Uno dei compiti più difficoltosi ma sicuramente più coinvolgenti per un osservatore di relazioni internazionali è cercare di individuare chi siano i responsabili della regia di quanto avviene nelle aree da loro analizzate. Si tratta di un impegno diventato sempre più complesso dopo la fine della guerra fredda e del suo “semplice” confronto fra due Superpotenze, soprattutto per via della inarrestabile evoluzione di un sistema mondiale dai molteplici soggetti, più o meno potenti, con innumerevoli istanze non più esclusivamente ideologiche ma più intimamente sociali e religiose, e soprattutto con una gran parte di mondo, quello Occidentale, fortemente debilitato a causa degli effetti depressivi sui bilanci militari nazionali dovuti alla sua pesante crisi economica.
Questa incombenza del cercare di capire “chi sta dietro a chi” è da sempre molto gravosa nello scenario mediorientale: si è ulteriormente complicata nell’ultimo ventennio, ma è diventata ancora più complessa negli ultimi anni per via di innumerevoli attori e componenti di difficile individuazione anche fisica – si pensi all’intera questione del fenomeno del terrorismo di matrice islamica, con le sue differenti fasi organizzative, operative e logistiche, e di contrasto internazionale – e per via dei meccanismi propri della globalizzazione, dai nuovi strumenti di divulgazione delle informazioni a quelli di aggregazione sociale.
La storia delle rivolte degli ultimi due anni dal Nord Africa al Medio Oriente, e di quanto sta evolvendo, è significativa al riguardo. L’interesse a capire chi opera dietro a certi fenomeni o li strumentalizza per fini diversi da quelli che appaiono non è frutto di un approccio complottista, quanto la piena consapevolezza dei meccanismi propri della politica internazionale soprattutto in quelle aree da oltre sessant’anni teatro di guerre per procura e dalle variabili endogene in apparenza immobili e immutabili ma in realtà fortemente attive e volubili.
Uno dei soggetti più interessanti al riguardo è l’emirato del Qatar che da alcuni anni si sta distinguendo dal resto dei Paesi della Penisola Arabica per un notevole attivismo interregionale, tanto da mettere in secondo piano un altro grande protagonista dell’area, ossia quell’Arabia Saudita dalle enormi valenze, addirittura mondiali dato il suo strategico apporto alla politica degli Stati Uniti nei confronti del mondo musulmano, dal Medio Oriente all’Asia Centrale. Si tratta di un bel testa a testa fra due potenze regionali che data ormai di un ventennio, ma che ha visto ultimamente emergere prepotentemente il regno del Qatar a scapito dell’influente dinastia dei Saud.
O per lo meno, questo è ciò che appare.
Il Qatar è assurto agli onori delle cronache nelle ultime settimane per due fatti molto rilevanti e, in apparenza, dalle motivazioni distanti fra loro: la successione al trono dello sceiccato del trentenne Tamin bin Hamad al-Thani, che subentra al padre dimissionario, e l’attacco, al Cairo, della sede dell’emittente qatarina al-Jazeera da parte dei manifestanti Tamarrud - poi chiusa dagli stessi militari che hanno deposto Morsi - in chiaro segno di disapprovazione del sostegno dato dal Qatar a quel governo di un presidente, comunque democraticamente eletto, e ai Fratelli Musulmani che lo appoggiavano e ampiamente presenti nell’esecutivo.
