E se Gheddafi, nel suo delirante messaggio video di fine febbraio avesse avuto ragione? Sembra ormai assodato da numerose fonti giornalistiche e non solo, che fra le fila dei ribelli libici se non addirittura al comando delle operazioni belliche contro il colonnello, vi siano infiltrati di al Qaeda. L’allarme era partito, a metà marzo, dal videomessaggio in cui il libico Abu Yahya al-Libi, esponente di punta di al Qaeda, esortava i suoi connazionali ad armarsi e combattere Gheddafi. A fine marzo, l’ammiraglio statunitense James Stavridis, a capo dell’USEUCOM e della SACEUR della Nato in Europa, dichiarava che, effettivamente, vi sarebbero state tracce di al Qaeda tra gli insorti, ma “non significative”.
Così, mentre l’operazione della Nato Unified Protector, che è seguita alla prima azione internazionale Odyssey Dawn, sta mostrando alti e bassi, se non addirittura un preoccupante stallo, emergono sempre più interrogativi non tanto sullo scopo finale della missione (gli “scopi umanitari” sono garantiti dalla risoluzione 1973 delle Nazioni Unite) quanto sui loro protagonisti, dato che nel frattempo si è avuto conferma di altre presenze alqaediste fra i combattenti antiGheddafi, come quella di Abdul-Hakim al-Hasidi, al comando dei ribelli stessi: catturato in Afganistan nel 2002 dalle truppe statunitensi, non ha mai nascosto le sue simpatie per al Qaeda, dato che ha affermato in più occasioni che i suoi membri “sono patrioti e buoni musulmani”. Costui è ora a capo dei ribelli di Derna; un qualcosa di più di un ruolo “non significativo”.
Inoltre, sarebbero ancora altri gli elementi preoccupanti, come le voci circa la presenza di Sufyan Bin Qumu e Abdel Hakim al Hassiri che hanno allertato, almeno stando a fonti giornalistiche, le intelligence di mezzo mondo, Cia e MI6 in testa. Entrambi libici, il primo sarebbe stato detenuto a Guantanamo perché così vicino a Bin Laden da fargli da autista e tesoriere di un’organizzazione umanitaria musulmana a caccia di fondi per i terroristi, mentre il secondo - di cui si hanno poche notizie certe - sarebbe stato per anni nei campi di addestramento di al Qaeda in Afganistan. Riconsegnati entrambi alla Libia nel 2008 e ritornati in Afganistan, sarebbero ora infiltrati fra i ribelli che combattono contro Gheddafi.
Perché non mostrare, quindi, nel caso della Libia quella stessa preoccupazione che, con la crisi tunisina ed egiziana, era emersa prepotentemente – ma con palese infondatezza - circa la possibilità della presa di potere di elementi del fondamentalismo islamico, in particolare i tanto temuti Fratelli Musulmani, come possibili successori di Gheddafi?
Sempre fonti di intelligence affermano, infatti, che costoro agirebbero in incognita persino nel Consiglio nazionale di transizione libico - che, di fatto, sino ad ora, ha sempre smentito tali presenze - fornendo consulenza ai due ufficiali alla guida dei ribelli, Abdel Fattah Younis, generale di Gheddafi ed ex ministro degli Interni, e Khalifa Belqasim Hiftar (Huftur), alla testa delle operazioni militari dei rivoltosi.
La storia professionale di quest’ultimo personaggio fa perdere di consistenza a queste ultime affermazioni dell’intelligence e ridicolizza l’ ignoranza del Consiglio dei ribelli circa la provenienza dei suoi collaboratori. Hiftar, infatti, è un ex colonnello dell’esercito libico, caduto in disgrazia presso Gheddafi dopo la sconfitta della Libia in Ciad, nel 1988, e rifugiato da allora a Fairfax, in Virginia (a una decina di chilometri dalla sede della Cia a Langley); dal suo esilio statunitense ha diretto, per anni, le attività del braccio armato del Fronte Nazionale per la salvezza della Libia (NFSL), ossia l’Esercito di liberazione libico. Se questa sua attività, da un lato, lo accredita come partigiano genuino della ribellione antiGheddafi, dall’altro lato spazza via ogni dubbio circa una sua presunta incompetenza sul reclutamento di militanti e di collaboratori e sui suoi ( e loro) relativi agganci internazionali.
