che la presenza costante di mezzi militari navali garantisce che chokepoint così strategici come il Golfo di Aden e Bab el-Mandeb, si risolvano a non ritornare ad essere più quei key hotposts della pirateria mondiale, così come sono diventati famosi negli ultimi anni.
Tuttavia, è anche chiaro che non è possibile il pattugliamento marittimo con questo tipo di missioni in modo tale da permettere un controllo capillare e completo di tutti i mari a rischio pirateria. Anche perché il fenomeno si sta ampliando e radicalizzando in così vaste aree e con caratteristiche “operative” così differenti da imporre, per ciascuna parte di zona geografica, considerazioni a parte sia di carattere pratico nel contrastarlo sia di quelle proprie della geoeconomia e della politica mondiale.
Di conseguenza, l’adeguamento dell’Italia ad altre nazioni circa la possibilità per gli armatori di ricorrere ad agenzie di sicurezza private per la difesa dei propri mezzi sembra risolversi come una via obbligata, meno impegnativa giuridicamente e finanziariamente per i singoli Paesi, ma più efficiente almeno per quanto riguarda la difesa di equipaggi, beni e mezzi in navigazione in certe acque.
Rimane fermo un punto che, comunque, non è ancora ben compreso e regolamentato a livello di legislazione internazionale, ossia che l’intera faccenda della pirateria non può che inquadrarsi in un contesto di prevenzione-protezione-contrasto, in cui, al momento, e soprattutto nel caso della pirateria del Golfo di Aden, sembra solo emergere prepotentemente l’ultimo aspetto, ossia il contrasto, e in maniera ancora troppo confusa e arbitraria il secondo, ossia la protezione, quando la sfida più importante, come sempre nel caso di realtà a forte rischio, non può che giocarsi sulla prevenzione, in loco, dei fenomeni criminosi e violenti, che si tratti di pirateria, traffico di armi, di droghe e di esseri umani oppure, addirittura, di terrorismo. Ma se questa consapevolezza ha permesso di agire con risultati positivi in alcune zone a rischio pirateria – come nel caso dello stretto di Malacca, ad esempio - in altre acque il fenomeno è ancora più che mai prospero, come nel Golfo di Guinea, e rappresenta la vera sfida alla sicurezza degli interessi energetici ed economici mondiali dei prossimi anni.»
9/11/2013
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