I due fatti sembrano coronare un periodo piuttosto infausto per il Qatar. La stessa abdicazione al trono di Hamad bin Khalifa al-Thani a favore del figlio - anche se dovuta, pare, per motivi di salute - rischia di rendere più difficoltoso il ruolo di potenza, sebbene soft, di questo sceiccato. Fra i più giovani regnanti del Golfo (non vi è sovrano sotto i 63 anni, ma addirittura sono tutti oltre gli 80 anni) e artefice della trasformazione di quella esigua penisola in una protagonista sulla scena economica e finanziaria mondiale (anche grazie alle possenti riserve di gas) e in quella politica regionale, Hamad bin Khalifa al-Thani è stato l’ artefice e finanziatore di quella al-Jazeera dall’indubbia influenza sull’intero mondo arabo e musulmano di cui, in poco meno di vent’anni, è riuscita a diventare al contempo portavoce ed elemento coesivo proprio di quella che è una realtà tanto diversa e disarticolata perché dilaniata da divisioni e lotte intestine. Non è casuale, infatti, che la rabbia di parte della piazza egiziana si sia rivoltata anche contro al-Jazeera: essa è diventata, nel tempo, espressione dell’ambizione politica - clamorosamente e inversamente proporzionale alle dimensioni geografiche del piccolo regno del Golfo - e fra le prime a celebrare la caduta di Mubarak e a sostenere le masse arabe nelle loro rivolte del 2011. Tuttavia, il suo stretto legame con i Fratelli Musulmani, tanto da farla definire al-Jazeera Ikhwan (che in arabo sta, appunto, per Fratellanza) l’ha resa invisa ora a gran parte degli egiziani e a pressoché tutti i regnanti del Golfo. In Egitto, infatti, la rete qatarina si è trasformata dalla iniziale voce “pro-rivoluzione contro il regime di Mubarak” a una “pro-governo Morsi con i Fratelli Musulmani”, permettendo a costoro una esposizione mediatica senza precedenti. Non è un caso che il testa a testa fra Doha e Riyadh, soprattutto sulla situazione egiziana, sia stato giocato anche a colpi di emittenti, con la saudita al-Arabiya (anch’essa di proprietà della famiglia regnante) in grado di sostenere, fino all’ultimo, il vecchio regime di Mubarak per impedire la scalata di forze islamiste, come appunto quelle dei Fratelli Musulmani, percepiti non come alleato ma come potenziale minaccia all’interezza della realtà politica laica della Penisola Arabica.
Il forte appoggio del Qatar all’Egitto dei Fratelli Musulmani non è stato solo mediatico, ma anche finanziario (circa 10 miliardi di dollari che hanno permesso, tra l’altro, di dotarsi di F16 e carri M1A1 Abrahms) e che sarebbe stato interpretato, da alcuni osservatori, solo ed esclusivamente come una piattaforma per Doha da cui partire per aumentare la propria influenza a livello regionale. Insomma, un semplice investimento finanziario che rischia però di rivelarsi un vero flop, tant’è che la prima azione del giovane emiro è stata quella di licenziare il cugino Hamad bin Jassin al-Thani (noto come HBJ) come ministro degli esteri e considerato l’artefice dell’appoggio al Qatar a tutto l’insieme dei ribelli dalla Libia alla Siria, passando dai Fratelli Musulmani dell’Egitto di Morsi, tanto che nelle piazze di Tripoli, Il Cairo e persino a Beirut si è vista sventolare la bandiera qatarina accanto a quella nazionale. Lo stretto connubio fra affari, politica estera e ambizioni regionali del Qatar è dimostrato dal fatto che HBJ fosse anche a capo della potente Qatar Investments Authority (QIA), la cui politica di interventi all’estero rappresenta, da anni, il principale canovaccio su cui Doha intesse le sue relazioni internazionali, per lo meno quelle più palesi ed evidenti. Perché quelle con i Fratelli Musulmani egiziani sono solo la punta, e quella manifesta, di un iceberg che rappresenta un complesso modo di intervenire da parte di questo piccolo regno, dal Vicino Oriente all’Africa e che vede il Qatar anche coinvolgersi in conflitti come quello in Mali, attraverso finanziamenti a gruppi salafiti jihadisti come Ansar al Din, non solo in funzione anti-sciita e anti-iraniana in quella parte di mondo, ma anche e soprattutto per scippare all’Arabia Saudita il controllo di movimenti estremisti sunniti in Africa occidentale.
