Le leggi del mercato hanno avuto il sopravvento sulla ragion di Stato: per quanto condivisibili, le dichiarazioni e gli intenti dell’amministrazione Obama di considerare Internet come “una piazza delle libertà” dei popoli oppressi, si stanno dimostrando pura demagogia.
Lo ha rivelato un rapporto scritto per la OpenNet Initiative di Harvard e dell’Università di Toronto, da due ricercatori, H. Nomal e J.C. York, e ampiamente ripreso già a fine marzo dalla stampa statunitense, Wall Street Journal in testa, e commentato da noi su siti specializzati .
Il rapporto, decisamente molto tecnico e con numerose testimonianze di addetti ai lavori, illustra come la stessa tecnologia statunitense e canadese che, ampiamente diffusa anche in Nord Africa e Medio Oriente, permette di filtrare azioni illecite – da pedopornografia, frodi sino a cyber attacks malevoli - sia utilizzata da quei regimi per bloccare la rete e censurare le immagini e le notizie sulle ribellioni.
In pratica, le compagnie private quali, fra le altre, la MacAfee e la Websense, che producono “filtri” e redigono liste di “categorie” out, ossia elenchi di settori di interesse e di persone correlate da monitorare e/o bloccare, finiscono per includervi anche siti di oppositori politici e quelli per i diritti umani.
Gli hardware e i software specializzati di filtraggio venduti dalle aziende per lo più nordamericane a governi e provider di Internet nei vari Paesi che ne fanno richiesta, permettono alle autorità centrali di imporre una mappatura dell’utenza, soprattutto attraverso i contatti dei membri dei social network, e seguire la navigazione degli attivisti, dai semplici oppositori a terroristi - ampiamente presenti sulla rete - e senza alcuna distinzione.
La sola Netsweeper ha redatto una lista di circa 4 miliardi di indirizzi web - che aumentano di 15 milioni al giorno – che riconducono a parole chiave-categorie inserite in liste che un provider può bloccare, se non totalmente anche solo in parte, con l’oscuramento del sito o di parte delle sue immagini, utilizzando il loro software.
Queste liste contengono “categorie” o ambiti che riconducono a credo politici ma anche religiosi, e relativi comportamenti economici e usanze sociali, che possono “profanare” od offendere con stili di vita alternativi non in accordo con quanto professato in quei Paesi. Questo sta accadendo, ad esempio, in Bahrein dal 2009 – stando a fonti del Dipartimento di Stato – dove sono bloccati quei siti web che “violano i valori locali e mettono a rischio l’unità nazionale”.
Giustificazioni che risultano più che comprensibili nel rispetto della diversità culturale e religiosa, propria di un mondo che, sebbene inglobato in un processo totalizzante ed omogeneizzante, tende comunque a salvaguardare le sue specificità.
Tuttavia, balzano agli occhi le contraddizioni tutte statunitensi fra le affermazioni di rispetto del diritto delle genti e la soddisfazione delle leggi del mercato.
Il mercato della sicurezza del web è, infatti, un settore molto redditizio per le imprese americane, sempre più agguerrite nella ricerca di nuovi clienti da strappare all’altro grande protagonista del filtraggio della rete, ossia la Cina. Il solo mercato statunitense , in cui vengono commercializzati questi “filtri”, ha registrato, nel 2010, un giro di affari di 1.8 miliardi di dollari, di cui 46 milioni (con un aumento del 16% annuo) solo in Medio Oriente e Africa.
D’altronde, nella legislazione statunitense non esiste alcun limite all’esportazione di questo tipo di tecnologia e, stando alle affermazioni della signora Clinton, condivisa nelle mission di molte di queste aziende, “la censura non dovrebbe essere in nessun modo accettata da alcuna compagnia e in nessun luogo.”
L’amministrazione Obama, quindi, coerente con questa convinzione, ha deciso a fine marzo di elargire, tramite il suo Dipartimento di Stato, oltre 20 milioni di dollari per avviare ricerca di software in grado di permettere agli utenti nordafricani del web di superare i limiti imposti dalla censura governativa con tecnologia occidentale. Tuttavia, la decisione sembra essere tardiva rispetto alla velocità con cui si stanno muovendo le masse di oppositori dei regimi di quei Paesi e l’altrettanta veloce censura operata da quei signori.
Un paradosso che ben configura quell’ampia zona grigia in cui viene invocata e sostenuta la libertà del mercato, ma che al contempo permette alla mancata regolamentazione della rete di far sì che il web diventi un terreno di scontro molto caldo proprio per le contraddizioni che stanno sempre più emergendo con la diffusione mondiale di Internet .
