E’ ormai diventata una litania, ripetuta quasi alla nausea, quella sentita in convegni e seminari sulla “primavera araba” che si è trasformata in un “inverno arabo”, vista l’instabilità dilagante, le guerre più o meno improvvise o, comunque, lo stato di belligeranza latente e le nuove sommosse che stanno sconvolgendo non solo quei Paesi, ma numerose altre aree del Medio Oriente e del resto del continente africano.
Ciò che era iniziato come un tentativo di liberarsi da una vecchia leadership oppressiva e per portare alla democratizzazione Paesi, fino a poco più di un anno fa in mano a tiranni e dittatori, si è trasformata in una diffusa e sanguinosa instabilità: poco è stato ottenuto, se non la cacciata, la fuga o la morte di alcuni di quegli oppressori e di parte dei loro esecutivi, a fronte dell’apertura di un arco di crisi così vasto che si sta ampliando sempre più, solo perché quelle che erano iniziate come rivolte si sono incancrenite, e stanno scoppiando come bubboni nefasti a causa di un pericoloso insieme di batteri, la cui perniciosità non era stata adeguatamente, o volutamente, valutata.
I dati sui rifugiati rappresentano una sintesi allarmante di tutto ciò. Il caso dei profughi siriani è il più tragico: oltre al Libano – Paese più “vicino” a Damasco - che ne ha accolti 261mila, la Turchia ne sta ospitando circa 180mila, la Giordania 243mila, l’Iraq 85mila e lo stesso Egitto oltre 15mila, tutti disperati in fuga da una guerra civile che ha fatto oltre 70mila morti. Non meno drammatiche sono state le conseguenze della guerra in Libia: Paesi come il Niger, il Chad, la Mauritania e lo stesso Mali hanno dato e stanno dando rifugio a 420mila libici fuggiti dopo la caduta di Gheddafi e non intenzionati a ritornare nel loro Paese ancora in subbuglio. Al contrario dei Paesi del Medio Oriente, inoltre, questi Paesi africani non posseggono né le risorse né un’organizzazione in grado di fronteggiare questo enorme flusso di disperati che, oltre all’ inevitabile emergenza umanitaria, diventa terreno fertile per il reclutamento di uomini e per il traffico di armi, andando così a sostenere la guerriglia di gruppi e milizie armate anche nei Paesi ospitanti.
Eppure, senza voler peccare di presunzione, non era poi così difficile immaginare l’evoluzione di quegli avvenimenti: bastava aver studiato la storia di quelle regioni, anche la più recente – dalla prima guerra del Golfo del ’91, ad esempio − per immaginare i pericolosi deviamenti a cui potevano incorrere quelle rivolte e i loro protagonisti. Popolazioni da decenni assolutamente a digiuno dei meccanismi propri della democrazia e con riferimenti aggreganti, come la religione e l’appartenenza etnica o clanica, così lontani dall’esperienza di governo occidentale, sono costrette ora a convivere e a confrontarsi in condizioni di assoluta mancanza di guida, di stabilità e di sicurezza. Inevitabile che siano emersi prepotentemente altri elementi che, nell’emergenza di guerre civili, come quella siriana o libica, hanno finito per esaltare l’aggregazione secondo una logica settaria o religiosa estrema, in cui sono andate a inserirsi, inevitabilmente, attrazioni pericolose nelle sfere di influenza delle potenze regionali (come la Siria con l’Iran) o straniere (come la Libia e il Mali che sono ricorse all’aiuto militare di potenze esterne).
Le rivolte hanno finito per far deflagrare situazioni a rischio e spezzettare realtà politiche e sociali contenute a stento con regimi e ora riattratte e riorganizzate su elementi aggregativi che l’Occidente non solo non comprende, ma di cui conosce solo l’aspetto più estremo e pericoloso, come il fanatismo religioso. Quanto siamo consapevoli, infatti, della storia, della natura e delle dinamiche proprie di queste regioni, in modo da sostenerle nella loro trasformazione verso società libere e democratiche?