E’ proprio questo controllo sull’antagonismo religioso e sulla complessa galassia di gruppi, più o meno attivi e leciti, o addirittura dediti alla lotta armata per il jihad, che si colloca il confronto fra Qatar e Arabia Saudita a suon di ingenti finanziamenti distribuiti a pioggia sui movimenti di protesta, soprattutto se fuori dalla Penisola Arabica, ad eccezione dello Yemen, come si vedrà in seguito. Questo antagonismo, infatti, si frena là dove, come in Bahrein, la rivolta della popolazione sciita contro la casa regnante, sull’onda delle altre rivolte arabe, ha visto intervenire congiuntamente Arabia Saudita e Qatar, con l’invio di proprie unità dell’esercito per reprimere brutalmente quella sommossa. Il monito è chiaro: tutto può essere rivoluzionato e scardinato tranne il potere delle case regnanti della Penisola Arabica. E vi sono solo due strumenti: la forza delle armi per reprimere gli oppositori del potere costituito e gli ingenti finanziamenti per sostenere, invece, chi può servire a garantire la supremazia, anche solo regionale. Tuttavia, questo approccio sta già mostrando alcuni limiti: il rapporto fra Qatar e l’estremismo musulmano o i movimenti di protesta sunniti si sta, infatti, rivelando alquanto instabile e altalenante, vista la recente attrazione dei Fratelli Musulmani verso l’Arabia Saudita che dispone di una ricchezza finanziaria ben più ragguardevole rispetto al già potente Qatar, con tutto ciò che ne consegue, oltre al fatto che il regno dei Saud ospita due siti sacri all’islamismo e 1 milione e mezzo di egiziani.
L’atteggiamento saudita nei confronti dei Fratelli Musulmani è, però, differente rispetto a quello del Qatar ed è essenzialmente di diffidenza e risale all’appoggio di costoro all’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein nel 1990, accusati allora di incoerenza nei confronti dell’unità del mondo arabo e di opportunismo politico. Il timore, inoltre, sia dell’Arabia Saudita come delle case regnanti del resto della Penisola Arabica, in particolare degli Emirati Arabi Uniti, sta nel rischio che la Fratellanza porti direttamente la regione nell’orbita dell’Iran, e con quanto ne consegue per le sorti dei loro Paesi, come insegnano le esperienze siriana e irachena. Non è un caso, infatti, che proprio nelle carceri degli Emirati Arabi Uniti vi siano, da tempo, detenuti considerati anche solo presunti affiliati alla Fratellanza, a dimostrazione di quanto sia temuta la loro influenza per la stabilità interna di quei regni.
Da qui, l’ennesima discrepanza fra Qatar e resto dei Paesi del Golfo, dato che gli Emirati non hanno gradito sin dall’inizio Morsi e la sua alleanza con i Fratelli e l’apertura delle relazioni diplomatiche che Morsi stava tentando con l’Iran di Hassan Rowhani per un riavvicinamento fra i due Paesi.
Ma ora vi è anche la popolazione egiziana a non accettare più l’interferenza del Qatar. Ed è soprattutto questo atteggiamento di amichevole buon vicinato del Qatar con l’Iran che fa anche temere l’Egitto dei Tamarrud. Certamente la posizione geografica e la condivisione di fondali ricchi di gas, ossia il South Pars/North Dome, impongono relazioni per lo meno caute fra i due Paesi tanto che, nel 2010, vi è stata la firma di un accordo di difesa fra Doha e Teheran.
Tuttavia, sono altri ancora i fattori che vanno a minacciare le mire di supremazia del piccolo emirato. Si incuneano, infatti, in questo piano di egemonia regionale del Qatar due fattori che si rifanno più a valenze di tipo militare e di sicurezza dell’area intera, che va dal Golfo Persico al Vicino Oriente: si tratta della guerra siriana e del ruolo del Qatar come avamposto della potenza statunitense in quella parte di mondo.