E’ vero, infatti, che dalla Tunisia alle repressioni della Siria, il web abbia giocato un ruolo importante come cassa di risonanza fra i rivoltosi e per la diffusione di notizie e di immagini delle rivolte e della loro repressione. Tuttavia, stando al rapporto OpenNet, la stessa Tunisia disporrebbe di alcuni fra i sistemi di filtraggio più pervasivi, con il risultato di sollevare numerosi dubbi sull’efficacia del web come strumento di aggregazione dei rivoltosi.
Inoltre, come sta accadendo in Siria in questi giorni, se si sono diffuse o continuano a diffondersi notizie della dura repressione è solo grazie alle riprese con cellulari, poi trasmesse sulla rete da server esterni a quel territorio. Poco o nulla possono fare, al riguardo, le connessioni internet, prontamente bloccate: se qualcosa trapela è solo per mezzo della rete telefonica satellitare di paesi vicini.
Secondo il rapporto, infatti, proprio la tecnologia occidentale potrebbe impedire l’accesso al web a oltre 20 milioni di utenti in 9 Paesi fra Nord Africa e Medio Oriente. E’ già accaduto per lo Yemen e il Bahrein lo scorso marzo: nulla vieta di ipotizzare che stia accadendo anche in altri Paesi, in special modo quelli del Golfo Persico, come Arabia Saudita, Kuwait, Emirati Arabi e Qatar, citati nel rapporto come forti acquirenti di filtri per web.
La contraddizione di fondo riguarda per lo più la sfera d’azione della politica statunitense: quanto desiderato e previsto dai suoi massimi esponenti dell’amministrazione, relativamente alla libertà di espressione e di informazione – con conseguente coinvolgimento dei diritti civili e di autodeterminazione dei popoli -, va a cozzare violentemente con gli interessi economici privati delle sue stesse aziende.
Inoltre, fatto forse meno evidente ma dagli effetti deleteri, in questo modo si rischia che a indirizzare l’informazione e l’utenza nel mondo – in pratica che cosa passa sul web, chi ne è l’autore e chi ne usufruisce – siano i privati, ossia le aziende fornitrici di quel tipo di software; il rischio è, quindi, che a indirizzare la politica interna ed estera di molti Paesi siano per lo più interessi privati occidentali.
Non si tratta di una novità e la consapevolezza di tutto ciò è già ampiamente diffusa presso i cibernauti. Non si tratta nemmeno di essere complottisti; e non è il caso di meravigliarsi quanto di rendersi conto dei pericoli che corre l’informazione c.d. “libera” sul web.
L’intera questione può anche essere posta sotto un altro punto di vista. Il timore statunitense di attacchi alla rete – sempre più numerosi, malevoli e dannosi - ha fatto sì che la minaccia a tutto quanto circola in Internet sia da considerarsi prioritaria, alla stregua della difesa di interessi nazionali. Già G.W. Bush aveva avviato la Comprehensive National Cybersecurity Initiative, che l’amministrazione Obama sta completando.
Al riguardo è, infatti, prevista una stretta collaborazione fra governo e settori privati coinvolti, tanto da implementare oltre 130 fra leggi e regolamenti che, comunque, al momento, non sembrano essere in grado di garantire la sicurezza sul web, soprattutto in relazione alla protezione di dati sensibili, quali quelli delle agenzie governative e degli istituti finanziari.
Gli stessi mercati finanziari, in particolare le Borse, sarebbero un obiettivo ambito, tanto che sarebbe stato ipotizzato persino un attacco informatico come responsabile dei crolli del 2008. Per quanto non vi siano elementi certi a supporto di questa ipotesi, tuttavia, la gran massa di dati economici e finanziari immessi nella rete rende estremamente vulnerabile il sistema.
Il timore è talmente percepito che è stato istituito un comando militare apposito, appunto il Cyber Command, al fine di prepararsi a rispondere adeguatamente a cyber attacks, di qualsiasi origine, contro obiettivi sensibili per il sistema economico e produttivo degli Stati Uniti; così come è in fase di discussione la legge Kill Switch che permetterebbe di bloccare i collegamenti Internet se si prefigurassero minacce alla sicurezza degli Stati Uniti, con tutti i limiti e gli effetti boomerang che potrebbe incorrere tale azione.
Un blocco di Internet significherebbe, infatti, l’effettiva paralisi di un intero sistema, al pari , se non addirittura peggiore, di un attacco bellico: anche in questo caso, è necessario che l’amministrazione Obama proceda con cautela con le affermazioni ad effetto di principi anche condivisibili ma dalla realizzazione pressoché impossibile, se non con danni collaterali esorbitanti.