Ciò che si percepisce, al momento, in quelle realtà sconvolte dalla rivolte, guerre civili e loro derivati, sono solo l’estrema pericolosità e la frammentazione sociale su base religiosa e/o clanica, che ripropone il rischio di quel fenomeno di “balcanizzazione”, tanto sbandierato ma poco conosciuto.
Nemmeno gli insegnamenti della storia coloniale o di quanto è avvenuto con la fine degli imperi asburgico e ottomano, e quel processo definito appunto “balcanizzazione”, e che ha portato al rafforzamento del nazionalismo di popoli come i greci, i serbi, i croati, i cechi sino ai polacchi e ai rumeni, stanno servendo a non replicare certi errori e ad aiutare concretamente realtà come quella siriana, irachena, libica e maliana. Infatti, quel concetto non ha più quella connotazione positiva, come alla sua origine o quando venne adottato dai movimenti africani per l’indipendenza, e che andavano di pari passo con il processo di decolonizzazione degli anni ‘50 e ’60: non è un caso, infatti, che quel concetto lo si associ, ora, alla recente guerra nell’ex Jugoslavia, a cui sono accostate più facilmente catastrofi come “guerra civile” e “pulizia etnica”.
Ciò che si sta concretizzando, dal Medio Oriente all’Africa, è proprio questo aspetto negativo del processo di balcanizzazione: viene naturale chiedersi se sia la realizzazione di un disegno ben costruito che fa della balcanizzazione e del divide et impera, le tattiche di un ben più complesso quadro strategico, in cui sono in gioco interessi in cui prevalgono le solite risorse prime e la ben più complessa competizione per il dominio regionale oppure, per essere benevoli, si tratta di mera ignoranza dei dolorosi insegnamenti del passato?
Di una cosa sola vi è comunanza di vedute fra gli osservatori: ciò che sta succedendo, da tempo, in Siria e ciò che sta avvenendo, ora, in Mali sono entrambe frutto di quella logica che ha approfittato delle rivolte, più o meno genuine, per cambiare gli scenari e le alleanze in Medio Oriente e in Africa. Ma l’intesa fra analisti termina qui: le letture divergono, soprattutto sulle cause scatenanti, e oscillano fra movimenti spontanei, poi degenerati per incapacità dei nuovi governi a gestire il cambiamento, a ennesimi tentativi “colonialisti” o “imperialisti” di conquiste territoriali orditi dalle solite potenze straniere, dalla Francia e Regno Unito a Stati Uniti e Israele, con l’aggiunta di new entries come Qatar e Turchia.
E’ probabile che la verità sia un mix di questi elementi. Pochi ormai sono convinti della genuinità delle rivolte e, vista la deriva che hanno assunto, si inizia a considerare più coscientemente la cattiva regia straniera per presunzione, ignoranza e incapacità (ad essere indulgenti), oppure per un vero e proprio disegno di destabilizzazione, al fine di smembrare aree strategiche, indebolirle politicamente e socialmente, e farne scempio delle ricchezze (è il caso, da decenni, del Medio Oriente) o per porre le basi per una nuova riconquista regionale e territoriale, o addirittura per entrambe (come, ora, l’Africa sub-sahariana).
Tuttavia, quel che più dovrebbe preoccupare – soprattutto l’Occidente - è che questa replica di uno schema di destabilizzazione, dovuto a innumerevoli fattori più o meno conosciuti, potrebbe avere conseguenze ben diverse da quelle che si aspettano i suoi fautori. Non valutare attentamente le conseguenze di un approccio, come quello dell’intervento militare “straniero”, in un contesto geografico, etnico e clanico decisamente molto complesso come quello africano – che non ha nulla da invidiare a quello mediorientale – e con variabili internazionali totalmente nuove, con protagonisti del calibro della Cina o dell’Iran, potrebbe avere aspetti evolutivi compromettenti la stabilità anche di quelle nazioni che ora si sentono al sicuro, perché lontane geograficamente dalle aree di scontro.