Infatti, oltre all’Egitto del dopo Morsi, al Qatar non va meglio neppure in Siria, dove l’emirato sostiene, ufficialmente e con ingenti sussidi finanziari, i movimenti di opposizione al regime e a stretto contatto con i Fratelli Musulmani mentre, meno esplicitamente e con l’invio di armi (almeno dall’inizio del 2012), lo stesso Comando militare della Coalizione siriana anti-Assad. Secondo fonti anonime di funzionari alla sicurezza qatarini, la distribuzione di queste armi sarebbe gestita direttamente da esponenti di Doha sul territorio siriano per via della preoccupazione dell’emirato che quel materiale possa finire in mano a elementi dell’estremismo islamico legato ad al Qaeda. E’, infatti, una preoccupazione più che fondata, dato che quelle forniture sarebbero già andate a sostenere pesantemente proprio quel Jabhat al-Nusra, attivo da tempo in Siria proprio come derivazione di al Qaeda in Iraq (AQI), e quei gruppi salafiti jihadisti che sostengono effettivamente la rivolta della Coalizione ma che, forti del supporto esterno, stanno prendendo il sopravvento sull’azione dei ribelli regolari e moderati, con il rischio di derive estremiste di antagonismo religioso. Secondo gli osservatori più critici, il supporto con armi da parte del Qatar all’opposizione siriana avrebbe portato, quindi, negli ultimi mesi, ad un ulteriore innalzamento del livello degli scontri, con il trascinamento del Libano nel conflitto per via del ruolo sempre più attivo degli Hezbollah sciiti a contrastare l’azione dell’estremismo sunnita salafita di al-Nusra. In quest’ottica rientrerebbero gli ultimi attentati alla periferia di Beirut. Tutto ciò non farebbe che allontanare ulteriormente il raggiungimento dell’obiettivo di destituire Assad.
Insomma, nessuno degli intenti della politica di sostegno del Qatar alla guerra siriana sembra essere stato raggiunto. E il desiderio del vecchio emiro Hamad bin Khalifa al-Thani di andare a pregare presto nella moschea di una Damasco, liberata dal regime di Assad, sembra non avverarsi nei tempi da lui sperati.
Non si tratta, comunque, di una défaillance solo qatarina. Il Qatar ha, infatti, un destino di potenza regionale che gli deriva dai forti legami con gli Stati Uniti e che risalgono al 1972, ossia in un periodo in cui il conflitto arabo-israeliano era in pieno svolgimento, tanto da risolversi, l’anno seguente, in un ennesimo conflitto, quello del Kippur, e nella sciagura del terrorismo che da poco aveva assunto i caratteri di quel Settembre Nero che avrebbe scosso i già delicatissimi equilibri fra Israele e i suoi vicini, dalla Giordania al Libano, oltre alla Siria. Da allora, il Qatar è stato l’avamposto per eccellenza della potenza militare statunitense a ridosso dello stretto di Hormuz e verso una Penisola Arabica all’apparenza stabile e immutabile, ma dagli avvenimenti in continua evoluzione, non solo durante la guerra fredda (con il durissimo conflitto Iran-Iraq degli anni ’80 come palese confronto, anche se con equilibri altalenanti, fra le due Superpotenze), ma soprattutto dagli anni ’90 - è del 1992 la firma di un patto bilaterale di difesa fra Stati Uniti e Qatar - passando dalle vicende belliche legate all’Iraq di Saddam Hussein, al terrorismo di Osama bin Laden in tutte le sue evoluzioni e manifestazioni, sino appunto ai recenti avvenimenti di rivolte e guerre civili. Inoltre, dopo l’11 settembre e per via della diffidenza di Washington nei confronti della lealtà di Riyadh a causa del saudita Osama bin Laden, gli Stati Uniti hanno preferito sganciarsi da una impostazione regionale di difesa pressoché esclusivamente concentrata sul regno dei Saud per cercare altri alleati fra le monarchie del Golfo.