Si delinea, quindi, uno scenario in cui la rete Internet è la protagonista assoluta, ma che si presenta come una creatura bicefala, ossia con due aspetti completamente differenti e uniti in un unico organismo, appunto, il web, in cui controllori esterni ne indirizzano le mosse.
Se la libertà dell’informazione e del diritto di espressione della rete, quindi, in una parte del mondo – come al momento quello del Nord Africa e del Golfo Persico - è considerata una minaccia, in un’altra grande fetta di mondo – come quello del capitalismo occidentale – si esprime altresì nel timore che identifica il web come un settore altamente vulnerabile per gli interessi economici e finanziari che vi circolano.
Si tratta di emergenze completamente diverse, ma in cui sono chiamate in causa direttamente le aziende private e quel loro know how in grado di garantire la sicurezza della rete.
Si mostrano, quindi, chiaramente i contorni di quello che ho definito il “dominio degli spazi”, ossia quel controllo dei flussi di informazione e dei dati sulla rete che, in mano a chi detiene la supremazia tecnologica, gli permette di monitorare, di indirizzare e di bloccare tali flussi.
I suoi campi d’azione sono, quindi, Internet, con i suoi motori di ricerca e i suoi brevetti, ma anche il cosmo, con i satelliti per le telecomunicazioni e il loro posizionamento per il sistema gps e tutto quanto ad esso connesso, dalla ricognizione, alla sorveglianza e alle intercettazioni, in un dual use, civile e militare.
Non è un caso, infatti, che lo scontro per il filtraggio del web e il dominio dello spazio cibernetico ( e del cosmo) avvenga fra giganti della ricerca e dell’innovazione che fanno capo a due potenze, come gli Stati Uniti e la Cina: quest’ultima, con il suo Great Firewall e la sua cybermilitia di sorveglianti al servizio del governo centrale, compete con il suo antagonista come censore, perseguendo scopi e obiettivi di pura supremazia.
L’unica differenza fra i due grandi nemici riguarda chi dominerà, in futuro, la produzione, il controllo e la diffusione della tecnologia in grado di bloccare gli attacchi sulla rete o di censurare ciò che non è gradito: la distinzione è solo una questione ideologica che ancora domina e dipende solo da che parte si sta. Nella sostanza, queste due tecno potenze si stanno comportando alla stessa maniera.
Infatti, non vi sono altre differenze: da un lato ci sono i grandi interessi delle compagnie private occidentali di sicurezza informatica a cui, a dispetto delle loro dichiarazioni e come evidenziato dal rapporto di OpenNet Inititiative, poco importa il rispetto o meno della libertà di espressione e di informazione da parte dei loro acquirenti. Costoro soddisfano la domanda di un mercato che si vuole sempre libero, soprattutto da costrizioni ideologiche, entro cui si fanno convergere battaglie solo all’apparenza etiche ma che di moralità non hanno più alcuna traccia.
Inoltre, la loro spinta alla ricerca e all’innovazione concorda con gli obiettivi di supremazia nella politica mondiale che sono trasversali a qualsiasi amministrazione al potere a Washington.
Dall’altro lato vi è un governo di una nazione, coma la Cina, ormai all’avanguardia nella ricerca e che, soprattutto, domina il mercato dei metalli rari, così strategico per il futuro dell’ high tech mondiale, e che ha già mostrato in più occasioni il suo atteggiamento poco incline al rispetto dei diritti umani e delle libertà civili.
Insomma, le rivolte arabe e il loro troppo esaltato diffondersi grazie al web, la censura imposta da quei governi grazie a strumenti messi a disposizione da chi va predicando da sempre la libertà della rete, unitamente al dominio di interessi privati su strumenti che sono diventati elementi chiave per la definizione di regole e attori delle relazioni internazionali e, di conseguenza, per la sicurezza nazionale, debbono indurre a interrogarci su questi aspetti del “dominio degli spazi” e a definire meglio i perimetri legali entro cui muoversi.
Un’illusione che, al momento, sembra non potersi realizzare per l’incapacità di comprendere appieno i contorni di un problema estremamente complesso per i suoi aspetti tecnici, la molteplicità dei suoi protagonisti e l’elevata componente finanziaria che comporta, ma che vedrà, entro un breve spazio di tempo, confrontarsi grandi potenze e i loro obiettivi di politica internazionale.
E’ indispensabile, quindi, dimostrare una maggiore coerenza fra affermazioni colme di retorica e comportamento effettivo: altrimenti, appunto, tutto si risolve ad essere pura demagogia, inficiando quanto di buono si vuole fare in nome della libertà di espressione.
2/5/2011