Un altro elemento che affiancherebbe i ribelli è il Gruppo combattente islamico in Libia (LIFG, Al-Jama’a al-Islamiyyah al-Muqatilah bi-Libya), fondato nel 1995 da mujaheddin libici reduci dall’Afganistan, in cui militava Atiyah Abd al Rahman - ucciso in un attacco con droni in Pakistan nell'ottobre 2010 - con un ruolo così importante da essere il collegamento fra Osama bin Laden e i mullah iraniani e impartire ordini a Abu Musab al Zarqawi, a capo di al Qaeda in Iraq nel 2005.
Lo stesso Gruppo combattente LIFG fu protagonista di un fallito attentato contro Gheddafi, a Sirte, già nel 1996, e realizzato con l’aiuto dell’MI6 e in cui apparve il nome di Osama Bin Laden come mandante, tanto che Gheddafi chiese la collaborazione internazionale per un ordine di cattura, che però non trovò alcun riscontro.
Un’altra fonte afferma che sarebbero presenti anche elementi di al Muhajiroun, a suo tempo coinvolta nel reclutamento di musulmani britannici da mandare a combattere in Kosovo, e a cui apparterrebbe Aby Hamza al-Masri, a metà degli anni ’90 collaboratore del MI5, ma anche responsabile degli attentati a Londra del luglio 2005.
D’altronde, il supporto inglese agli oppositori libici di Gheddafi, a metà degli anni ’90, era la chiara risposta alla sofferta questione dell’attentato di Lockerbie del 1988: fu una delle componenti che diede il via alla discutibile ed incontrollata tolleranza di Londra circa la presenza sul suo territorio di numerosi elementi del fondamentalismo estremo islamico, così massiccia e radicale da creare all’interno della capitale inglese quello che divenne noto come Londonistan. Un cambio di rotta si ebbe, tuttavia, dopo l’11 settembre: Londra e Tripoli – anche per merito di Mūsā Muhammad Kūsā, fino al 2009 a capo dei servizi segreti libici e poi ministro degli esteri sino a marzo 2011 – iniziarono a collaborare per arginare il fenomeno terroristico, tanto che Gheddafi consegnò alle autorità inglesi un elenco di guerriglieri libici addestrati in Afganistan e arruolati nelle fila di al Qaeda. Iniziava ad incrinarsi il rapporto di amicizia e collaborazione fra Londra e dissidenti libici che finì, almeno ufficialmente, nel 2007 quando, con il governo di Tony Blair, e anche in seguito alla decisione di Gheddafi di rinunciare al suo programma di armamento nucleare, la BP firmò un accordo di 540 milioni di sterline per la ricerca di gas sul territorio occidentale della Libia e offshore, a cui seguì, nel 2009, la liberazione, a fini umanitari – dato che era gravemente malato - di Abdelbaset Mohmed Ali al-Megrahi, unico responsabile riconosciuto dell’attentato di Lockerbie e condannato per questo all’ergastolo in Scozia, e di cui non si hanno più notizie dal suo rilascio.
Le voci e le conferme della presenza di elementi di al Qaeda nelle fila, se non al comando, del ribelli libici non dovrebbero comunque destare meraviglia, stando anche alle conclusioni di uno studio – all’interno di un progetto dal nome alquanto curioso se non beffardo di Harmony Project - condotto per conto dell’accademia di West Point, nel 2007, da due esperti, Joseph Felter e Brian Fishman, circa i Sinjar records, ossia una massa di 600 documenti di al Qaeda rinvenuti dalle truppe statunitensi in Afghanistan, circa nomi, provenienza, attività e quant’altro di interesse personale di guerriglieri stranieri presenti in Iraq, dall’agosto 2006 allo stesso mese del 2007.