E per l’aspetto più propriamente militare, oltre al Bahrein, la scelta di Washington si è concentrata negli ultimi due anni principalmente sul Qatar. Infatti, sebbene in Bahrein sia dislocata la Quinta Flotta, operativa dal Golfo Persico al Mar Arabico e sino alle coste del Kenya, gli scontri interni fra popolazione sciita e casa regnante sunnita non stanno garantendo la sicurezza e la stabilità necessarie a potenziare la presenza militare statunitense nell’area, portando così a un consistente rafforzamento del Qatar per un più importante sostegno strategico agli Stati Uniti nella regione.
Il Qatar ospita, infatti, un CENTCOM Forward HQ e l’US Combined Air Operation Center che agisce attraverso la Ail Udeid Air Base e l’ Assaliyah Army Base (mentre la Doha International Air Base è stata attiva sino al 2004), utilizzate come critical forward deployed location nella regione: da quelle basi partono le operazioni giornaliere per l’Afghanistan, le aree tribali pachistane e lo Yemen. Con queste presenze, coordinate con altre unità simili in Turchia e Israele, e con postazioni radar di difesa missilistica posizionate sul suo territorio, data l’acquisizione dal Pentagono del sistema THAAD (Terminal High Altitude Area Defense), il Qatar garantisce un arco di difesa che, secondo Washington, dovrebbe essere deterrente per attacchi soprattutto se provenienti dal vicino Iran. A questa dotazione, adatta per un più ampio quadro strategico, e prevista da 4 accordi con Washington del dicembre 2012, si sarebbero aggiunte quelle di 24 elicotteri da combattimento AH-64 D Apache Longbow e 700 missili Hellfire, a cui dovrebbero affiancarsi aerei da trasporto C-17 Globemaster III, il cui scopo ufficiale, ma decisamente generico, è “rimpiazzare le vecchie dotazioni con altre capaci di soddisfare le diverse esigenze”. Inoltre, il Qatar si è rivolto alla Germania per l’acquisto di armi e carri per il riammodernamento del proprio Esercito che, seppur di dimensioni decisamente limitate (8500 uomini), sembra destinato a un ruolo sempre più attivo nella regione.
Con queste premesse e per via della sua storia di relazioni con gli Stati Uniti è pressoché impossibile immaginare che il piccolo regno del Golfo possa agire indipendentemente e meno che mai contro i piani statunitensi nella regione. Tuttavia, il Qatar non è solo una postazione altamente militarizzata degli Stati Uniti nelle acque del Golfo Persico e dello stretto di Hormuz. Sempre con il benestare di Washington, il regno di Doha si è posto come interlocutore-mediatore con soggetti quali gli stessi Stati Uniti, i talebani afgani e il governo di Karzai, così come ha ospitato la dirigenza di Hamas fuggita dalla guerra siriana e rifugiatasi, appunto, a Doha.
La lettura più critica fatta dagli osservatori è che il Qatar stia agendo per mano statunitense, viste le notevoli difficoltà finanziarie di Washington che gli impedirebbero di agire militarmente in modo diretto. Secondo un’altra versione - ed è la più diffusa - non vi sarebbe una chiara e determinata presa di posizione da parte dell’amministrazione Obama sul teatro mediorientale, deciso così a rimanere coerente a quel leading from behind, com’ è avvenuto per i fatti libici - benedicendo in tal modo la fornitura di armi da parte del Qatar proprio alle forze anti-Gheddafi - e che sembra caratterizzare gli interventi fuori area dei suoi mandati. E’ lo stesso atteggiamento statunitense che non è intervenuto quando il Qatar ha permesso che parte dell’arsenale di Gheddafi venisse trasferito ai ribelli siriani, e non solo non islamisti, con gli effetti ben noti di innalzamento del livello del conflitto: la conseguenza più incresciosa è stata, infatti, la polarizzazione settaria dello scontro, con instabilità dilagante e conseguente allargamento del conflitto ad altri Paesi, come il Libano. In pratica, l’atteggiamento del Qatar, affiancato da quelle che paiono incertezze dell’amministrazione Obama, potrebbe portare a imbrigliare gli Stati Uniti nei conflitti regionali dell’area mediorientale e nordafricana, con conseguente instabilità dilagante e inevitabile innalzamento di un antiamericanismo che sta alla base di azioni soprattutto terroristiche.