Il rischio per l’Occidente, inoltre, per via della sua incomprensione o sottovalutazione delle derive di questa destabilizzazione sta in quel salto di qualità che porta questi gruppi o milizie a sfruttare situazioni di crisi per agire oltre quei confini, come è accaduto con l’attacco terroristico ad Amenas, in Algeria, nel gennaio scorso, da parte del gruppo al Qaeda nel Maghreb islamico (AQIM). La drammaticità dell’evento non sta “solo” nel numero delle vittime, ma in ciò che può rappresentare quell’azione terroristica: oltre al rischio di portare il jihad nei confini algerini, l’avanzare la richiesta, come la liberazione dello sceicco egiziano Omar Abdel-Rahman e del pachistano Aafia Siddiqui, anche se non accolta, si rivela però un fattore aggregante fra i vari gruppi che appartengono all’AQIM – fra l’altro guidata da un Mokhtar Belmokhtar dall’indole più del trafficante e contrabbandiere che del rivoluzionario – e cementa le truppe attorno ad un obiettivo, elevando ulteriormente il livello della loro lotta, che diventa transnazionale.
E qui interviene la storia: chi ben conosce i prodromi e soprattutto le conseguenze della prima guerra del Golfo del 1991, ben sa quanto sia costato in termini di instabilità, negli anni seguenti, l’aver fatto stazionare truppe straniere sul sacro suolo dell’Islam, ossia quell’Arabia Saudita che, per incapacità a mediare, al suo interno, fra forze moderate filoccidentali e quelle radicali musulmane, filoarabe e antiIsraele, ha finito per soccombere a queste ultime che, accanto ad altri elementi scaturiti dagli errori occidentali in Asia Centrale − come l’aver sostenuto i mujaheddin in funzione antisovietica − hanno poi forgiato elementi del calibro di Osama bin Laden e il suo seguito di fanatismo alqaedista e jihadista.
A poco serve giustificare l’azione della monarchia saudita di appoggio a questi elementi estremisti con il suo timore di venirne sopraffatta. In un contesto post-guerra fredda e soprattutto post-ideologico come gli anni ’90, in cui, soprattutto nell’area mediorientale e del Golfo Persico, venivano a mancare i tradizionali riferimenti politici e di potere, era prevedibile che, come reazione all’intervento militare occidentale, disgregante di equilibri consolidati e, soprattutto, senza un’alternativa di governo valida, venissero individuati altri elementi di aggregazione, con un ritorno a principi di identificazione comune che non potevano essere che quelli della loro tradizione, ossia la religione e l’appartenenza tribale e clanica.
Da qui, il riemergere di questioni antiche come le rivendicazioni dei curdi o delle minoranze sciite presenti in ogni dove nella regione mediorientale, a cui facevano da sfondo questioni decennali come quella israelo-palestinese (si pensi ai fenomeni Hamas e Hezbollah) e i relativi rapporti di forza della regione. Ne è derivato che quanto era un problema circoscritto ad aree limitate ha assunto ben presto una dimensione transnazionale, come diretta conseguenza di un processo di frammentazione che ha finito per raccogliere intorno a sé le ambizioni delle potenze regionali, come appunto Israele e il suo antagonista l’ Iran e, seppur per altre componenti più di carattere economico, anche le monarchie del Golfo.
Ciò ha dato vigore al fenomeno del wahabismo-salafismo, ossia a quella creatura artificiale nata per contrastare lo sciismo e le ambizioni iraniane, ma che è base e al contempo forza propulsiva dell’internazionale alqaedista, che non sembra trovare ostacoli al suo prosperare.