L’elemento che più sorprende rileggendo quel documento è la provenienza della maggior parte dei militanti: il 19% dei combattenti stranieri presenti in Iraq (ed in particolare per l’85% di quelli dediti ad attentati kamikaze) proveniva, infatti, dalla Libia, con una proporzione di interessati a combattere in Iraq seconda solo all’Arabia Saudita, e con l’affluenza più alta rispetto a qualsiasi altro paese piazzista di combattenti mujaheddin.
Ne derivava una concentrazione geografica proprio nella parte orientale della Libia, ora controllata dai ribelli, ossia quel corridoio fra Bengasi e Tobruk e passante da Derna che, da sola e in proporzione, forniva più combattenti di una metropoli come l’arabica Riyadh. Bengasi, inoltre, è sempre stata il centro dell’opposizione a Gheddafi, con elementi wahabiti e salafiti confluiti nel LIFG e responsabili negli anni passati di attentati e omicidi contro politici locali.
L’ ammassamento islamista in quell’area era giustificato, infatti, secondo il rapporto di West Point, dalla forte presenza di scuole estremiste di teologia, da cui sarebbero emersi gruppi come il LIFG visto più sopra, decisamente antigovernativo per il carattere laico e secolare del regime di Gheddafi.
Il gruppo del LIFG – anche stando alle dichiarazioni di Ayman al Zawahiri in documenti trasmessi da wikileaks - è, infatti, confluito in al Qaeda nel 2007, prendendo il nome di al Qaeda in Islamic Maghreb (AQIM) proprio per la condivisione del progetto del Califfato Islamico, sotto cui riunire l’intera Umma. Si tratta di un progetto osteggiato dai regimi secolari di quell’area nordafricana, tanto che il punto di partenza della lotta al qaedista maghrebina è proprio la caduta di quei governi. Stando alle affermazioni di Anwar al-Awlaki, esponente yemenita – anche se con doppia cittadinanza, essendo nato negli Stati Uniti - di al Qaeda nella penisola arabica (AQAP, che per motivi logistici e contingenti ha preso il sopravvento su quell’al Qaeda operante nell’AfPak), anche se la rivolta libica dovesse fallire, infatti, un obiettivo sarebbe comunque già stato raggiunto, ossia dimostrare che la rivoluzione, o addirittura il jihad, sono possibili e possono essere affrontati senza più la paura della repressione. Il rischio che, con una diminuzione del controllo da parte dei vari governi di transizione in quei Paesi, si inseriscano elementi radicali e trovino adepti è, quindi, più che probabile, anche se non corrisponde affatto alle aspettative rivoluzionarie della stragrande maggioranza di quelle genti.
La fusione fra il movimento LIFG e al Qaeda ha portato, infatti, ad un aumento della presenza di guerriglieri di al Qaeda in Libia che, unitamente alla consapevolezza di poter lottare per il proprio progetto rivoluzionario, sta confluendo e influenzando la rivolta dei ribelli antiGheddafi. Non è un caso che i principali bastioni dell’AQIM siano proprio Bengasi e Derna, come testimoniato dal documento di West Point.
Ciò che potrebbe lasciare perplessi i lettori del documento di West Point è il suggerimento dei due autori di creare un’alleanza fra Stati Uniti e l’AQIM per combattere Gheddafi: si tratta però di un consiglio “tattico”, contingente al periodo in cui venne elaborato (2007), al fine di “alleggerire” la presenza di al Qaeda in Iraq e di creare divisioni all’interno dell’organizzazione. Tuttavia, queste affermazioni e certe presenze all’interno dell’organismo di dirigenza dei ribelli libici danno concretezza a supposizioni e alimentano i timori delle forze più moderate.