Di certo, al Qatar piace da tempo intromettersi nelle vicende altrui. Lo si è visto nella mediazione per la crisi del Darfur, già nel 2011 e poi ancora in un tentativo di piano per la ricostruzione e lo sviluppo, nell’aprile scorso: troppi fattori non adeguatamente considerati, come l’irrisolta conflittualità fra etnie arabe e nere che ancora persiste e lacera quella parte di territorio sudanese, a fianco di politiche di intervento esclusivamente finanziarie ma senza una garanzia di sicurezza interna, hanno fatto fallire l’azione di Doha e di certo hanno fatto perdere ulteriore tempo in una situazione già di per sé urgente e drammatica.
Non meno sfortunata è stata la mediazione fra al-Fatah di Abu Mazen ed Hamas di Khaled Mesh’al dell’inizio 2012 e che ha dato origine a quella Dichiarazione di Doha che sembrava portare quasi a una pace fatta fra i due storici contendenti palestinesi e per un governo di unità nazionale per migliori rapporti fra quel popolo e i loro vicini. Ciò che più premeva era l’allontanamento di Hamas da una possibile alleanza con gli Hezbollah, sostenuti dall’Iran: alla vigilia di un possibile scontro fra quest’ultimo e Israele e, in seguito, con i fatti siriani, l’accordo fra fazioni palestinesi sembrava essere un modo anche per indebolire il fronte iraniano nella regione. Anche la dichiarazione di Doha ora è lettera morta: l’unico elemento che pare si sia concretizzato, seppur fra mille difficoltà dovute soprattutto alla chiusura dei confini da parte di Israele, è l’avvio di forti investimenti proprio della casa regnante in Qatar per la ricostruzione di Gaza, con tanto di visita “umanitaria” dell’emiro nell’ottobre del 2012.
Ma è ancora in un altro contesto, e fra i più caldi, della regione che la competizione fra Doha e Riyadh è meno evidente ma dalle numerose incognite, ossia lo Yemen. Secondo alcuni analisti, i due regni si contenderebbero le riserve di greggio yemenita la cui rendita, per via della crisi politica interna e i cambi al vertice dopo le rivolte, è in costante declino. Una situazione, quindi, che appare drammatica per le sorti del già povero Stato dell’estremità occidentale della Penisola Arabica, obbligato a importare greggio dal vicino regno saudita, e che vede gli aiuti finanziari provenienti dall’esterno, in particolare dagli Stati Uniti in funzione di lotta al terrorismo al qaedista, piuttosto attivo su quel territorio, finire per lo più a contrastare le lotte tribali e secessioniste interne.
L’appoggio finanziario del Qatar, secondo alcuni osservatori, andrebbe inoltre proprio ai Fratelli Musulmani yemeniti, con i quali Doha intrattiene forti legami. Tuttavia, la Fratellanza yemenita, nella provincia orientale di Hadhramawt, con quei finanziamenti darebbe l’appoggio ai militanti al qaedisti e dell’Ansar al-Sharia, che in quella regione operano assiduamente alla ricerca di una via più sicura per i traffici di uomini e di armi dalla Penisola Arabica, appunto, all’Africa Orientale, in particolare con il gruppo somalo al-Shabab.
Inoltre, secondo fonti di intelligence, proprio il Qatar avrebbe reclutato militari (provenienti dalle Guardie Repubblicane yemenite) di comprovata esperienza e oppositori del nuovo presidente Hadi, subentrato al deposto ed ambiguo Saleh, per istruirli come forza paramilitare da inviare sul teatro siriano, offrendo ingaggi molto sostanziosi a questi contractor esclusivamente arabi. Secondo alcune fonti giornalistiche, ma non confermate, la forza di yemeniti ingaggiata dal Qatar si aggirerebbe sui 10mila uomini.