Quanto sta accadendo nell’area mediorientale, ed in particolare in Siria, è la conseguenza di quell’incapacità – o non volontà, per alcuni - di comprendere, già oltre vent’anni fa, gli effetti di un disequilibrio di poteri indotto da interessi prettamente occidentali senza considerare le dirette conseguenze di tali azioni e senza peraltro aver saputo – o voluto, per alcuni – proporre una guida verso alternative valide e pacifiche. Lo stesso 11 settembre è stato più il frutto di quell’ambiguità, che non la motivazione alla base degli interventi militari dapprima in Afghanistan e poi in Iraq, e dalle conseguenze nefaste per ciò che ora sta accadendo in Siria.
E per un fenomeno di mera imitazione di un modello che si credeva vincente, lo stesso schema lo si sta riproponendo in Africa.
Ciò che sta accadendo ora in Mali, e prima ancora in Somalia, Sudan e soprattutto in Libia, suggerisce lo stesso schema di divisione di realtà nazionali, a cui segue l’ aggregazione con altre variabili, con l’aggravante che si allarga il fronte dell’instabilità, perché a ciascuna di quelle crisi non è seguita immediatamente una mediazione fra le forze in campo, credibile e in grado di giungere ad una pace duratura.
E qui emerge il più grande limite dell’Occidente, ossia l’incapacità di mediare, di comprendere le esigenze di quei popoli per allontanarli dalle lusinghe degli estremisti; vi è stato, infatti, l’abbandono di tutti quegli elementi che erano parte importante di quella counterinsurgency del gen. Petraeus dapprima in Iraq e poi in Afghanistan, sostituita, da tempo, da quel counterterrorism, dall’impiego ridotto sia militare che politico e diplomatico, non in grado, però, di tracciare il percorso più adatto verso il nation building dei Paesi in rivolta.
Ecco che le vicende della Siria e del Mali sono attraversate da un filo rosso, ossia sono anche il prodotto di due conflitti irrisolti, quello più antico in Iraq e quello più recente in Libia, in cui ben presto il fattore salafita-alqaedista, in mancanza di elementi aggregativi diversi, ha finito per ergersi come difensore delle masse. E questa assenza di alternative, unitamente alla mancata mediazione, sono le responsabilità più gravi e il limite più incompreso dell’Occidente.
Infatti, l’incapacità tutta occidentale di mediare fra le forze in lotta, già prima in Iraq e poi in Siria, così come in Libia e ora in Mali e fra un po’ in altre aree in rivolta, ha favorito questi disastri. Sono cambiate le guerre e i loro obiettivi, e l’Occidente sembra non essere in grado di cogliere questi mutamenti e fa affidamento sulla sua superiorità numerica e tecnologica per sferrare interventi militari, che poi non riesce a vincere. L’asimmetria che dovrebbe essere un vantaggio per l’Occidente, in realtà diventa il suo limite più estremo, perché calcolata solo sulla disparità nella dotazione di tecnologia bellica, in cui certamente eccelle rispetto al nemico, quando invece l’asimmetria che fa perdere l’Occidente in scenari come quello iracheno o afghano, è quella di natura politica, ossia non conoscere e non sforzarsi di comprendere al fine di mediare, risolvere e proporre forme di aggregazione alternative, connaturate ed ereditarie di quei luoghi.
Entrambi quei Paesi, Iraq e Libia – e fra un po’ anche lo stesso Afghanistan - sono contemporaneamente società in transizione e dall’instabilità crescente, in cui la lotta contro i loro tiranni ha accentuato le differenze etniche e religiose e la loro stabilizzazione è un processo che non può essere perseguito da truppe straniere. Sono, inoltre, realtà così deboli da non poter gestire fenomeni di organizzazione militare, soprattutto alqaedista e jihadista che, della clandestinità e dell’appoggio di potenze esterne dagli scopi destabilizzanti, hanno fatto i loro punti di forza per trasformare i processi di democratizzazione in situazioni di belligeranza continua.