L’elemento che potrebbe circoscrivere il rischio di una radicalizzazione della lotta è dato solo dal fatto che al Qaeda non è un’entità unica, è estremamente frammentata nell’organizzazione, negli obiettivi da raggiungere e nei sistemi operativi: tuttavia, la vittoria su un nemico storico come Gheddafi potrebbe divenire l’opportunità per i membri alqaedisti libici di ampliare il loro raggio d’azione, come d’altronde è successo e sta succedendo in Iraq. E’ ciò che più temono, infatti, i governi moderati della penisola arabica, nel momento in cui dovessero ritirarsi le forze statunitensi dal territorio iracheno e il processo di transizione e di consolidamento delle nuove istituzioni del governo democratico di Bagdad fosse ancora debole e lacunoso com’è attualmente.
D’altronde in Libia verrebbe a realizzarsi un copione già visto in Afganistan dopo il 1979 e la creazione e il sostegno americano – oltre che dell’Isi pachistana e dell’Arabia Saudita - ai talebani in funzione antisovietica: tuttavia, la realtà libica e le implicazioni internazionali, nell’attuale contesto delle relazioni mondiali, sono decisamente più delicate, complesse e con interrogativi ben più allarmanti di quanto l’amministrazione Reagan riuscì a sollevare nel contesto afgano e in piena guerra fredda.
In Libia, la Nato sta operando per mezzo della risoluzione 1973 delle Nazioni Unite per fini umanitari e per proteggere la popolazione civile con la no-fly zone, ma in realtà dando sostegno “tattico” a una forza belligerante che, stando a notizie sempre più frequenti e confermate, annovera fra i suoi capi e i suoi combattenti elementi di un’organizzazione terroristica, come al Qaeda, contro cui da dieci anni ha intrapreso una guerra preventiva (dall’Afganistan all’Iraq, sino agli attacchi con i droni alle basi terroristiche in Pakistan), asimmetrica e senza limiti di spazio e di tempo. Quelle stesse forze militari libiche che l’Occidente sta appoggiando, annovererebbero, quindi, elementi che stanno impegnando da anni le forze Nato in contesti bellici così complessi da risultare irrisolvibili, come l’Afganistan e prima ancora l’ Iraq.
Bisogna ammettere che c’è qualcosa che non va.
O si tratta di una scelta politica e strategica ben precisa, per cui l’obiettivo di far saltare il regime di Gheddafi giustifica anche queste “relazioni pericolose”. Ma allora il bottino finale non può essere solo ed esclusivamente il sostegno alla rivoluzione del popolo libico: quanti tiranni stanno ancora massacrando le loro genti senza che alcuno si stia muovendo per liberarli, Yemen e Siria in testa? E’ possibile, quindi, che la posta in gioco sia ben più grande della voglia di libertà e democrazia del popolo libico e si tratti, infatti, di quell’avvio alla riconquista dell’Africa di cui ho già avuto modo di evidenziare in una mia analisi.
Oppure, alternativa possibile e che non deve per nulla meravigliare, l’ignoranza “occidentale” di un contesto complesso come quello arabo e musulmano nordafricano ha tratto, e sta trattando, tutti quanti in inganno. Non sarebbe, infatti, la prima volta che l’Occidente parte a spron battuto verso avventure africane – per non parlare di quelle mediorientali - per poi finire in un pantano senza fine o a scappar via con la coda fra le gambe, come è successo agli Stati Uniti in Somalia o ancor prima in Libano.
Si comprenderebbe in tal senso l’altalenante atteggiamento dell’amministrazione Obama che prima firma l’autorizzazione a supportare i ribelli– tra l’altro violando la stessa risoluzione dell’Onu che impone l’embargo di armi alla Libia - con covert operations della Cia e il supporto del governo di transizione egiziano – attraverso cui passano le armi che provengono dagli Usa per mezzo dell’Arabia Saudita - per poi sganciarsi dall’affare libico e lasciare il comando e la gestione delle operazioni alla Nato e ad alleati europei che manifestano divisioni nel riconoscere legittimamente i ribelli (per ora solo Francia e Italia) e giustificate titubanze nel fornire loro delle armi.
In Libia si sta, quindi, realizzando un’avventura bellica delle forze occidentali che ha fatto emergere fra gli alleati europei contrasti e punti di vista così diversi a dimostrazione di quanto l’Unione europea sia ancora lontana dall’essere un’entità politica compatta e in grado di esprimere una politica estera – e meno che mai militare – efficace ed univoca. Si risolve ad essere quella che è, un organismo economico e monetario, e niente più.