L’intreccio fra queste potenze regionali, Qatar e Arabia Saudita, l’appoggio o il contenimento del terrorismo, i cospicui finanziamenti, i traffici di uomini e di armi, e tutto sul suolo yemenita sono, però, arrivati a coinvolgere pericolosamente anche un soggetto come l’Iran. Infatti, proprio l’Arabia Saudita ha notevoli problemi di sicurezza lungo i suoi confini con lo Yemen per via dell’azione dei ribelli Huti, sciiti appoggiati dall’Iran, che rivendicano parte del territorio in area saudita e l’indipendenza da Sana’a. Inoltre, proprio Teheran appoggerebbe, con notevoli forniture di armi intercettate dalle forze di sicurezza yemenite, anche le rivendicazioni secessioniste del sud del Paese.
Sulla questione del conflitto fra gli Huti, filoiraniani, e il governo centrale di Sana’a, il Qatar si era posto come mediatore già nel 2010, cercando di raggiungere un compromesso per un cessate al fuoco e allentando i cordoni della borsa per garantire cospicui finanziamenti ad un Paese sull’orlo della bancarotta, ma soprattutto a rischio di rivolta. Tuttavia, non solo Doha non era riuscita a far cessare il conflitto ma, al contrario, per via dei toni esacerbati, vi sarebbe stata una maggiore intromissione dell’Iran a supporto dei ribelli, così come l’intervento finanziario non avrebbe calmato l’ opposizione al governo di Saleh, poi destituito.
L’azione del Qatar di apertura verso entità filo-iraniane nella regione, in particolare dall’inizio della crisi in Siria e poi man mano con gli avvenimenti in Yemen, sarebbe stata voluta da Doha, secondo alcuni osservatori, proprio come manovra per attrarre forze destabilizzanti presenti nell’area, sottraendole così al controllo di Teheran. In questo suo ruolo, però, il Qatar avrebbe fallito, portando a urtarsi con la Siria e l’Iran, ed in particolare perdendo la credibilità nel suo ruolo di mediatore, in quanto avrebbe sfruttato il richiamo dell’Islam più conservatore, ossia quello dei Fratelli Musulmani e di elementi simili, per intervenire, prevenire e minare una rivoluzione panaraba laica e anti-autoritaria. Non è un caso che, nelle ultime settimane, dalle piazze dell’Egitto, Libia, Tunisia e degli stessi territori palestinesi si siano svolte manifestazioni contro l’ingerenza interna del Qatar.
Poco importa che vi sia stata una copertura mediatica pressoché nulla, soprattutto occidentale. Quel che appare ora agli osservatori più attenti e informati è, quindi, un emirato, quello del Qatar decisamente molto attivo a livello regionale, ma che sembra fallire su numerose iniziative, mentre altre sembrano essere decisamente pericolose per la stabilità di un’area che va dalla Siria al Nord Africa. Inevitabile chiedersi quanto Doha, al di là di una indipendenza d’azione legittima per uno Stato sovrano, risponda anche a direttive di Washington, oppure quanto l’amministrazione Obama sia coinvolta o pienamente consapevole dell’intraprendenza dell’emirato; oppure, ed è forse l’interrogativo che più sta alimentando il dibattito fra gli analisti, ci si chiede se la dinamicità di Doha sia l’espressione di un nuovo corso della politica locale e diplomatica di una generazione di giovani emiri che, come il principe Tamin bin Hamad al-Thani, si è formata nelle scuole dell’eccellenza militare britannica – come vuole la tradizione di quei regni perché ex protettorati inglesi - e si sta dimostrando più attenta alle richieste delle piazze arabe. Ecco che allora il “fallimento” nei più recenti scenari sopra descritti sarebbe dovuto a una scarsa esperienza oppure, addirittura, non sarebbe tale ma dovuto a un rivoluzionario pragmatismo politico che, però, non riesce ancora a trovare quell’ humus culturale e sociale in grado di comprenderlo.