Mentre sono più chiare – almeno in apparenza e perché più recenti – le dinamiche della crisi libica-maliana, non altrettanto vale per quella siriana-irachena. Eppure proprio l’instabilità che regna in Iraq (nell’estate 2012 sono stati oltre 350 i morti in attentati “terroristici”, per lo più nel sud a maggioranza sciita e attribuiti a gruppi alqaedisti) fa da sfondo all’escalation della crisi siriana e al rafforzamento dell’appoggio iraniano al governo di Bashir al Assad. Ciò che è fallito in Iraq, nel dopoguerra, e che è andato alimentandosi soprattutto con il ritiro delle truppe americane, sono i tentativi di consolidare il nation e lo state building, ossia unificare, sotto un’unica bandiera e istituzioni condivise, quelle tribù, etnie o gruppi religiosi che sembrano ora essersi dichiarati una guerra regionale che va dall’Iran alle acque del Mediterraneo, e che fa dell’Iraq l’anello fondamentale dell’arco sciita guidato da Teheran.
Con l’irrisolta guerra in Iraq, si è avuta l’accentuazione delle diversità e delle disparità che, anche con l’aiuto dell’Occidente, si sono circoscritte geograficamente nelle aree proprie della loro tradizione (nord dell’Iraq curdo, centro sunnita e sud sciita). L’Iraq instabile è, quindi, anche alla base di quanto avviene in Siria: mancando un governo stabile e credibile, in grado di mediare fra le diverse anime etniche e religiose, si è imposto lo scollamento fra il potere centrale e le rappresentanze anche sunnite moderate o dei curdi, favorendo le forze estreme, sia sciite (pro Iran) che sunnite, quest’ultime patrocinatrici di istanze indipendentiste se non addirittura secessioniste. Ciò, inoltre, proprio per la delicata interdipendenza di fattori transnazionali, ha finito per far alienare al governo centrale iracheno l’appoggio di nazioni come l’Arabia Saudita, perché Bagdad è troppo vicina a Teheran, e della Turchia, che è interessata a risolvere a suo favore la questione curda, senza dover mediare sull’argomento con un Iraq debole e fortemente diviso.
Così la sanguinosa rivolta siriana trae anche il suo sostentamento dalla guerra insoluta in Iraq, Paese che è stato tolto al controllo di un dittatore sunnita per consegnarlo nella mani di un esecutivo in cui la componente sciita guarda ora con maggiore benevolenza Teheran che ad una lontana Washington sebbene, in 8 anni di guerra, quest’ultima si sia fatta carico, con il suo elevato numero di vittime e feriti, della liberazione e della democratizzazione di quel popolo. Ma la sua fragilità e l’elevato numero di attentati terroristici confermano che quello sforzo non è servito. Il Mali, allo stesso modo, sta assorbendo i contraccolpi di un’instabilità che è l’unica espressione, e più cocente, della sanguinosa rivolta in Libia, ben presto convertita in una guerra civile dagli aspetti deliranti, dopo un intervento esterno tanto sbrigativo quanto incompleto.
L’uccisione dell’ambasciatore americano Stevens, a settembre del 2012, seguiva gli attacchi terroristici che avevano insanguinato la Libia da Bengasi a Misurata, nel corso dell’estate, con obiettivi come gli uffici dell’Onu, della Croce Rossa Internazionale e della stessa ambasciata britannica, e di cui venivano accusate non precisate milizie armate salafite. Insomma, non certo una situazione di sicurezza e stabilità, in cui diventava difficile individuare i responsabili di azioni, come il dramma umanitario di Bani Walid che veniva, imputato dai miliziani filogheddafiani come atto terroristico ordito da al Qaeda con il supporto delle forze di occupazione straniere, ossia la Nato.
Di una cosa sola vi è certezza, ossia che ad oltre un anno dalla morte di Gheddafi e dalla tanto acclamata liberazione della Libia da parte delle forze militari occidentali, quel Paese sta vivendo un forte degrado del suo sistema di sicurezza e, inevitabilmente, anche delle sue stesse condizioni materiali di vita, in una situazione così drammatica per via dell’inesistenza di un governo unito e supportato validamente dall’esterno, a cui fanno da sfondo le azioni di guerriglia salafita, con il pericoloso rischio di un ripiegamento di questa violenza sulle piccole realtà locali, con le loro specifiche rivendicazioni.