I ribelli libici, infatti, stanno dimostrando scarsa capacità organizzativa ed addestrativa: e una tale incompetenza, una buona dose di armamento sofisticato, giustificato come “difensivo” per la popolazione civile – in particolare della città di Misurata, da settimane sotto assedio dalle forze lealiste di Gheddafi - unita ad intemperanze alqaediste non possono che preoccupare circa il futuro non solo della Libia, ma dell’intera regione a sud e ad est dell’Europa che si estende dal Maghreb al Mashrek.
Infatti, la componente ideologica fondamentale della base di al Qaeda è un antiamericanismo devastante che, tra l’altro, in Libia era concentrato e manifesto proprio nell’area del nord-est, in quella Cirenaica in cui si sta combattendo e da cui provengono i ribelli: quanto è consapevole l’amministrazione Obama, e quegli alleati europei decisi ad armare costoro, della possibilità di creare forze ostili con pericolose implicazioni per la sicurezza futura di un mondo, quello occidentale, così detestato e osteggiato, unito ad un progetto politico come il Grande Califfato Islamico?
La completa ignoranza di realtà diverse e complesse, a lungo tempo trascurate o semplicemente assecondate nelle loro politiche per opportunismo – vedi il petrolio o il gas - non è più ammessa nel contesto politico internazionale post guerra fredda e totalmente globalizzato. Se si vuole avere un ruolo politico veramente efficace e determinante è necessario discostarsi dalla logica perversa, dominante nell’ esercizio del potere occidentale di stampo statunitense, dell’uso della forza nelle relazioni internazionali come unico strumento in grado di far valere le proprie ragioni.
Inoltre, le cautele manifestate ex post non vanno d’accordo con la guerra, e meno che mai bisogna dimostrare di essere così ipocrita da nascondersi dietro una risoluzione dell’Onu. Ecco il perché degli alti e bassi del conflitto, a cui si aggiungono elementi tattici, come una carenza nell’humint, ossia di quell’intelligence sul campo che non permette di distinguere obiettivi nemici da quelli amici e crea quei “danni collaterali” che altro non sono che una strage di quelle forze ribelli che si vuole sostenere; lacune imperdonabili e superficialità dilagante a cui si cerca di ovviare ipotizzando l’invio di truppe terrestri.
In quel contesto e con quei presupposti, di cattiva organizzazione e mala gestione delle forze dispiegate sul campo - sia contro che a favore di Gheddafi – è auspicabile che ci si interroghi bene sull’opportunità di una tale azione militare.
In ogni modo, è necessario interrogarsi soprattutto sul ruolo dei protagonisti europei di quest’avventura africana: i distinguo ex post sono quanto di peggio ci si possa auspicare quando si è intrapresa una guerra “a fini umanitari”. Non sono compatibili sporche manovre segrete e tardivi ripensamenti sulla propria partecipazione: se le prime fanno parte della prassi e della strategia di una guerra, i secondi sono espressione di un’ incapacità di leadership politica a cui non basta contrapporre una superiorità tecnologica militare, come quella della Nato, quando ciò che viene a mancare è una maggior capacità etica e una più onesta trasparenza nell’azione politica in grado di aiutare quei popoli nella lotta per una vera democrazia.
In Libia si sta solo e soltanto ripetendo un copione già visto e rivisto troppe volte; nemmeno i protagonisti sono cambiati e forse, proprio in virtù di questo, sarebbe auspicabile che si conoscesse di più la storia degli errori passati prima di intraprendere nuove strade per un futuro che già prima di questa guerra si presentava irto di difficoltà, ma che da questo conflitto minaccia di uscirne ancora più cupo e minaccioso per la sicurezza nostra, europea, e di quella di un’altra fetta di mondo che, dal Nord Africa al Medio Oriente, si estende su gran parte del continente africano, inevitabile scenario di guerre future.
14/4/2011