Anche i principi sauditi, destinati a succedere al trono di Riyadh, provengono dalle stesse scuole degli emiri qatarini, ma non condividono la stessa apertura mentale o, per ovvi motivi legati anche a ciò che rappresenta quel Paese per l’intero mondo musulmano, non possono aprirsi ad alternative di governo e di gestione degli affari regionali con lo stesso coraggio del Qatar. Tuttavia, la recente decisione del regno saudita di permettere alle donne di accedere al Consiglio della Shura – organo consultivo e propositivo del regno - sembra essere un primo segnale di un modello di crescita autoctono, ossia di una via saudita a una rappresentanza piena in grado di evitare che dalle sue piazze partano proteste per una maggiore democrazia, e sarebbe, quindi, un’ avvisaglia del fatto che i Saud si starebbero preparando al cambiamento.
Il piccolo emirato del Qatar sembra, comunque, deciso più a scalfire l’influenza dell’Arabia Saudita come potenza regionale che a ragionare sulle conseguenze di certe sue azioni, come appoggiare una Fratellanza troppo vicina a derive estremiste tanto da non poter essere accolta dalla comunità dei regnanti sunniti, timorosi della realizzazione di un Califfato islamico che abbracci l’insieme dei loro territori e sia la genesi di imprudenti relazioni con l’Iran. Perché, poi, alla fine di qualsiasi ragionamento su quanto sta accadendo da un paio di anni dal Maghreb al Mashreq rimane solo un unico grande timore, ossia quello relativo al contenimento dell’impeto rivoluzionario delle piazze affinché, sebbene esso abbia deposto regimi imbarazzanti, non venga incanalato verso la realizzazione di realtà politiche dai toni islamisti decisamente troppo pericolosi perché radicali: questo è il principale rischio di quanto è successo e sta accadendo nel mondo musulmano, arabo ma anche turco.
E’ il rischio che corre quell’ampia regione mediterranea che si confronta con una realtà multipolare in un indefinito ordine post-guerra fredda, in cui l’unica Superpotenza militare, quella statunitense, non sembra più avere, al momento, la consapevolezza – per essere benigni – o la forza – per essere realistici - del suo ruolo di guida verso un processo di rinnovamento e di democratizzazione di quei Paesi, dopo che i vecchi regimi sono stati spazzati via. In mancanza di una classe politica credibile e alternativa, e di progetti economici e sociali coerenti in grado di far ripartire quei Paesi scossi dalle rivoluzioni, era più che prevedibile il rischio di derive come quella egiziana con i Fratelli Musulmani e la conseguente rabbia di gran parte di quel popolo che si sente tradito nella sua rivoluzione.
Altrettanto prevedibile era immaginare che, in un mondo politico come quello proprio dei regni e degli emirati della Penisola Arabica, dove l’enorme disponibilità economica permette di realizzare qualsiasi desiderio di potenza, quel vuoto di potere, lasciato dai regimi destituiti e senza un ruolo da leader degli Stati Uniti, potesse venir colmato con consistenti finanziamenti a chi in quel momento era l’unica alternativa organizzata, la Fratellanza musulmana. Mancanza di visione strategica da parte di Washington? Forse, anche se la responsabilità maggiore di quanto sta avvenendo in quella parte di mondo del Nord Africa e del Medio Oriente è data anche dal freno ad agire per gli Stati Uniti perché condizionati da ristrettezze finanziarie dovute alla pesante situazione economica. Tutto ciò conferma, ancora una volta, che aver raggiunto la supremazia militare, da sola, non basta: il dominio, una volta conquistato, è necessario mantenerlo e, ora, però, si rivela troppo gravoso per gli Stati Uniti, che si ritrovano a dover controllare un caotico mondo di relazioni internazionali in continua evoluzione e a dover gestire soggetti, come il Qatar o l’Arabia Saudita che, con ambizioni di potenze regionali, dettano le regole di un risiko multiforme, in uno scenario complesso e decisamente pericoloso anche per la sicurezza dell’intero Occidente.
13/7/2013
www.gtmglobaltrends.de
Germana Tappero Merlo©Copyright 2013 Global Trends & Security. All rights reserved.