Le stesse dinamiche che un tempo hanno prevalso sull’Iraq in guerra, ossia la suddivisione e quasi ghettizzazione delle minoranze in aree geografiche distinte, si stanno esprimendo anche in Libia, con il tentativo della Cirenaica filogheddafiana di rendersi autonoma dalle altre due regioni, il Fezzan e la Tripolitania. Così è successo e sta succedendo per il resto dell’ Africa: dalla decennale lotta e sanguinaria frammentazione della Somalia, una larga fetta di quel continente, dal Sudan al Mali, passando dalla Nigeria, vede quegli Stati spezzarsi in due lungo quella linea mai demarcata fisicamente ma propria della tradizione di quei luoghi, che vede un Nord decisamente musulmano e a tratti filoarabo distinguersi da un Sud nero cristiano o animista. L’intervento, poi, di elementi estremi, genericamente definiti salafiti e alqaedisti, infiamma il confronto fra realtà diverse, da sempre conviventi e ora, per l’ impulso violento di un progetto disgregante e destabilizzante, in forte crisi per instabilità e insicurezza.
Non è un caso che proprio di fronte all’esacerbarsi del contrasto etnico tanto da diventare razziale, fra un Nord di Tuareg arabi e un Sud a maggioranza nera, le Nazioni Unite, su richiesta della Francia, stiano pensando di comporre una forza di peacekeeping, da dislocare in Mali entro la primavera, non “africana” ma “bianca”, sottolineando la rilevanza dei rischi e del forte contrasto fra etnie e razze, e che sono il risultato più tangibile della crisi in Mali e dell’incapacità a gestire dapprima la crisi libica, a mediare fra le milizie, disarmarle e soprattutto a controllare i loro traffici e le loro connivenze.
Ciò che sembra prendere forma nel continente africano, quindi, è un processo di smembramento di realtà statali, in cui i confini fisici imposti dalla decolonizzazione, sembrano cadere sotto i colpi di nuove sommosse: inizia, infatti, a vacillare ampiamente quel principio di intangibilità delle frontiere sebbene sia riconosciuto dall’intera comunità dell’Unione Africana, che vede così traballare uno dei suoi fondamenti giuridici con l’aiuto e l’avvallo da parte della comunità internazionale. Non è, infatti, un caso che le nuove realtà nazionali, come il Sud Sudan, siano state immediatamente riconosciute da Stati Uniti, Francia e Regno Unito. Tuttavia, l’aspetto più delicato dell’intera vicenda della scissione di entità statali non sta tanto nella configurazione di nuove frontiere, ma in quel che diventeranno quelle realtà una volta indipendenti, la natura dei loro governi e soprattutto la percezione che potranno avere dell’appartenenza o meno al nuovo Stato che verrà a crearsi.
Quello della “balcanizzazione” che sta prendendo piede dalle rivolte si sta rivelando - e si rivelerà per altre aree - un processo che non può che fallire, perché sui condivisibili principi di diritto all’autodeterminazione dei popoli sta prevalendo, invece, l’ aspetto più negativo, insito in questo piano strategico, di separare per indebolire. Ciò che ha finito, infatti, per dominare, sia nell’ Iraq post conflitto e ora in Libia (e non si esclude in futuro anche per la Siria e il Libano) e per gran parte dell’Africa, sono logiche estranee alla cultura e all’approccio occidentale, come il principio di identificazione settario o clanico su cui si sta imponendo, con la forza, il fanatismo religioso, che è diventato il vero elemento unificatore a scapito di altri, come appunto le libertà individuali e la democrazia, propri di una cultura occidentale non necessariamente condivisa e che, in quei luoghi, appare ora per lo più nemica, perché incapace a sostenere il domani di quelle rivolte.
15/2/2013
Foto: Reuters/Yannis Behrakis
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